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Tutela dei marchi sulle piattaforme ibride: cosa ci insegna il caso Louboutin contro Amazon Europe

Quali sono le responsabilità di una piattaforma che usa una strategia commerciale “ibrida” per la promozione e distribuzione di beni terzi, nel caso questi ultimi risultassero contraffatti? Le conclusioni dell’avvocato generale della Corte di Giustizia Ue sembrano tutelare più i falsari che i titolari dei marchi

Pubblicato il 06 Lug 2022

Luciano Daffarra

C-Lex Studio Legale

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Le conclusioni dell’avvocato Generale della Corte di Giustizia nella causa intentata dallo stilista e produttore di moda francese, Christian Louboutin contro la piattaforma digitale per la distribuzione di merce Amazon Europe., favorevoli a una liberalizzazione quasi incondizionata dell’eCommerce, ove accolte tout-court dalla Corte di Strasburgo aprirebbero un vulnus non solo alla tutela dei marchi commerciali, ma renderebbero possibile nel prossimo futuro un indebolimento della tutela anche per quanto concerne gli altri beni immateriali veicolati attraverso le reti di comunicazione elettroniche.

Vediamo per quale motivo.

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Christian Louboutin vs Amazon Europe

Fino al deposito in atti del parere dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia, che ha formulato le conclusioni ai giudici il giorno 2 giugno 2022 è stato per lunga pezza avvolto nella riservatezza e nella più assoluta incertezza l’andamento delle cause riunite C-148/21 e C-184/21, pendenti di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sulla base di due domande pregiudiziali trasmesse alla Corte di Strasburgo, rispettivamente l’8 marzo e il 24 marzo 2021, da parte del Tribunale Circoscrizionale del Lussemburgo e del Tribunale delle Imprese di Bruxelles.

Le questioni poste dai giudici del rinvio alla Corte di Giustizia si collocano proprio nella controversia che pone di fronte Christian Louboutin e Amazon Europe. Esse riguardano numerosi aspetti che sono peculiari della vicenda e altri che richiedono ulteriori approfondimenti di natura non solo giuridica ma anche tecnica. Se, infatti, il tema di fondo è quello riguardante la sussistenza o meno della responsabilità per fatto illecito di un operatore di una piattaforma “multisided” (“MSP”) che utilizzi una strategia commerciale “ibrida” per la promozione e la distribuzione di beni dei terzi ospitati dalla piattaforma, nel caso in cui questi ultimi risultassero contraffattivi di marchi altrui[1], vi sono ulteriori argomenti che impongono un esame più approfondito della materia e che riguardano più in generale la responsabilità dei fornitori di servizi in base alle Direttive dell’UE, prima fra tutte la Direttiva sul commercio elettronico.

Si tratta, in sostanza, di stabilire se il gestore di una piattaforma di distribuzione digitale di beni “fisici” (physical material), assuma l’obbligo di impedire a terzi, i cui prodotti sono posti in vendita tramite la suddetta piattaforma, l’offerta e la vendita di prodotti o servizi contraddistinti da segni distintivi identici o simili a quelli per i quali il titolare dei diritti abbia ottenuto la registrazione del marchio in uno dei paesi dell’Unione Europea e, conseguentemente, il primo abbia il dovere di vietare la vendita di merci contraffatte recanti il segno distintivo di cui il titolare dei diritti invoca la tutela.

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Un ulteriore passaggio fondamentale nell’azione mossa dallo stilista francese verso Amazon riguarda la pubblicità che i gestori della piattaforma riservano ai prodotti dei terzi venditori ospitati sul sito, in quanto in capo ad ogni annuncio appare il segno distintivo rinomato di Amazon, tanto da fare ritenere a un utente della rete che sia ragionevolmente informato e attento, che tale messaggio faccia parte integrante della sua comunicazione commerciale.

L’uso del segno distintivo di Amazon accompagna inoltre tutte le confezioni, incluse quelle contenenti i beni lesivi del marchio della parte ricorrente, che sono state spedite ai clienti dalla stessa impresa distributrice, come se si trattasse di prodotti legittimi.

Il riferimento normativo a cui le decisioni di rinvio si appellano principalmente è quello di cui all’art. 9, par. 2 del Regolamento (EU) 2017/1001 del Parlamento e del Consiglio Europeo pubblicato il 16 giugno 2017 sull’Official Journal dell’Unione, avente ad oggetto la “codifica con modificazioni, dei precedenti provvedimenti comunitari in materia di tutela dei marchi e degli altri segni distintivi”[2].

