l’analisi finanziaria

Eurostoxx batte S&P 500: le ragioni dell’inatteso primato dei mercati Ue



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I mercati azionari europei sovraperformano quelli americani in modo inaspettato. Rotazione settoriale, reporting positivo e ridimensionamento delle aspettative sui dazi hanno favorito l’Eurostoxx, triplicando la performance dell’S&P 500 dall’inizio dell’anno

Pubblicato il 27 mar 2025

Luca Vallarino

gestore di Impact Sgr



mercati azionari europei

Dall’inizio dell’anno, si è assistito ad una inattesa sovra performance delle borse europee rispetto ai listini americani.

La sovraperformance dei mercati azionari europei nel 2025

Quasi tutti gli osservatori, a seguito anche delle politiche annunciate in campagna elettorale da Trump e alla luce di quanto era avvenuto nel corso del primo mandato presidenziale, prefiguravano esiti favorevoli soprattutto per il mercato azionario americano; eppure, da inizio anno, l’Eurostoxx ha realizzato circa il triplo della performance dell’S&P 500.

Seppure le borse europee stiano segnando i nuovi massimi di sempre, occorre segnalare che, se messa in prospettiva, l’overperfomance di queste prime settimane del 2025 è comunque molto timida rispetto alla prepotente tendenza contraria che si è avuta negli ultimi anni.

Le ragioni di questa inversione di tendenza nel corso del 2025 sono molteplici ed articolate. Sicuramente è andato in scena nelle prime settimane dell’anno una forte rotazione settoriale che ha premiato settori “value” come l’automotive e l’energia, oppure settori penalizzati nel corso del 2024 come il lusso, a scapito invece della tecnologia e delle megacap americane.

La crisi del tech Usa e il rafforzamento della rotazione settoriale

A fine gennaio si è diffusa la notizia del successo della startup cinese Deepseek nello sviluppare e commercializzare con successo un software di intelligenza artificiale che potrebbe essere un’alternativa efficiente a ChatGPT, utilizzando, in aggiunta, minore energia, utilizzo inferiore di high-end chip e investimenti complessivi infinitamente più contenuti.

L’esistenza di una concreta concorrenza cinese sul gioiello tecnologico americano, oggetto dell’interesse privilegiato degli investitori nel corso dell’anno passato, ha prodotto un terremoto sul comparto tecnologico, con il titolo simbolo del macro-tema, Nvidia, che ha spazzato via 589 miliardi di dollari di capitalizzazione in una sola giornata (chiudendo a – 16.97% la seduta del 27 gennaio).

La scossa è stata dura a causa del forte posizionamento degli investitori sulle megacap del tech americano ed ha dato forza alla rotazione settoriale. I flussi intra-settoriali non possono essere spiegati unicamente da un tema di positioning, ma sembrano anche legati ai fondamentali che si sono potuti analizzare in occasione del reporting trimestrale.

A livello aggregato, la reporting season si è dimostrata più positiva in Europa che negli Stati Uniti, dove le prospettive delle imprese per il 2025 sembrano più incerte.

Il ridimensionamento dell’impatto dei dazi sui mercati azionari europei

Una delle principali cause per cui il mercato azionario europeo era dato sfavorito nel corso del 2025 era l’onere delle politiche commerciali protezionistiche di Trump. In effetti, a pochi giorni dall’insediamento, il nuovo Presidente ha immediatamente firmato tre ordini esecutivi in cui ha alzato al 25% i dazi su merce messicana e canadese e del 10% in più nei confronti della Cina.

A seguito di trattative serrate, i dazi sono stati per il momento “congelati” e rimandati ai prossimi mesi, in cambio di maggiore controllo da parte dei due Paesi confinanti sulle frontiere. Per quanto riguarda l’Europa, non sono ancora arrivate dichiarazioni ad hoc, ma qualche giorno fa è stata annunciata l’applicazione probabilmente a partire da metà aprile, di dazi su auto, semiconduttori e prodotti farmaceutici.

L’annuncio delle misure protezionistiche, in ogni caso, non sembra spaventare eccessivamente i mercati, che sono arrivati all’indomani dell’elezione di Donald Trump pienamente preparati a queste iniziative. Anzi, l’impatto, in positivo, si misura semmai sui ritardi di applicazione dei dazi, che sono evidentemente già ampiamente prezzati dal mercato.

