Venerdì 20 febbraio, il giorno in cui in Italia veniva scoperto il paziente Covid-19 numero uno a Codogno, in Lombardia, consegnavo all’editore Raffaello Cortina l’ultima revisione di bozze del libro su Amazon che sarebbe apparso nel mese di maggio con il titolo “Amazon dietro le quinte”. Era difficile prevedere le conseguenze della pandemia che muoveva i primi passi in Europa, ma l’editore mi chiese di scrivere, poco prima che il libro andasse in stampa (aprile), una postfazione, dedicata a questo straordinario evento, e l’impatto che si poteva prevedere avrebbe avuto sul business di Amazon.
Scrissi che grazie al Covid e ai lockdown che costringevano a casa centinaia di milioni di consumatori in tutto il mondo (oltre a costringere molti negozi fisici alla chiusura per mesi), ci trovavamo in un nuovo mondo fatto “a misura di Amazon”. Un mondo cioè in cui le persone non si muovono, e Amazon fa viaggiare le merci. E gliele vende, le porta nelle case dei consumatori.
Aggiorniamo allora alcuni dei punti toccati nel libro, il cui stato di avanzamento si fermava appunto al febbraio 2020. Partiamo dai dati, e da un antefatto.
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La volata di Amazon grazie alla pandemia
La conseguenza principale dell’epidemia Covid, da febbraio 2020 a oggi, è stata una accelerazione del tasso di crescita dei ricavi di Amazon dal circa 20% a cui Amazon viaggiava nell’ultimo trimestre del 2019 (e ancora nel primo trimestre del 2020), a una crescita tra il 40 e il 45% nei trimestri impattati dai lockdown causati dal Covid. Questo ha significato nel corso del 2020 (e ancora nel primo trimestre del 2021) un salto gigantesco nei ricavi, passati da 280 miliardi alla fine del 2019 a 386 miliardi alla fine del 2020, con un aumento assoluto di oltre 106 miliardi di dollari (ci sono pochi retailer al mondo che fatturano la cifra che Amazon ha aggiunto al proprio fatturato in 12 mesi). L’utile operativo nei 12 mesi è aumentato del 57%, quello netto addirittura del 121%. Nel primo trimestre di quest’anno l’impatto del Covid ha prodotto risultati simili, con un aumento dei ricavi del 41% a 419 miliardi, un aumento dell’utile operativo del 97% e del netto del 220%. Da notare che ora le dimensioni del più grande retailer al mondo, Walmart (524 miliardi di ricavi nel 2020), sono “in vista”, cioè Amazon si avvia a raggiungere in poco tempo quello che ancora qualche anno fa sembrava un irraggiungibile colosso planetario.
Mentre la prima parte del libro si concentrava sulle “luci” di Amazon, cioè gli aspetti positivi e innovativi della gestione e della cultura aziendale di questo gigante dell’e-commerce, nella seconda parte del libro mi sono occupato delle “ombre”, cioè delle problematiche legate all’antitrust e alla bassa tassazione di cui godono le principali multinazionali della tecnologia (per lo più di origine statunitensi). Ho tratteggiato i principali rilievi e le indagini antitrust in corso nei principali paesi occidentali, e i meccanismi che vengono utilizzati per minimizzare (o ottimizzare, come eufemisticamente si dice) il carico fiscale.