Il titolare del marchio Louboutin

Prima di addentrarci nel thema decidendum, risulta necessario comprendere chi sia il titolare del marchio che ha avviato la causa nei confronti dei gestori della piattaforma Amazon, per quali diritti esso agisca e quali siano i comportamenti illeciti ascritti alla controparte.

Molte delle lettrici e molti dei lettori conoscono la maison di Christian Louboutin, non solo perché essa crea prodotti di alta moda[3] ma, soprattutto, in quanto alcuni dei modelli di scarpe “a tacco alto” dalla stessa realizzati sono contraddistinti da una ben visibile suola “rossa”, corrispondente al colore del pantone 18-1663TP, che le ha rese famose nel mondo.

Il 28 dicembre 2009 tale colore è stato oggetto di deposito comunitario europeo, come marchio registrato “Benelux”, da parte del più volte nominato stilista, ottenendo la registrazione per la classe “25” dell’Accordo di Nizza in data 6 gennaio 2010, con il N. 0874489.

Le battaglie giudiziarie per il marchio di “colore” della Louboutin

La conferma della validità di tale marchio di “colore” della Louboutin non è stata pacifica o incontroversa: anzi vi è una lunga storia di battaglie giudiziarie che hanno comunque condotto a sentenze favorevoli al produttore sia negli Stati Uniti[4] che di fronte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea[5].

Nel primo caso, le ragioni che hanno spinto la Court of Appeals di New York a concedere, nel secondo grado di giudizio, un provvedimento favorevole alla tutela del segno distintivo dato dal particolare colore rosso delle suole delle scarpe a tacco alto di Louboutin, sono riconducibili principalmente alla sussistenza, ravvisata dai giudici, delle condizioni per applicare alla fattispecie la tutela derivante dal cosiddetto “secondary meaning” conferito al marchio dalla sua provenienza da un determinato produttore e dalla notorietà che tale segno distintivo ha acquisito nel tempo. In altri termini, in base alle norme vigenti negli Stati Uniti, il marchio in questione ha assunto carattere “distintivo” di un certo prodotto, in quanto, per il pubblico dei consumatori, il medesimo colore “rosso” del sopra ricordato pantone, posto sulle suole delle scarpe a tacco alto della Louboutin, assume quella funzionalità estetica, supportata dall’esito delle ricerche di mercato circa la riconducibilità di quel segno distintivo a quella determinata sorgente, che giustifica la tutela giuridica di un “brand with worldwide recognition” … “by placing the color red to a context that seems unusual”[6]. La Corte ha precisato peraltro che detta protezione fosse concessa al colore rosso di Louboutin purché la sua collocazione sulle suole delle calzature si ponesse in contrasto con il colore della parte superiore della scarpa[7], che deve essere quindi di diverso colore.

Con un ragionamento affatto peculiare, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza del 12 giugno 2018, ha accolto le allegazioni della Louboutin secondo cui “il colore rosso sarebbe inscindibilmente connesso alla suola di una scarpa”, … “sicché questo marchio non potrebbe essere qualificato come un semplice marchio bidimensionale”, escludendo peraltro che questo segno distintivo possa ricadere fra i marchi di “forma” secondo quanto stabilito dall’art. 3, par. 1, lett. c) punto iii) della Direttiva EU/2008/95[8]. Piuttosto, ha concluso la CGUE, “non è la forma ciò che la registrazione del marchio è intesa a tutelare, ma solo l’applicazione di un colore su una parte specifica del prodotto stesso”. Per quanto precede, trattandosi di un colore di identificazione di uno stilista riconosciuto a livello internazionale esso, se applicato sulle suole di una scarpa a tacco alto, non è tutelato quale marchio di “forma”, non essendo riferibile al contorno dell’intera calzatura, ma autonomamente come marchio di “colore”.

La posizione di Amazon Europe: strategie e operato

La tutela, territorialmente estesa del marchio sopra descritto, giustifica appieno la posizione dell’azienda francese in riferimento alla tutela del suo prodotto che, nella causa in esame, è stato oggetto di vendita attraverso l’offerta di esemplari contraffatti da parte di terzi operatori che erano ospitati sulla piattaforma di Amazon e si avvalevano di taluni servizi accessori di quest’ultima per la distribuzione dei prodotti ai clienti.

Per valutare il comportamento della controparte della ricorrente, cioè la posizione di Amazon Europe, vanno ora definite le caratteristiche che connotano le sue strategie e il suo operato avuto riguardo alla vendita di prodotti che non siano riconducibili direttamente all’azienda che gestisce la principale piattaforma digitale di e-commerce presente oggi nel mercato globale.