Le differenze con la guerra commerciale del 2018 e gli effetti economici dei dazi

Emblematico in questo senso è il caso dell’applicazione delle tariffe sulle merci cinesi: con l’ordine esecutivo di Trump si applica un dazio del 10% su tutti i prodotti, anche quelli con prezzi sotto la soglia di 800 dollari, finora esenti.

Il parallelo storico corre al 2018, durante il primo mandato Trump in cui fu posta in essere una prima forte guerra commerciale con la Cina. Il mercato era allora fortemente impreparato a politiche di chiusura del commercio internazionale e la stessa FED scelse di alzare i tassi nel timore di un’ondata di inflazione: il tutto sfociò in un pesante, seppur breve, mercato ribassista, con la totalità delle asset class che chiusero le performance annuali in territorio negativo. Oggi, al contrario, nonostante i dazi aggiuntivi applicati alla Cina siano equivalenti a quelli approvati nel biennio 2018-2019, le conseguenze sono state molto meno traumatiche nel breve periodo.

I dazi producono un duplice effetto: sull’inflazione, contribuendo ad incrementarla, e sulla crescita, frenandola; entrambe le forze sono negative per i mercati azionari, mentre per i mercati obbligazionari l’esito è più incerto.

I nuovi assetti geopolitici e l’aumento della spesa militare europea

Tuttavia, se a inizio anno la maggior parte degli investitori indicava nelle politiche commerciali la maggior fonte di incertezza, attualmente il timore più diffuso indicato nei sondaggi destinati agli operatori di mercato riguarda la politica internazionale e i nuovi assetti geopolitici che l’amministrazione Trump sta imprimendo.

Pace in Ucraina: a che prezzo?

Già dalla campagna elettorale, Trump aveva promesso che si sarebbe impegnato a chiudere il fronte russo-ucraino, giudicato eccessivamente costoso per gli Stati Uniti. A partire dalla sua elezione, gli operatori hanno iniziato ad incrementare le probabilità della conclusione delle ostilità, come si è visto dalla performance dei prezzi in dollari dei titoli di stato ucraini.

Il sorprendente approccio dell’Amministrazione Trump è stato tuttavia un coinvolgimento diretto al tavolo delle trattative di una sola delle parti, la Russia, minacciando il presidente ucraino Zelensky di pesanti conseguenze qualora non dovesse accettare l’accordo che verrà preso.

Molto probabilmente, l’Ucraina pagherà la fine delle ostilità rinunciando a parte della propria integrità territoriale, oltre a dover firmare un accordo che consegna buona parte dei propri giacimenti di terre rare in mano americana, come “risarcimento” per il finanziamento della resistenza alla Russia. Per “agevolare la pace”, di fatto l’amministrazione americana ha sposato il lessico propagandista russo, addossando di fatto le colpe della prosecuzione delle ostilità sul Presidente ucraino e cancellando, in tutti i documenti e le dichiarazioni ufficiali la menzione all’aggressione e quindi alla distinzione tra aggressore e aggredito e parlando genericamente di “guerra” o “fronte” russo-ucraino.

La pace in Ucraina è sicuramente una delle condizioni che molti osservatori giudicavano positiva per la performance dei mercati europei. Tuttavia, a queste condizioni, rimangono molti interrogativi. Anzitutto ai Paesi europei, seppure direttamente coinvolti nel conflitto, è stato precluso dagli Stati Uniti qualsiasi ruolo al tavolo dei negoziati. Inoltre, l’inquietante svolta filorussa dell’Amministrazione americana, unita a crescenti discorsi di insofferenza e malcelato disprezzo per le politiche europee (come ad esempio nel discorso pronunciato dal vicepresidente J.D. Vance a Monaco di Baviera) rafforzano i timori che lo storico legame tra “Nuovo e Vecchio mondo libero” (come lo descrisse Churchill) si stia pericolosamente indebolendo: l’America stringe partnership autonome con le autocrazie ed isola l’Europa.

Il Vecchio continente mostra debolezza per le sue divisioni interne e sebbene complessivamente abbia un peso assolutamente rilevante in termini di popolazione e ricchezza, a livello di singoli Paesi diventa chiaramente frammentato ed irrilevante.