L’antefatto: come Amazon ha eliminato la concorrenza senza violare le norme antitrust
A gennaio 2017 viene pubblicato sul Yale Journal of Law un paper firmato da Lina Khan, intitolato “Amazon’s Antitrust Paradox”. La giovane studentessa di Yale mette in evidenza il paradosso delle nuove piattaforme digitali: non ledono in apparenza i principi che guidano l’azione dell’autorità antitrust negli Stati Uniti, perché offrono prezzi bassi (o servizi gratuiti, come nel caso delle ricerche su Google o la partecipazione alla piattaforma di Facebook, che è gratuita – entrambi in cambio di pubblicità, e cessione di dati, che le piattaforme sanno come “valorizzare”), e ampliano l’offerta. Clamoroso il caso di Amazon, che ha a catalogo “centinaia di milioni di articoli”, di cui alcune decine di milioni disponibili per consegna in meno di 24 ore. Ma il paradosso è che questo approccio (codificato dalla Scuola di Chicago, che dagli anni ’80 si è interessata solo al “consumer welfare”, riducendo la propria attenzione esclusivamente a prezzi e ampiezza dell’offerta di prodotti e servizi, e capacità di innovazione) è che ha permesso negli ultimi due decenni a poche piattaforme digitali (definiti come Big Tech, o Big 4 o Big 5, o FAANG o GAFAM, a seconda che vengano incluse Netflix o Microsoft) di creare una pericolosa posizione dominante, e riuscire a sfruttarla per far crescere a dismisura il proprio business, a una rapidità senza precedenti (Amazon ha il record per la velocità con cui ha raggiunto i primi 10 miliardi di fatturato, con AWS, e i primi 100 miliardi). Lina Khan in particolare solleva il punto di come Amazon abbia usato i prezzi sempre bassi, al limite del “predatory pricing”, per eliminare ogni tipo di concorrenza, e anche in questo sta un paradosso di come le autorità Antistrust definiscono il benessere del consumatore, trascurando di fatto gli effetti distorsivi sull’architettura competitiva del mercato. Quindi una attenzione troppo rivolta al breve termine, troppo poco agli effetti strutturali visibili nel medio e lungo periodo (oltre alla interconnessione esistente tra varie parti del business delle piattaforme digitali, come ad esempio nel caso di Amazon, come vedremo più sotto, il legame tra Prime e FBA). Mancava fino a qualche anno fa evidenza del “recoupment”, cioè dell’azione di recupero degli extra profitti derivanti dagli investimenti sui prezzi predatori, ma proprio su questo punto dell’aumento dei prezzi generato da una situazione di monopolio si focalizza una nuova indagine antitrust, come vedremo tra breve.
I dati usati per danneggiare i venditori? Il nuovo fronte aperto dall’Ue
Novembre 2020. Dopo una indagine iniziata nel luglio 2019 sulle pratiche commerciali usate da Amazon nella gestione della piattaforma per venditori terzi (in particolare focalizzata sul funzionamento dell’algoritmo che determina l’assegnazione della buy-box alla migliore offerta sul sito di Amazon, uno dei più segreti elementi del funzionamento di Amazon), la commissaria per la concorrenza Margrethe Verstager annuncia l’apertura di una seconda indagine su Amazon, per chiarire l’uso che Amazon ha fatto dei dati che custodisce sull’attività dei venditori terzi. Vi è un possibile conflitto di interessi, perché Amazon decide unilateralmente le regole che impone ai venditori terzi per l’utilizzo della piattaforma e l’accesso ai propri clienti, ma allo stesso tempo vende come retailer agli stessi clienti, dunque in competizione con i venditori terzi, sia prodotti che acquista da fornitori terzi, ma anche prodotti a marchio proprio. Vi è dunque il sospetto che Amazon possa essersi avvantaggiata di questa asimmetria, dovuta alla enorme mole di dati che acquisisce da anni grazie alla presenza di 2 milioni di venditori terzi sulla propria piattaforma, che si stima listino oltre un miliardo di prodotti.