Abbiamo sopra brevemente accennato al fatto che le piattaforme multisides o MSP possono anche non essere esse stesse proprietarie dei beni che vendono, ricavando un utile dalla conclusione dei contratti relativi ai prodotti di terzi, sotto forma di commissione. Nel modello di business MSP definito “ibrido”, la stessa Amazon non solo offre al mercato beni di terzi ma fa in modo che i venditori utilizzino la sua struttura organizzativa per immagazzinare, promuovere e consegnare i prodotti agli acquirenti.

Questo è un modello commerciale di grande impatto e di estrema efficacia sul piano commerciale anche se presenta alcune problematiche legate al fatto che, trovandoci di fronte a un soggetto che opera sia come distributore che come fornitore di servizi on-line nei confronti dei terzi supplier, il gestore della piattaforma è in grado di venire a conoscenza di dati e informazioni sulle loro politiche di prezzi e di volume, oltre che sui costi dei prodotti, tanto da consentire a un gestore della piattaforma digitale “ibrida”, ove si trovi in posizione dominante sul mercato, di incidere sulla libera concorrenza o, financo, di condurre pratiche commerciali concertate[9] con gli altri operatori.

Fatte queste brevi premesse sul ruolo dell’azienda di Christian Louboutin e sulla strategia di distribuzione “ibrida” di Amazon Europe, vanno precisati i contorni delle lagnanze della casa di moda e le difese del distributore, per poi considerare il contenuto del parere dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia che ha formulato le conclusioni ai giudici il giorno 2 giugno 2022, come sopra accennato.

Ciò che in estrema sintesi la casa di moda francese, nei propri atti, rimprovera ad Amazon è di avere pubblicato sul suo sito web per la vendita di prodotti online, la pubblicità riguardante alcuni prodotti di terze imprese recanti il segno contraffatto e di avere essa stessa immagazzinato, spedito e consegnato, sotto il proprio nome, i prodotti oggetto delle due cause riunite.

Queste circostanze, secondo Christian Louboutin, attribuirebbero un ruolo attivo ad Amazon nella vendita a terzi dei prodotti oggetto di contraffazione, in quanto anche la promozione della vendita degli stessi è riconducibile alla strategia commerciale e di comunicazione del gestore della piattaforma, non limitandosi quindi la stessa a offrire un servizio “neutro”, ma creando le condizioni per le violazioni commesse dai terzi venditori. Inoltre, la presenza del marchio di “Amazon” sulla omonima piattaforma digitale che mette in mostra tutti i prodotti disponibili attraverso una visualizzazione distinta ma li presenta in maniera uniforme con i propri, senza evidenziare che alcuni degli stessi sono venduti da terzi, conferma il ruolo attivo svolto da Amazon nelle violazioni del marchio di “colore” di Christian Louboutin seppure essi siano riconducibili ai terzi fornitori del prodotto.

La risposta di Amazon

Da parte propria, Amazon ha sollevato numerose eccezioni circa le contestazioni della controparte. Sul piano del diritto sostanziale, essa afferma di essere esente da responsabilità per gli usi illeciti commessi dai terzi venditori che sono ospitati sulla sua piattaforma on-line, alla stregua delle norme di cui agli artt. 12 – 14 della Direttiva e-commerce. Inoltre, il mercato “ibrido” sviluppato da Amazon non determinerebbe mutamenti significati nei comportamenti degli operatori rispetto all’andamento dei mercati tradizionali. Il fatto poi che il segno distintivo di “Amazon” compaia anche sugli annunci di vendita dei terzi ospitati sulla piattaforma, non implicherebbe un coinvolgimento di Amazon stessa negli annunci, trattandosi di una prassi questa in uso da parte di altre piattaforme digitali che utilizzano la stessa modalità per identificare la provenienza dei servizi di gestione dei beni di terzi, come e-Bay e altri.

Inoltre, i consumatori sarebbero in grado di bene riconoscere i marchi e i prodotti dei terzi rispetto a quelli provenienti direttamente da Amazon, non rispondendo al vero che il pubblico identifichi la piattaforma di Amazon come un solo distributore, piuttosto che, invece, come un sito web che ospita diversi mercati, uno diverso dall’altro. La stessa Amazon ha altresì precisato che i servizi accessori di stoccaggio, spedizione e consegna offerti ai terzi venditori da parte della piattaforma non potrebbero essere considerati idonei ad equiparare le offerte dei terzi a quelle della impresa proprietaria del servizio on-line.

