La presa di posizione del governo australiano, che ha appena emanato una norma per obbligare l’erogazione di corrispettivi a fronte dello sfruttamento da parte di Google e di Facebook (e degli altri cosiddetti gatekeeper) degli articoli di giornale messi a disposizione dei loro utenti, ha riaperto una questione da tempo sul tappeto anche nel Parlamento europeo: il tema dell’editoria online e dell’equo compenso che le piattaforme digitali sono tenute a corrispondere ai titolari dei diritti per lo sfruttamento online delle notizie.
Com’è noto, Google minaccia di togliere il motore dall’Australia e Facebook ha già bloccato la condivisione delle news sul social, per non dover sottostare alle nuove norme.
Equo compenso, come si sta muovendo l’Europa
Già il 18 giugno dello scorso anno, il Parlamento europeo aveva votato emendamenti al Digital Service Act e al Digital Markets Act volti ad impedire la pubblicità personalizzata indirizzata agli utenti utilizzando i loro dati di profilazione e ora si appresta a porre nel testo delle medesime proposte di Direttiva altri precisi obblighi a carico delle stesse grandi piattaforme digitali. Tali vincoli includono l’applicazione di arbitrati obbligatori per dirimere le controversie con gli editori e l’assunzione di obblighi di informazione verso gli stessi circa le modalità di sfruttamento delle notizie sui siti web.
Fa anche scalpore in questa tenzone la presa di posizione della società Microsoft che si è detta disponibile, non solo a pagare il compenso dovuto alle testate giornalistiche per lo sfruttamento delle news, ma anche a rafforzare il proprio motore di ricerca “Bing” per il caso in cui Google dovesse decidere di ritirare il proprio dal mercato australiano.
Accordo tra Google e editori, quali implicazioni
A conferma che il tema del rapporto tra big tech e giornali è politico e complesso, e in quanto tale sfugge a conclusioni binarie, Google in effetti ha trovato in questi giorni un accordo economico triennale con News Corp per i contenuti di quest’ultima, tra cui i giornali Daily Telegraph, Herald Sun e le tv principali australiane. L’accordo, pur prendendo spunto dai fatti australiani, vale in tutto il mondo, quindi anche per il Wall Street journal e New York post negli Stati Uniti e Times e Sun in Gran Bretagna.
Non è stata rivelato il dettaglio economico dell’accordo. Il New York Times riporta, da sue fonti, che comunque Google non ha acconsentito a un generale pagamento per link e snippet di giornali sul motore di ricerca. L’accordo include lo sviluppo di una piattaforma per gli abbonamenti, la condivisione dei ricavi pubblicitari tramite altri servizi di Google e l’adesione al nuovo servizio Google showcase
Nelle ultime settimane, inoltre, Google ha già stretto accordi in Australia con aziende di media come Reuters e The Financial Times. L’anno scorso, Google ha detto che si sarebbe impegnato a pagare 1 miliardo di dollari in diritti di licenza in tre anni agli editori di notizie per i contenuti che si presentano nella pagina delle notizie di Google, così come Discover, il feed di notizie che appare nell’applicazione di ricerca mobile di Google.
Questi accordi potrebbero dimostrare che almeno Google è disposto a venire incontro almeno in parte all’esigenza di remunerazione dei giornali con pagamenti diretti. Anche se sia Google sia Facebook negli anni hanno supportato in vari modi e iniziative lo sviluppo di un giornalismo di qualità, le vicende australiane potrebbero rivelare una differenza di fondo tra i due big.
Google ha bisogno di un rapporto più solido con gli editori, per la sua missione di essere intermediario dell’informazione globale. Facebook no; per Facebook – come ha detto – le notizie contano poco; potrebbe viverne sempre.
Alla luce della crescita del potere (pubblicitario e di attenzione) catalizzato dai social media (anche nuovi: vedi TikTok, Clubhouse), questa evidenza è certo una brutta notizia per i giornali e gli editori.
E se ne potrebbe concludere che la via per una sostenibilità economica dell’informazione di qualità e professionale, per il bene delle nostre democrazie, dovrà trovare altre soluzioni.
Alessandro Longo
Le (gigantesche) implicazioni economiche e giuridiche
La vera notizia è proprio questa: è plausibile o addirittura possibile che Google possa sospendere o ritirare il proprio motore di ricerca e altri suoi servizi essenziali dal mercato di uno o più paesi?
La questione ha dimensioni economiche gigantesche e implicazioni imprevedibili anche se essa non è del tutto nuova al panorama globale, avendo interessato – in situazioni affatto diverse – altri operatori. Invero, l’atteggiamento di un’impresa monopolista che esercisca una cosiddetta “essential facility” e che rifiuti di rendere disponibile il proprio servizio (“refusal to deal”) contrappone il principio di libertà economica all’obbligo di contrarre che ad essa fa capo, sollevando questioni economiche e giuridiche che hanno già agitato gli esperti della materia ma che mai avevano assunto una dimensione simile a quella che si ipotizza ove i vertici di Google Inc. decidessero veramente di rendere indisponibile agli utenti di una determinata area geografica un servizio che si può considerare per molti versi essenziale e non rinunciabile nell’era globale.