Verso l’aumento della spesa militare europea

Al netto di quali saranno gli esiti del negoziato, è indubbio che l’Europa come previsto dal piano Rearm Europe – Readiness 2030 dovrà andare incontro a maggiori spese nel comparto della difesa. Finora i Paesi NATO europei sono sempre stati quasi tutti al di sotto della soglia di spesa in rapporto al PIL raccomandata (2%): dopo la guerra dei Balcani e l’apertura del commercio internazionale, i Paesi europei si erano complessivamente convinti che fosse improbabile un nuovo conflitto attivo sul territorio del Continente e contemporaneamente godevano della protezione dell’ombrello militare dell’alleato americano. Con la guerra in Ucraina e con le idee della nuova amministrazione Trump, questo schema sembra improvvisamente sempre più fuori luogo.

L’incremento della spesa militare provoca chiaramente l’esigenza di un’espansione fiscale. Un tema che da un lato contribuisce a spiegare la spinta sull’acceleratore del mercato azionario europeo (aiutato anche dal contributo positivo alla produzione che potrebbe offrire la ricostruzione post-bellica in Ucraina), ma dall’altro risulta complesso visti i già elevatissimi livelli di indebitamento dei Paesi dell’Eurozona: Grecia, Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Belgio hanno un stock di debito pubblico superiore al loro prodotto interno lordo, mentre la Germania, che ha un livello di debito/PIL intorno al 60%, ha una regolamentazione molto severa che, com’è noto, impedisce di porre in essere politiche in deficit. Del resto, incrementare la spesa militare, senza espandere il bilancio degli Stati, potrebbe creare costi sociali e perdita di consenso elettorale che difficilmente la classe politica potrebbe essere disposta a tollerare.

Scenari fiscali e prospettive di crescita nell’eurozona

Il cancelliere tedesco in pectore Merz ha indicato di essere aperto ad allentare la regola costituzionale dell’obbligo di pareggio di bilancio, anche se il processo di modifica potrebbe essere tortuoso e non immediato. Una possibilità potrebbe essere quella di conteggiare l’indebitamento per le spese in difesa fuori dal bilancio sottomesso alla regola del pareggio oppure di collettivizzare l’indebitamento tra tutti i Paesi dell’Eurozona, come avvenuto durante la pandemia da Covid 19.

Scenari di crescita nell’Eurozona

Appare verosimile che la BCE prosegua con l’allentamento monetario, prestando meno enfasi sui rischi di riaccensione dell’inflazione: una crescita dei prezzi leggermente sopra il target potrebbe agevolare i bilanci pubblici che saranno nei prossimi esercizi in espansione. Le curve dei rendimenti potrebbero quindi essere destinate ad irripidirsi tra tassi a breve in discesa per effetto dell’azione della BCE e tassi a lunga in salita per la maggior rischiosità dovuta al crescente indebitamento e alle prospettive di inflazione sopra il target. In effetti, questo movimento si è iniziato ad osservare sulla curva dei titoli sovrani tedeschi.

Se una più franca espansione fiscale potrebbe essere un importante stimolo per la crescita dell’economia europea, anche il livello dei tassi di risparmio degli europei, se confrontati con quelli americani, permettono di essere ottimisti sulle potenzialità della crescita dei consumi nel Vecchio continente. Il tasso di risparmio in Europa si mantiene molto elevato e ai massimi degli ultimi dieci anni, mentre negli Stati Uniti, dopo gli accumuli dell’era del Covid, l’eccesso accantonato è stato rapidamente eroso già nel corso del 2022 e il livello di risparmio è oggi poco sotto alla media degli ultimi dieci anni.

I flussi positivi verso i mercati azionari e obbligazionari europei

Sui mercati finanziari si è assistito ad un ritorno di flussi positivi verso il mercato azionario europeo, dopo moltissimi mesi di deflussi netti. Sui mercati obbligazionari europei, si assiste ad una compressione dei premi al rischio di credito su livelli record anche per le componenti più rischiose. Ceteris paribus, il rischio è che gli spread possano allargarsi all’aumentare del costo dell’indebitamento per le società emittenti. Nella lunga era dei tassi a zero, moltissime aziende avevano emesso prestiti a lunga scadenza; ancora oggi, sono in circolazione molte obbligazioni a cedola bassa emesse prima del 2022 che però stanno lentamente avvicinandosi a scadenza.

Nonostante la compressione degli spread, i tassi ancora piuttosto elevati continuano a rendere, in ottica total return, attrattivo il mercato del credito, che nonostante un mercato primario abbondantissimo, assorbe senza problemi l’offerta e registra afflussi importanti.

Del resto, la detenzione di liquidità da parte degli asset managers, nonostante la scarsa visibilità dello scenario economico e geopolitico, rimane ai minimi degli ultimi quindici anni.

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