Anche la suddivisione delle offerte in categorie di prodotti per la loro visualizzazione sulla piattaforma sarebbe dovuta all’elevato numero di offerte pubblicate sul sito, senza che ciò determini un’integrazione delle suddette offerte nell’ambito di quelle proprie solo di Amazon.

Avuto riguardo al tema dell’offerta dei prodotti contraffatti di Christian Louboutin, Amazon sostiene che il fatto di consegnare direttamente ai consumatori taluni prodotti recanti un certo segno distintivo, non costituirebbe un “uso”, nel significato attribuito al termine dal Regolamento EU avuto riguardo al marchio stesso, cosicché i gestori della piattaforma non avrebbero dovuto essere a conoscenza dell’intervenuta contraffazione del marchio da parte di soggetti terzi, seppure essi siano stati stoccati e spediti da Amazon agli acquirenti. Di tali violazioni Amazon non potrebbe essere considerata quindi responsabile, poiché un soggetto che determini le condizioni tecniche per lo sfruttamento di un segno distintivo appartenente a un terzo, non significa che si renda responsabile anche dell’uso illecito che il terzo fa di tale marchio.

Ha poi osservato Amazon che solo nel caso in cui un’impresa immetta sul mercato i prodotti da lui stesso immagazzinati per rivenderli a proprio nome e vantaggio, possa assumere una responsabilità nel caso in cui quelli risultassero contraffatti e lo stesso principio varrebbe nel caso della spedizione della merce.

Infine, sul piano delle norme di legge che regolano il mercato on-line, Amazon afferma che le regole afferenti alla responsabilità degli internet hosting providers, in caso di vendita di prodotti recanti un marchio contraffatto, non si applicherebbero alla distribuzione effettuata tramite la vendita di beni fisici, non potendo trovare applicazione la norma che attribuisce rilevanza al “ruolo attivo” svolto dai fornitori di servizi nel settore della veicolazione di contenuti digitali on-line.

Le conclusioni dell’Avvocato Generale

Così rapidamente illustrati i temi di maggiore rilevanza che contraddistinguono le due cause riunite di cui ci occupiamo, è interessante ora esaminare sinteticamente il contenuto delle conclusioni dell’Avvocato Generale Maciej Szpunar, per comprendere quali siano gli argomenti centrali dallo stesso sviluppati e quali le linee di tendenza che contraddistinguono la visione del problema in seno alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea su un tema tanto delicato, quanto importante.

L’Avvocato Generale affronta le diverse questioni sopra accennate attraverso una serie di richiami a norme e decisioni della Corte di Giustizia, partendo dal presupposto che, qualunque sia la decisione da assumersi in questa complessa vicenda, si applicherà comunque l’art. 11 della Direttiva Enforcement[10] (Dir. 2004/48/CE), ricordando quindi che si applica la legge nazionale degli Stati Membri per tutti i casi in cui un intermediario sia coinvolto in violazioni della proprietà intellettuale.

Questa speculazione, basata su una norma consolidata di legge, pare trascurare il fatto che le questioni pregiudiziali portate all’attenzione della Corte di Giustizia nella controversia in oggetto sorgono proprio da un rinvio operato a tale giudice durante un procedimento inibitorio, sul quale ci si attende, da parte del massimo tribunale comunitario, una riflessione che non appaia da subito un rimando ad altri rimedi, ma una ponderata e completa disamina di un problema molto serio che può incidere sui futuri assetti della difesa della proprietà intellettuale in tutto il globo.

Il “tentativo” – come lo definisce l’avvocato Maciej Szpunar – di ravvisare una responsabilità del gestore di una piattaforma di vendite online di prodotti contraffatti, secondo la sua opinione, seppure sia comprensibile dal punto di vista del titolare del marchio, appare complicato sia per la localizzazione dei terzi venditori che per la loro precisa identificazione. Questo dato di fatto (cioè la difficoltà di identificare i contraffattori) non potrebbe condurre, secondo l’Avvocato Generale, a una soluzione diversa dalla ricerca di un “equo” bilanciamento degli interessi in gioco.

Tale opzione, secondo il prologo delle conclusioni tracciate dall’Avvocato Generale, non dovrebbe interferire con lo “sviluppo di nuove attività e con ogni forma di innovazione del settore”. Inoltre, (par. 7 delle stesse conclusioni) non essendo pensabile che possa fare carico ai gestori delle piattaforme un “obbligo generale di sorveglianza”, secondo i principi generali della Direttiva e-commerce, il problema dell’attribuzione della responsabilità delle piattaforme “ibride” – impregiudicato il ricorso allo strumento delle misure interinali o d’urgenza, sopra citate – andrebbe cercata altrove.