Il problema che si pone, in particolare avuto riguardo ai gatekeeper e segnatamente a Google Inc., non è quello di restringere o limitare la libera concorrenza attraverso un rifiuto a contrarre che vada a toccare il mercato di approvvigionamento di una o più imprese concorrenti.
I precedenti casi di blocco di “essential facility”
Nel nostro caso che riguarda un servizio globale della rete Internet, il blocco di una “essential facility”, come il motore di ricerca di Google, comporterebbe la paralisi di interi apparati produttivi legati all’uso delle informazioni che esso permette di raggiungere. E si tratta di una situazione del tutto inusitata.
Volendo rinvenire nell’esperienza passata lezioni utili per il futuro, ricordiamo che nel lontanissimo anno 1945 la Corte Suprema degli Usa dovette affrontare il caso “Associated Press” in cui l’interpretazione dello Sherman Act (normativa antitrust su cui si fonda ancora oggi il sistema giuridico statunitense della concorrenza), ha condotto il giudice di legittimità a considerare che la posizione di possesso e di controllo delle informazioni detenute dall’agenzia di stampa Associated Press non potesse consentire ai suoi gestori di stabilire “se e a chi cedere o no (i propri servizi)” dal momento che tale agenzia era l’unica fonte che si trovava nella posizione di acquisire le notizie rispetto alla concorrenza.
Questa posizione dominante di una “essential facility” si traduce di per se stessa in un obbligo a contrarre quando il bene o il servizio di cui l’impresa dominante dispone sia considerato essenziale per i concorrenti allo scopo di permettere loro di operare in un determinato mercato ovvero, come nel nostro caso, qualora il servizio offerto non sia duplicabile e risulti indispensabile per lo svolgimento delle attività per le quali esso viene richiesto, come ebbe successivamente a dire la Corte di Giustizia dell’UE nel caso Brenner deciso il 26 novembre 1998.
Va peraltro ribadito che la dottrina e la giurisprudenza che si sono pronunciate sui temi dell’obbligo legale a contrarre, sia precedentemente che successivamente ai casi emblematici sopra accennati, hanno costantemente escluso che un tale impegno possa essere imposto al monopolista nei confronti della generalità degli utenti dal momento che il presupposto dei divieti stabiliti dalle norme antitrust è quello di impedire le condotte abusive nei confronti dei concorrenti e non quello di imporre a un soggetto privato di assumere un obbligo legale a fornire (e a ricevere per essi un determinato corrispettivo) i propri servizi anche qualora essi fossero indubitabilmente di interesse pubblico.
Questa prospettiva squisitamente concorrenziale nell’interpretazione delle disposizioni antitrust si percepisce anche in altri casi in cui il possesso da parte degli operatori monopolisti delle “essential facilities”, aveva privato gli altri operatori “competitor” di alternative su cui essi potessero fare affidamento, come è accaduto – fra i molti – nel caso Microsoft (rifiuto di fornire informazioni ai concorrenti per garantire l’interoperabilità dei sistemi per PC, Commissione Europea, 2004). In nessuno dei casi presi sinora in esame dai tribunali d’oltreoceano e nel nostro continente si può desumere che il refusal to deal di una “essential facility” possa assumere un rilievo diretto sul pubblico degli utenti, come nel caso in cui un monopolista rifiutasse un servizio necessario all’intera collettività, al pari della fornitura dell’energia elettrica o dell’acqua, ovvero ancora dell’accesso alla rete Internet.
Conclusioni
Il tema sopra tratteggiato, che può apparire nei suoi termini quasi drammatici come un’ipotesi fantascientifica o destinata a tracciare scenari apocalittici, si pone invece come reale, non solo in relazione al trattamento economico dei contenuti delle news di cui ci si occupa in queste settimane, ma soprattutto in vista delle grandi sfide del mercato pubblicitario e del possesso dei dati personali degli utenti che stanno alla base del dominio economico e culturale dei “gatekeeper” nel futuro prossimo venturo.
Il divorzio Facebook-Australia
“La proposta di legge australiana fondamentalmente fraintende la relazione tra la nostra piattaforma e gli editori che la utilizzano per condividere contenuti di notizie. Ci ha lasciato di fronte a una scelta netta: tentare di rispettare una legge che ignora la realtà di questa relazione o smettere di consentire la condivisione di notizie sui nostri servizi in Australia. Con il cuore pesante, scegliamo quest’ultima strada”, scrive Facebook in una nota. Il social nota che il guadagno suo dalle news è minimo. “La decisione del governo australiano è del tutto unilaterale, considerato che lo scambio di valore tra Facebook e gli editori va a favore degli editori e solo nel 2020 Facebook ha generato circa 5,1 miliardi di referral gratuiti a editori australiani per un valore stimato di 407 milioni di dollari australiani”.
“Non saremo intimiditi dalle BigTech e dal loro tentativo di fare pressione sul nostro Parlamento mentre vota sul nostro importante Codice di contrattazione dei media”, ha detto il primo ministro australiano.