Le nuove dimensioni del commercio globale stimolano alcune riflessioni, la prima delle quali avente a oggetto l’esistenza di un’eventuale soglia critica, oltre la quale la curva della domanda e quella dell’offerta, fino a un certo punto rappresentabili come parallele, cominciano invece a separarsi.
È un ragionamento che porta a quello che la psicologia dei consumi, già da tempo, ha ribattezzato come il “paradosso della scelta”, fondato sulla confutazione di una equazione solo in apparenza corretta.
È comune convinzione, difatti, che il benessere individuale cresca di pari passo rispetto alla libertà che ognuno di noi riesce a conquistare, e siccome la facoltà di scegliere è un sintomo di libertà (poiché, per definizione, chi non dispone di scelta non può considerarsi libero), più ampie sono le opzioni a disposizione, maggiore è il benessere conseguibile.
Il paradosso della scelta
Quello che precede, in realtà, si appalesa come un ragionamento fallace. Lo ha bene illustrato lo psicologo americano Barry Schwartz che nel 2004 ha pubblicato il celebre saggio “The paradox of choice”.
Basta provare ad inserire su un motore di ricerca il nome di un prodotto di facile consumo accompagnato dall’espressione “acquista online” per rendersene conto.
Per qualunque tipologia di necessità esiste ormai una possibilità di scelta pressoché infinita, e di fronte all’incredibile molteplicità di alternative a disposizione, si manifesta un fenomeno inaspettato: la propensione all’acquisto inizia a diminuire.
L’information overload, il sovraccarico informativo, frena il consumatore, che finisce per non orientarsi e si rivela spesso incapace di individuare la scelta “migliore”. Senza contare che, post-vendita, cresce spesso un senso di insoddisfazione, perché il dubbio che la scelta scartata sarebbe stata più soddisfacente di quella compiuta impedisce di godere a pieno dell’acquisto.
Insomma, sulla base di queste premesse, l’eCommerce rischia di estendersi in modo disordinato ed ipertrofico.
La crescita dell’eCommerce
Le statistiche descrivono, con analitica precisione, l’esponenziale diffusione dei sistemi di eCommerce, sostanzialmente in ogni parte del pianeta.
La progressiva crescita della domanda online, difatti, è seguita – e spesso fortemente stimolata – da un eccezionale incremento dell’offerta, con conseguente esplosione dei consumi.
Se questa tendenza accompagna lo sviluppo della rete ormai da anni, non v’è dubbio che il mercato abbia subito un’accelerazione ancor più spinta da quando l’emergenza sanitaria ha allontanato i consumatori dai negozi ed il “dialogo” a distanza ha cessato di rappresentare un’opzione, per diventare una pressoché imprescindibile necessità.
In Europa, i settori più dinamici sono quelli che ruotano intorno alla moda, l’elettronica di consumo, il tempo libero, l’arredamento, l’alimentare, la salute e la bellezza.
L’abbattimento delle frontiere, i grandi player della distribuzione, la diffusione capillare della rete senza distinzione per fasce d’età, rappresentano gli elementi distintivi di questa sorta di mercato universale, che per ogni tipologia di prodotto finisce per offrire infinite alternative di acquisto.
Less is more, anche nell’eCommerce
“Less is more”, anche in quest’ambito.
Risale agli anni Cinquanta un interessante saggio dello psicologo George Miller intitolato “The Magical Number Seven, Plus or Minus Two: Some Limits on Our Capacity for Processing Information” ovvero “Il magico numero sette, più o meno due: alcuni limiti sulla nostra capacità di processare informazioni”.
Quell’indagine muoveva dall’assunto che gli individui siano in grado, mediamente, di concentrare la propria attenzione solo su 7 oggetti alla volta (più o meno 2, quindi 5,6 o 8,9). Oltre quel numero, la capacità cognitiva inizia a patire sovraccarico e confusione.
Un ventaglio non troppo ampio di scelte, al contrario, agevola i consumi e massimizza il benessere.
A conferma di questo ragionamento si può citare un famoso esperimento condotto nel 2000 da Sheena Iyengar, professoressa di Economia presso il Dipartimento di Gestione della Columbia Business School, e da Mark Lepper, professore di psicologia alla Stanford University.