Il termine “uso” riferito al marchio e agli altri segni distintivi

Secondo l’iter logico seguito dall’Avvocato Generale, la risposta alla questione della tutela dei prodotti posti in vendita dai titolari dei diritti (di marchio, nella fattispecie) dovrebbe essere anzitutto trovata nella lettura delle disposizioni dell’art. 9, par. 2, del Regolamento EU/2017/1001 (in nota 2) e, segnatamente, nel significato dato in esso al termine “uso” riferito al marchio e agli altri segni distintivi.

Prendendo le mosse da questa norma, l’Avvocato Generale dà atto che, in base alla giurisprudenza comunitaria, l’accezione “usare” utilizzata nel Regolamento di cui sopra implicherebbe necessariamente un comportamento attivo o un controllo sul segno distintivo da parte di chi se ne avvale. Questo ruolo attivo svolto nei confronti dell’uso del marchio costituirebbe la condizione necessaria affinché sussista una violazione dello stesso da parte del gestore di un mercato digitale che collabori con i terzi venditori per lo stoccaggio, la promozione e la consegna delle merci contraffatte.

Da questa constatazione conseguirebbe, in linea con la giurisprudenza comunitaria, che anche l’utilizzo del segno distintivo abusivo nella pubblicità commerciale di un intermediario on-line non genererebbe una responsabilità diretta del gestore della piattaforma ibrida, dal momento che i soggetti coinvolti in tale attività sarebbero i clienti – cioè i terzi detentori dei siti web che mettono in vendita i loro prodotti (originali o meno) sulla piattaforma digitale. Pur dando atto che non esiste una precisa definizione di “uso di un segno nella propria attività commerciale”, l’Avvocato Generale ritiene che in ogni caso, per stabilire se sussista o meno la responsabilità del gestore della piattaforma, sarebbe necessario provare l’esistenza di un nesso fra il segno e i prodotti commercializzati o i servizi forniti dal terzo.

In tal senso, riprendendo le parole del collega Campos Sànchez Bordona, nella causa Coty Germany,[11] il quale scrisse nelle proprie conclusioni: “se l’acquirente potesse ritenere che sia [il gestore del mercato] ad immettere in commercio i prodotti si potrebbe concludere che “esiste un uso del marchio””, l’avvocato Maciej Szpunar ritiene che le due questioni, quella relativa all’uso di un marchio da parte del gestore della piattaforma digitale, rispetto a quella che tale utilizzazione possa violare una delle funzioni perseguite dal marchio, costituirebbero temi distinti (par. 64 concl. e successivi punti 65 e 66).

L’importanza della percezione dei consumatori

Partendo da questa analisi, l’Avvocato Generale sposta la propria attenzione su un altro aspetto che avevamo in precedenza tratteggiato nella nostra sintesi: quello della “percezione di un utente di internet normalmente informato e ragionevolmente attento”, cioè si focalizza sull’importanza della percezione dei consumatori circa l’avvenuta appropriazione del marchio in questione da parte del gestore della piattaforma nell’utilizzarlo in seno alla sua comunicazione commerciale. Richiamando alcune precedenti decisioni della Corte di Giustizia nei casi Google[12] ed e-Bay[13], l’Avvocato Generale evidenzia quindi che solo qualora un determinato soggetto selezioni, ad esempio, “una parola chiave per la ricerca di uno specifico marchio per fare comparire un link pubblicitario”, potrà dirsi che i “messaggi” che compaiono su dette piattaforme si possano intendere come facenti parte della loro comunicazione commerciale, essendo invece irrilevante l’identità del venditore, dal momento che “il solo criterio rilevante per l’acquisto è il prodotto e il suo prezzo”.

Su questi elementi fondanti il convincimento dell’Avvocato Generale, egli ha poi proceduto con l’esame delle questioni pregiudiziali poste dai giudici del Lussemburgo e del Belgio che, come ha evidenziato il relatore alla CGUE, riguardano – per quanto concerne la causa C-148/21 l’ipotesi di responsabilità diretta (non vicaria, quindi) di un gestore di una piattaforma commerciale “ibrida” fondata sull’uso di un marchio (di un noto stilista) in un’offerta di vendita che includa le proposte proprie e quelle di terzi senza distinguerle nella loro visualizzazione in ragione della loro origine. Ciò avverrebbe da parte di Amazon facendo uso del suo logo sugli annunci sia propri che di terzi, come pure sui rispettivi siti web, offrendo al contempo ai terzi venditori servizi aggiuntivi che comprendono lo stoccaggio e la consegna dei prodotti in questione, informando gli acquirenti che la piattaforma si farà carico di questi servizi (concl. par. 75).