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Le clausole che fanno lievitare i prezzi su internet
25 maggio 2021. Il procuratore generale del distretto di Columbia Karl Racine punta il dito sulla clausola del BSA (“business solution agreement”, il contratto che regola i rapporti tra Amazon e i venditori terzi sulla piattaforma) che era detta di “most favorite nation”, una clausola che obbliga i venditori a rispettare una parità di prezzo (o PPP, “price parity provision”) tra Amazon e le altre piattaforme (come Walmart o eBay). La clausola di MFN era stata già abbandonata in Europa dopo procedimenti delle autorità antitrust inglese e tedesca contro Amazon del 2013, ma è rimasta in vigore negli USA fino al 2019. Da allora la clausola di MFN è stata sostituita da una identica, nella sostanza, FPP, o “fair pricing policy”, che lascia ad Amazon la piena discrezionalità di intervenire e negare la buy-box (cioè il pulsante acquista ora, dal quale transitano il 90% delle vendite sul sito Amazon) a quei venditori che praticano prezzi minori su altre piattaforme di e-commerce. Nel testo della causa contro Amazon, il procuratore generale della Columbia scrive che, avendo Amazon una quota del mercato online compresa tra il 50 e il 70% (mentre stima al 5% quelle di Walmart e eBay), e imponendo ai venditori elevate commissioni di vendita, che possono arrivare al 45% del prezzo finale di vendita al pubblico (in particolare per i venditori FBA, cioè quelli che usano la logistica di Amazon, a cui possono ancora aggiungersi spese di pubblicità – Amazon è la terza piattaforma mondiale di pubblicità online dopo Google e Facebook), questo risulta in prezzi artificialmente alti su internet. I venditori vorrebbero infatti vendere a prezzi minori su Walmart e eBay, dove le commissioni sono minori che su Amazon, ma non possono, per via delle clausole a cui obbliga il contratto con Amazon. Il nuovo contratto del 2019 non cita più espressamente la clausola di parità di prezzo MFN, ma di fatto i venditori terzi che hanno abbassato i prezzi sulle altre piattaforme sotto quello praticato su Amazon (o sul loro stesso sito internet, dove ovviamente non pagano commissioni), hanno visto le vendite ridursi fortemente. Dunque secondo il procuratore generale della Columbia queste clausole corrispondono ad accordi orizzontali volti a impedire la concorrenza dei venditori terzi su altri siti, mentre il conflitto di interessi tra Amazon Retail (cioè Amazon che vende in conto proprio, talora i propri prodotti a marchio privato) e Amazon gestore della piattaforma in competizione con i venditori terzi costituisce una forma di controllo verticale sui venditori terzi, entrambi con la medesima conseguenza, di gonfiare artificialmente i prezzi sul canale online.
La chiave è nell’algoritmo che assegna la buy-box
Il punto chiave di questa e altre indagini antitrust (come quella del dipartimento per la concorrenza della commissione europea, guidato dal commissario Margrethe Verstager) è l’algoritmo che assegna la buy-box. Ovviamente la “Prime eligibility”, e non il prezzo al pubblico, è il fattore principale di successo in questo caso, il che spiega l’esplosione negli ultimi anni del servizio detto FBA, cioè “fulfilled by Amazon” (85% dei venditori utilizzano questo servizio, un dato che è raddoppiato negli ultimi 5 anni), il servizio di logistica acquistato dai venditori appunto per guadagnarsi la “Prime eligibility” e dunque la buy-box. Quando Amazon si accorge che un venditore non sta rispettando la clausola di FPP (“fair pricing policy”), invia email di avvertimento al venditore facendo notare che il prezzo sul proprio sito è troppo elevato rispetto ai prezzi che il software di pricing di Amazon monitora sugli altri siti (Amazon non può imporre il prezzo ai venditori terzi, che lo determinano in teoria in autonomia, ma Amazon ha vari modi per influenzare il price setting dei venditori terzi, ad esempio questi alert automatici). Se il venditore non allinea tempestivamente i prezzi, perde la buy-box, fino a conseguenze più estreme che possono arrivare alla sospensione (temporanea o permanente) del conto di venditore.