In un supermercato vennero allestiti due differenti tavoli, destinati all’assaggio gratuito di prodotti. In un tavolo vennero presentati 24 diversi tipi di marmellata, mentre nell’altro le tipologie disponibili erano ridotte a 6.
Ebbene, in questo secondo caso, ben il 30% delle persone acquistò un prodotto, laddove nel caso delle 24 marmellate diverse solamente il 3% dei clienti scelse di effettuare un acquisto.
Le ricerche che si occupano di queste dinamiche sono in continua crescita, così come gli studi sul comportamento degli utenti della rete, su ciò che li guida e su cosa li frena.
Ridurre l’offerta della rete per agevolare gli acquisti, tuttavia, non è certamente una strada percorribile.
La presenza di agguerriti venditori telematici, anzi, aumenterà ancora, che la nostra capacità cognitiva sia in grado di fronteggiarli oppure no.
Ecco perché, in un oceano così vasto, per ogni operatore economico risulterà sempre più importante trovare il modo di distinguersi dagli altri, riuscendo a mostrarsi come un colorato pesce tropicale in un acquario di trote, così da rendere più semplice possibile l’agognato meccanismo del “scelgo te!”.
Regole e procedure, non solo marketing e reputazione
Certo, è principalmente una questione di marketing e web reputation, ma non solo.
C’è un tema che riguarda regole e procedure.
Perché se è vero che qualunque proposta online mira a rendersi facilmente riconoscibile, la mappa che dovrebbe agevolare il consumatore nella ricerca dovrebbe essere disegnata nel rispetto di un perimetro di regole ben definite.
Esiste già un’ampia casistica di condotte che si sono rivelate estranee a quel perimetro, basti, a tal proposito, pensare al cosiddetto astroturfing, pratica che tende a creare un’opinione positiva o negativa di un prodotto ovvero di un’impresa, avvalendosi a tal fine di una serie di azioni e contenuti ingannevoli.
Il business delle finte recensioni
Si tratta, per esempio, del fenomeno delle finte recensioni online – positive o negative – i cui effetti sono stati chiaramente palesati dal rapporto dal famoso sito TripAdvisor rispetto all’anno 2018: 66 milioni di contributi proposti nel 2018 dagli utenti, bocciati il 4,7% di cui il 2,1% palesemente falso.
Già nel 2014 l’Autorità Antitrust si era interessata a Tripadvisor rilevando attività “riconducibili alle [diverse] tipologie: boosting: inserimento di false recensioni positive su una struttura; vandalism: inserimento di false recensioni negative sulla struttura di un concorrente nel tentativo di danneggiarne la reputazione online; optimization: sistematica pubblicazione di recensioni fraudolente, generalmente ad opera di aziende terze a fronte di un pagamento; incentives/discounts/free treatments: rilascio di false recensioni positive collegate all’offerta, da parte delle strutture, di sconti, riduzioni, buoni e altri tipi di incentivi in favore degli utenti”.
Si tratta di condotte che, a tacer d’altro, presentano elementi penalmente rilevanti, poiché diffamatorie e non di rado truffaldine (così come definite nella nota sentenza del tribunale di Lecce a carico del titolare di PromoSalento) e si rendono colpevoli di forti impatti sull’identità digitale delle imprese vittime.
Il business delle recensioni artefatte, peraltro, non si è sviluppato solo con l’obiettivo di danneggiare le imprese concorrenti, ma se ne sono registrate ampie tracce anche in diversi tentativi, più o meno maldestri, di autopromozione.
Si stima che l’incremento dei guadagni, per esempio per un albergo o un ristorante, grazie alla disponibilità di buone recensioni, possa stimarsi in una forbice tra il 5% e il 9%: vien da sé che in tanti, privi di buone recensioni (e buone qualità da recensire) hanno ben pensato di inventarne in dosi tali da condizionare il comportamento e le scelte dei propri potenziali clienti.
Conclusioni
L’eCommerce, in sostanza, tende ad esaltare la ricerca, spesso esasperata, di quei caratteri distintivi che possano agevolare le proprie proposte rispetto alle altre.
L’auspicio, di fronte a questo quadro, è che un’ordinata evoluzione del mercato spinga a valorizzare i caratteri distintivi fondati sulla trasparenza, la correttezza delle prassi commerciali e, in definitiva, una sana competizione.
L’alternativa esporrebbe al caos, confonderebbe i consumatori e, alla lunga, finirebbe per penalizzare le imprese.