L’Avvocato Generale, nel considerare che le offerte presenti sul sito di Amazon recano sempre l’indicazione circa il soggetto terzo che le pone in vendita, risponde a tali quesiti asserendo che la mera presenza del logo del gestore della piattaforma, non impedisca a un internauta normalmente informato e ragionevolmente attento di distinguere fra i marchi dei terzi venditori e quello di Amazon che contraddistingue i prodotti proposti al pubblico direttamente da quest’ultima impresa. Nel medesimo contesto e con la stessa logica va considerata – secondo l’avv. Maciej Szpunar – l’integrazione degli annunci pubblicitari dei prodotti più venduti o più regalati, in quanto essa avverrebbe, come dichiarato in udienza da Amazon, in maniera automatica, raggruppandoli in categorie omogenee.

Stoccaggio e consegna dei prodotti contraddistinti da un marchio

Ritornando al tema dello stoccaggio e della consegna dei prodotti contraddistinti da un marchio, fasi durante le quali sui servizi compare sempre il segno distintivo del titolare della piattaforma, l’opinione del relatore alla CGUE circa la possibile sussistenza in tale ipotesi di un “uso” del marchio da parte di Amazon è negativa, sulla scorta dell’interpretazione data nella sentenza Coty Germany dalla stessa Corte di Giustizia all’art. 9, secondo comma del Regolamento 2017/1001[14].

Secondo l’Avvocato Generale tale principio non è messo in discussione dal fatto che gli annunci pubblicitari sono stati pubblicati da Amazon, in quanto neppure la loro pubblicazione rientra nel concetto di “uso” del marchio altrui. Del pari, secondo l’Avvocato Generale, l’integrazione di più servizi in una sola piattaforma troverebbe radici, invero non profonde, nelle sentenze “Elite Taxi”[15] e “Uber France”[16] ove si è stabilito che i servizi forniti da un’impresa nell’ambito dei trasporti non devono essere considerati solo come un’attività di intermediazione, bensì come una prestazione di servizi unitaria che assiema l’intermediazione alla fornitura del trasporto. In tal senso, Amazon utilizzando la propria piattaforma, pubblicando gli annunci dei terzi venditori, fornendo agli stessi servizi di stoccaggio e consegna, promuovendo con annunci la loro attività, sotto l’egida del proprio segno distintivo, non assumerebbe alcuna responsabilità diretta per le violazioni dei marchi altrui poste in essere dai soggetti dalla stessa ospitati. Quanto precede, soggiunge l’avv. Maciej Szpunar “a condizione che gli elementi sopra descritti non inducano un utente di internet normalmente informato e ragionevolmente attento a percepire il marchio di cui trattasi come parte integrante della comunicazione commerciale del gestore”.

Se fosse vero, come ha scritto l’Avvocato Generale nelle sue conclusioni, che “il solo criterio rilevante per l’acquisto è il prodotto e il suo prezzo”, siamo davvero certi che molti dei prodotti contraffatti posti in vendita dai terzi venditori abbiano un prezzo che corrisponde a quello dell’originale?

Oppure, in considerazione del fatto che il gestore di una piattaforma di vendita “ibrida”, il quale ottiene margini rilevanti tramite le commissioni che gli spettano sui ricavi che i terzi venditori incassano, non assume un obbligo generale di sorveglianza su tali attività, come si pone la questione della responsabilità per gli atti di contraffazione commessi dai terzi venditori.

Dal momento che molti dei terzi venditori – come ci ricorda l’Avvocato Generale – sono difficili da identificare e da localizzare, la responsabilità dei gestori delle piattaforme “ibride” sarà tanto minore, quanto minore sarà l’impegno per scovarli e per rimuoverli dalla piattaforma da parte del gestore, come afferma nelle sue conclusioni l’avvocato Maciej Szpunar?