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Le prove dell’abuso di posizione dominante
Il fatto che le commissioni che i venditori terzi pagano ad Amazon siano sostanzialmente superiori a quelle richieste da Walmart o eBay è per il procuratore generale chiara evidenza della posizione dominante acquisita da Amazon, che ha portato negli anni a un forte aumento delle commissioni pagate dai venditori (in dollari da 11,75 miliardi nel 2014 a oltre 80 miliardi nel 2020, cioè oltre il 20% dei ricavi di Amazon), e non una diminuzione, come ci si potrebbe aspettare da un business in così forte e tendenziale crescita, nel quale i costi fissi si ripartiscono su un numero sempre crescente di transazioni. Da notare che ormai oltre i due terzi delle unità vendute sulla piattaforma di Amazon sono dei venditori terzi, attività sulla quale Amazon gode di un margine di profitto che è all’incirca quadruplo rispetto a quello della classica attività di retail, cioè di vendita in conto proprio. Tutto questo, secondo il procuratore generale della Columbia, costituisce un chiaro abuso da parte di Amazon della propria posizione dominante nel settore delle vendite online. Posizione dominante che si evince facilmente dalla quota raggiunta nel segmento online da Amazon (il subcomitato antitrust del senato americano guidato dal senatore democratico David Cicilline, che ha investigato Amazon nel 2019 e 2020, stima la quota di Amazon tra il 65 e il 70%), ma che è rafforzata da insormontabili barriere all’ingresso, come il network logistico costruito in 25 anni di attività (stoccaggio e consegne – Amazon ha persino una flotta di aerei, consegna ormai oltre la metà delle unità che vende), costi di acquisizione clienti e marketing, ed effetti rete (detti “network effects”, la stessa accusa rivolta a Facebook, se tutti i miei amici sono su Facebook, ha poco senso che io mi iscriva su un altro sito di social media), che di fatto mettono Amazon al riparo da ogni tipo di concorrenza. Prime e Alexa (e la quantità di dati e informazioni che Amazon è in grado di acquisire attraverso questi programmi) sono ulteriori esempi di fidelizzazione della base clienti, e dunque di rafforzamento delle barriere all’ingresso.
Giugno 2021. Lina Khan, già autrice dell’ormai celebre paper intitolato “Amazon’s Antitrust Paradox” (2017), membro della commissione Cicilline del senato americano che ha investigato gli abusi di posizione dominante e le pratiche commerciali scorrette dei Big Tech (ha presentato un rapporto conclusivo nell’ottobre del 2020), viene nominata a presiedere la FTC, la Federal Trade Commission dall’amministrazione Biden. La FTC è l’agenzia del governo americano incaricata di svolgere le indagini antitrust su Amazon e altre grosse piattaforme digitali. Meno di un mese dopo la nomina, Amazon ne chiede la revoca, citando posizioni ben note della Khan, che si è espressa in termini piuttosto chiari: “Amazon ha violato le leggi antitrust, deve essere fatta a pezzi”. Amazon accusa Lina Khan di non avere dimostrato quella imparzialità necessaria per dirigere una agenzia governativa che deve svolgere delicate indagini antitrust.
Verso la minimum tax globale
Luglio 2021. Il segretario del tesoro americano Janet Yellen annuncia il raggiungimento di un accordo tra 130 paesi per una tassazione minima delle multinazionali. Si è parlato ripetutamente a partire dal 2015 di una “webtax”, volta a tassare i giganti dell’internet, sia a livello di singoli stati che di OECD, dove non era mai stato possibile trovare un accordo (vari stati europei si erano mossi su ipotesi di tassare direttamente i ricavi, con percentuali comprese tra il 2 e il 3%). Ora si tratterebbe invece di una aliquota globale minima del 15%, secondo indicazioni contenute in un lavoro preparatorio svolto a livello di OECD e pubblicato nello scorso mese di dicembre 2020. Verrebbe contrastato il fenomeno noto come BEPS, “base erosion and profit shifting”, del quale si sono avvantaggiati numerosi paesi a fiscalità di vantaggio, anche all’interno della stessa Comunità Europea (paesi come Olanda, Irlanda, Lussemburgo e Malta in particolare).
Conclusioni
A conclusione di questo breve excursus, possiamo riassumere che quello che Covid con una mano ha concesso (una imprevedibile accelerazione dei ricavi, un nuovo mondo nel quale i servizi digitali diventano inevitabile soluzione a molti problemi), con l’altra chiede di restituire: molte attività economiche tradizionali hanno sofferto, e così le entrate fiscali e i budget della maggior parte dei paesi, costretti dalla pandemia ad aprire i cordoni della borsa e spendere in deficit per sostenere le economie. È fin troppo ovvio ora dove andare a cercare le entrate fiscali che mancano all’appello.