L’Italia accelera sul tema equo compenso per il giornalismo online, ma tante questioni restano aperte. Lo fa ora con le linee guida dell’Agcom in consultazione fino al 24 luglio che prova a fissare i primi criteri.
La consultazione per il giornalismo online consente di recepire la Direttiva Copyright, con cui l’Europa fissa un equo compenso a favore dell’editore da parte delle big tech, in una fase storica di crollo delle entrate pubblicitarie, che virano verso le piattaforme digitali.
La delibera Agcom si chiama “Schema di regolamento in materia di individuazione dei criteri di riferimento per la determinazione dell’equo compenso per l’utilizzo online di pubblicazioni di carattere giornalistico di cui all’articolo 43-bis della legge 22 aprile 1941, n. 633”.
L’Authority distingue fra prestatori di servizio e aziende di monitoraggio dei media e rassegna stampa. L’Autorità vuole favorire intese fra editori e prestatori, ispirandosi a “criteri di ragionevolezza e proporzionalità” oltreché a modelli di business già presenti sul mercato.
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Linee guida dell’Agcom sull’equo compenso
“Il governo e il Parlamento italiano, nel recepire la direttiva europea, hanno sostanzialmente compiuto un piccolo passo in più nel riconoscere agli editori questo compenso”, commenta Antonio Nicita, professore universitario, con esperienza presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, autore del libro da titolo “Il mercato delle verità”.
“Ora spetta quindi all’Agcom a definire meglio i criteri. Ma rimangono aperte due grandi questioni”, continua Nicita.
“La prima delle due grandi questioni aperte riguarda il fatto che nulla impedisce che, nelle more in cui Agcom definisca concretamente questo diritto (cosa di per sé complessa dal momento che non ci sono precedenti, tranne che in Australia), le piattaforme da una parte e gli editori dall’altra non trovino il proprio accordo”, continua Antonio Nicita.
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“Il problema del finanziamento è oggettivo e rappresenta il cuore della questione, dal momento che da anni continua un rilevantissimo spostamento di risorse pubblicitarie dai media tradizionali alla piattaforme digitali”.
In effetti, secondo eMarketer, solo nel 2021, Google, Facebook e Amazon hanno assorbito il 64% dei 211 miliardi di dollari di investimenti nell’advertising digitale (+38,3% rispetto al 2020). La società di market intelligence definisce Google (28,6%), Facebook (23,8%) e Amazon (11,6%) un tripolio. Significa che a tutti gli altri player, editori compresi, non restano che le briciole: una quota del 36%.
Dunque, “al di là dell’informazione e disinformazione“, sottolinea Nicita, “stiamo assistendo a uno spostamento dal vecchio al nuovo mondo in relazione all’investimento pubblicitario, poiché il micro-targeting dell’advertising e il marketing digitale sono più efficaci della pubblicità tradizionale”.
“Ciò toglie risorse pubblicitarie ai media. Esiste comunque una proposta di Legge in cui i protagonisti potrebbero trovare un accordo, risolvendo il problema”.
“Il secondo tema riguarda il principio di trasferimento di risorse fatto attraverso il copyright, uno strumento improprio: un conto è infatti riconoscere la necessità di finanziare il buon giornalismo, un altro è usare il copyright a questo fine”, mette in guardia Nicita che comunque afferma che “rispettiamo la scelta compiuta dal legislatore”.
Il rischio è l’azzardo morale
“Tuttavia solleva problematiche dividere il mondo fra buoni e cattivi: da una parte, il giornalismo, dall’altra il web. Il rischio”, chiarisce Antonio Nicita, “è che una cattiva politica finanzi giornali che non fanno buon giornalismo, drenando risorse al digitale”. Una siffatta suddivisione potrebbe essere paradossale e controproducente.
“Il problema”, mette in guardia Nicita, “è che il giornalismo non riesce a trovare strumenti di autoregolazione neanche attraverso l’Ordine dei giornalisti (Odg). Con l’equo compenso si possono generare perversioni. Se un maggior compenso va alle notizie più virali, si crea l’azzardo morale: i giornalisti sono tentati di usare il clickbaiting per rendere una notizia virale ed ottenere più fondi.
L’incentivo potrebbe dunque spingere non verso il giornalismo di qualità, ma verso la mala-informazione e polarizzazione”.
“Terzo elemento”, infine, “è l’uso del paywall restrittivo per accedere alle risorse: una scelta che penalizza, perché nessuno legge l’articolo, ma le persone si fermano al titolo e al sommario, magari neanche scritti da un giornalista. Quindi il rischio è di incentivare ancora di più la disinformazione e la polarizzazione”.
Proposta di soluzione per salvaguardare il giornalismo di qualità
“Il tema della disinformazione esiste”, evidenzia Nicita, “non tutto il giornalismo è informazione di qualità, non tutto il web è disinformazione. Il sostegno all’informazione di qualità con risorse pubbliche (o pubblico-private). Allora merita mettere una tassa di scopo sull’attenzione per ricompensare il giornalismo di qualità”.
“Occorre dunque individuare il meccanismo e i criteri per identificare il giornalismo di qualità: bisogna stabilire degli indicatori della qualità dell’informazione e dirottare le risorse verso chi fa giornalismo di qualità. Come nel sistema radio-televisivo, con le risorse inviate ai soggetti meritevoli”.
“Per ora si usa lo strumento del copyright, ma sarebbe più adatto quello del finanziamento con risorse pubblico-privato per finanziare il giornalismo di qualità”, conclude Nicita.
Codice UE contro la disinformazione
Intanto la UE ha pubblicato il Codice di Best practice per combattere più efficacemente la disinformazione, con 34 firmatari, piattaforme comprese. Il Codice della Commissione europea recepisce le lezioni impartite da pandemia e dalla guerra in Ucraina, per rendere disponibile un ecosistema digitale “trasparente, sicuro ed affidabile” ai cittadini europei.
Fra i 34 firmatari ci sono Google, Meta, TikTok, Twitter e Microsoft. Il Codice va ad affiancarsi anche alla Legge sui servizi digitali, che ha appena ricevuto semaforo verde, rivolto alla trasparenza e al targeting nell’advertising politico, sempre per contrastare la diffusione di fake news in Unione europea.