Se così fosse, come si pongono le imprese di distribuzione, in generale, e le piattaforme on-line in particolare, di fronte all’applicazione della Direttiva UE/2018/1673 sulla lotta al riciclaggio nel diritto penale? Tali disposizioni all’art. 2, par. 1, lett. k), s) e t) forniscono la definizione delle attività criminose includendovi la “contraffazione” e la “pirateria” e precisando al par. 2 che i “beni” oggetto di tali norme sono i “beni di qualunque tipo, materiali e immateriali (…)”.

Le stesse disposizioni stabiliscono che siano punibili come reati “l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni nella consapevolezza che i beni provengono da una attività criminosa” (Art. 3, lett. c). A tale proposito, in caso di violazioni dei segni distintivi di un titolare dei diritti, sarà quindi necessario che questi ultimi inviino ad Amazon una Notice and Take Down per segnalare il nominativo dei venditori che offrono prodotti contraffatti?

Conclusioni

Con un volume crescente di merce oggetto di contraffazione che perviene nel mercato dell’Unione Europea[17], in prevalenza con provenienza da paesi extra-EU, i terzi venditori potranno godere di un safe-habour quando verranno ospitati su piattaforme “ibride”?

Ma quello che più conta in questo contesto normativo comunitario, è il fatto che le persone giuridiche, nel caso in cui la loro carenza di sorveglianza o di controllo faciliti la commissione dei reati previsti dalla Direttiva (Art. 7, par. 2), assumono la responsabilità per i reati commessi anche da terzi a loro vantaggio[18]. Come si risolverà quindi questa dicotomia fra norme di pari livello se i gestori di piattaforme “ibride” dovessero essere sottratti da ogni obbligo sulle merci offerte dai loro “terzi venditori” in quanto le attività di controllo e di sorveglianza impedirebbero – a dire dell’Avvocato Generale – lo sviluppo del business globale?

A queste riflessioni presterà senza dubbio attenzione la Corte di Strasburgo nel decidere questa affascinante vicenda.

  1. Questo il testo delle domande pregiudiziali formulate alla CGUE rispettivamente nella causa C-148/21 e in quella C-184/21:“Se l’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento 2017/1001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea 1 , debba essere interpretato nel senso che l’uso di un segno identico a un marchio in una pubblicità pubblicata su un sito sia, in linea di principio, imputabile al gestore di detto sito qualora, nella percezione di un internauta normalmente informato e ragionevolmente attento, tale gestore abbia svolto un ruolo attivo nell’elaborazione della pubblicità di cui trattasi o quest’ultima possa essere percepita dall’internauta in questione come parte della comunicazione commerciale propria di detto gestore.”“Se l’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento 2017/1001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea, debba essere interpretato nel senso che l’uso di un segno identico a un marchio in una pubblicità pubblicata su un sito sia, in linea di principio, imputabile al gestore di detto sito qualora, nella percezione di un internauta normalmente informato e ragionevolmente attento, tale gestore abbia svolto un ruolo attivo nell’elaborazione della pubblicità di cui trattasi o quest’ultima possa essere percepita dall’internauta in questione come parte della comunicazione commerciale propria di detto gestore.

    Se su tale percezione influisca:

    -sula circostanza che detto gestore sia un noto distributore di un’ampia varietà di prodotti, tra cui prodotti della stessa categoria di quelli pubblicizzati;

    -o sulla circostanza che la pubblicità così pubblicata presenti un’intestazione nella quale è riprodotto il marchio di servizio di tale gestore, essendo detto marchio rinomato come marchio di distributore;

    -o ancora sulla circostanza che tale gestore offra, contemporaneamente a detta pubblicazione, servizi tradizionalmente offerti dai distributori di prodotti della medesima categoria in cui rientra il prodotto pubblicizzato.”

  2. Questo il testo del secondo paragrafo dell’art. 9 del suddetto Regolamento EU: “Fatti salvi i diritti dei titolari acquisiti prima della data di deposito o della data di priorità del marchio UE, il titolare del marchio UE ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio, in relazione a prodotti o servizi, qualsiasi segno quando:a) il segno è identico al marchio UE ed è usato in relazione a prodotti e servizi identici ai prodotti o ai servizi per i quali il marchio UE è stato registrato;b) il segno è identico o simile al marchio UE ed è usato in relazione a prodotti e a servizi identici o simili ai prodotti o ai servizi per i quali il marchio UE è stato registrato, se vi è rischio di confusione da parte del pubblico; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione tra segno e marchio;

    c) il segno è identico o simile al marchio UE, a prescindere dal fatto che sia usato per prodotti o servizi identici, simili o non simili a quelli per i quali il marchio UE è stato registrato, se il marchio UE gode di notorietà nell’Unione e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio UE o reca pregiudizio agli stessi”.

  3. Per numerosi anni la società Louboutin ha fatto realizzare alcuni dei suoi famosi modelli in un noto calzaturificio di Parabiago, vicino a Milano.
  4. 696 F.3d 206 (2012) United States Court of Appeals, Second Circuit, decisa il 5 settembre 2012. Christian Louboutin S.A., Christian Louboutin, L.L.C., Christian Louboutin, Plaintiffs – Appellants, V. Yves Saint Laurent America Holding, Inc., Yves Saint Laurent S.A.S., Yves Saint Laurent America, Inc., Docket No. 11-3303-cv.
  5. Sent. CGUE, Grande Sezione, in data 12 giugno 2028, nella causa C-163/16 raggiungibile qui: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=202761&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=10068716
  6. Si tratterebbe di un “marchio riconosciuto a livello mondiale” … sfruttato “posizionando il colore rosso in un contesto che sembra insolito”
  7. Questa prescrizione è stata aggiunta in base alla sentenza dai giudici del Second Circuit alla registrazione del marchio di “colore” della Louboutin registrato all’USPTO di Washington DC.
  8. Direttiva del Consiglio e del Parlamento Europeo del 22 ottobre 2008, sul “ravvicinamento delle legislazioni degli stati Membri in materia di marchi d’impresa”.
  9. Il 10 maggio 2022, la Commissione Europea ha adottato il nuovo Regolamento di Vertical Block Exemption con le inerenti linee guida, al fine di stabilire i casi in cui un’impresa possa considerare che i propri accordi commerciali e di fornitura con terzi siano conformi alle regole della concorrenza comunitaria europea alla luce delle nuove norme sull’e-commerce (DSA). Il provvedimento è in vigore al 1° giugno 2022. Qui il suo testo: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32022R0720&from=EN
  10. Articolo 11 “Ingiunzioni Gli Stati membri assicurano che, in presenza di una decisione giudiziaria che ha accertato una violazione di un diritto di proprietà intellettuale, le autorità giudiziarie possano emettere nei confronti dell’autore della violazione un’ingiunzione diretta a vietare il proseguimento della violazione. Se previsto dalla legislazione nazionale, il mancato rispetto di un’ingiunzione è oggetto, ove opportuno, del pagamento di una pena pecuniaria suscettibile di essere reiterata, al fine di assicurarne l’esecuzione. Gli Stati membri assicurano che i titolari possano chiedere un provvedimento ingiuntivo nei confronti di intermediari i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale, senza pregiudizio dell’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29/CE”.
  11. Sentenza CGUE del 2 aprile 2020 (C-567/18)
  12. Sentenza CGUE del 23 marzo 2010 (da C-236/08 a C-238/08)
  13. Sentenza CGUE del 12 luglio 2011 (C-324/09)
  14. Questo principio è stato enucleato dalla giurisprudenza dell’Unione Europea, avuto riguardo allo stoccaggio, nella sentenza Coty (punti 45 – 47) del 2 aprile 2020 (C-567/18)
  15. Sentenza del 20 dicembre 2017 nella causa (C-434/15)
  16. Sentenza del 10 aprile 2018 (C-320/16)
  17. L’articolo dal titolo: “European Commission calls for evidence on anti-counterfeit toolbox initiative” riporta che la Commissione Europea ha appurato che “nonostante gli sforzi per combattere le merci contraffatte, il mercato è ancora fiorente, con un aumento degli articoli detenuti ai confini dell’UE. Nel 2019 le importazioni di merci contraffatte sono state pari al 5,8% delle importazioni totali dell’UE, con un valore di 119 miliardi di Euro”. https://ipkitten.blogspot.com/2022/02/european-commission-calls-for-evidence.htmlDati di grave preoccupazione sulla contraffazione emergono anche da questo articolo pubblicato il 23 giugno 2022 da Bloomberg con il titolo: “Illicit Market Continues to Grow in the EU, Largely Driven by Counterfeits in France, According to New Study by KPMG” qui: https://www.bloomberg.com/press-releases/2022-06-23/illicit-market-continues-to-grow-in-the-eu-largely-driven-by-counterfeits-in-france-according-to-new-study-by-kpmg
  18. Amazon ha di recente pubblicato (il 17 giugno 2022) un documento con cui illustra la propria strategia di contrasto alla contraffazione, rinvenibile qui: https://www.aboutamazon.eu/news/policy/amazons-three-pillar-strategy-to-fight-counterfeits

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