Il mercato del web, almeno a tratti, si mostra affetto da gravi patologie concorrenziali, in cui il diritto – spesso quello alla privacy – corre il rischio, pur affermando principi indiscutibilmente giusti, di alimentare ulteriori abusi senza produrre significativi risultati in punto di tutele.
Lo dimostra un recente episodio che ha visto protagoniste Apple e Facebook, che ci spinge a riflettere sulla correttezza degli assetti attuali del mercato digitale, da più punti di vista, nonché sulla impossibilità di avere un quadro accurato delle dinamiche che lo governano. Un problema non da poco.
Le intese commerciali tra le big tech
Abbiamo già visto come le Big Tech siano entità capaci di convergere su linee programmatiche comuni, al punto di far temere che gli assetti normativi antitrust potrebbero presto rivelarsi inadeguati di fronte a nuove – più o meno dichiarate – alleanze.
Una serie di manovre, alcune delle quali molto trasparenti, altre decisamente meno, confermano la ricerca di intese commerciali, da parte dei colossi del web, soprattutto nella gestione del marketing e della pubblicità. In alcuni casi, tuttavia, si tratta di accordi che lambiscono, e forse oltrepassano, la definizione di “cartello” anticoncorrenziale.
È il caso, per esempio, di un presunto accordo tra Google e Facebook, raccontato dal New York Times, finalizzato a cannibalizzare il mercato degli annunci digitali in danno della concorrenza, sul quale una decina di stati americani sta attualmente indagando.
La querelle Facebook-Apple
Il fatto che siano capaci di perseguire interessi comuni, tuttavia, non significa che i protagonisti di questi processi si comportino sempre da leali compagni di squadra. Anzi, da qualche parte, ogni tanto, qualche sgambetto arriva.
E qualche sgambetto, di recente, è partito tra Facebook ed Apple.
La vicenda è nota, se n’è ampiamente discusso sul finire del 2020. Ha avuto inizio quando il social network di Mark Zuckerberg ha acquistato alcune pagine di grandi giornali statunitensi ed ha accusato apertamente Apple di ostacolare il buon funzionamento della sua pubblicità.
L’azienda di Cupertino, difatti, starebbe implementando alcune modifiche sul sistema operativo iOS14, che funzionerà su tutti i nuovi iPhone e iPad. Grazie alle novità che saranno introdotte, ogni volta che scaricheranno una nuova applicazione, agli utenti verrà domandato di esprimere il proprio consenso alla comunicazione a terzi dei loro dati.
Assumendo che in molti rifiuteranno di acconsentire al trasferimento, il timore invocato è che non potendo disporre di sufficienti informazioni, ne potrebbero risultare pregiudicati i sistemi di targhettizzazione della clientela e, di conseguenza, l’accuratezza delle procedure di marketing.
L’attacco, diffuso da Facebook anche attraverso le pagine del Financial Times, è stato quindi giustificato da pretesi nobili intenti:
“Più di dieci milioni di aziende utilizzano i nostri strumenti pubblicitari per trovare nuovi clienti, assumere dipendenti e stringere accordi con i loro interlocutori”.
Facebook, in definitiva, auto erettosi a baluardo, più o meno credibile, dei diritti delle piccole e medie imprese.
E come si è difesa Apple? Facendosi baluardo, anch’esso più o meno credibile, dei diritti degli utenti.
Vale a dire invocando – non senza il sospetto che tanto le ragioni dell’una quanto quelle dell’altra siano sorrette da un filo di ipocrisia – il diritto alla privacy degli interessati:
“Crediamo che si tratti di una semplice questione di difesa dei nostri utenti. Gli utenti dovrebbero sapere quando i loro dati vengono raccolti e condivisi con altre applicazioni e siti web – e dovrebbero avere la possibilità di scegliere se permetterlo o meno. L’Application Tracking Transparency in iOS 14 non richiede a Facebook di cambiare il suo approccio al tracciamento degli utenti e alla creazione di pubblicità mirata, ma semplicemente di dare agli utenti la possibilità di scegliere”.
Gli effetti della tutela di un diritto in un mercato disfunzionale
In estrema sintesi: in chiave giuridica è probabile, almeno per chi scrive, che Apple alla fine abbia ragione.
La (giusta) difesa di Apple, tuttavia, proprio perché solida nelle proprie argomentazioni, porta a riflettere su un meccanismo di tutela dei diritti degli utenti che, in taluni casi, sembra essere in grado di produrre effetti contrari rispetto al dovuto.
Si tratta di riflessioni che hanno un peso sia quando le Big Tech giocano di sponda, sia quando provano a farsi un dispetto, come nel caso appena considerato.
In un mercato sorretto da dinamiche fisiologiche, si sviluppano condotte commerciali nella norma corrette, ed il diritto interviene, in via d’eccezione e in chiave ortopedica, a sanare le eventuali distorsioni.
Ma in un mercato, come abbiamo già detto, caratterizzato da disfunzioni, c’è il rischio che la difesa di un sacrosanto diritto porti a nuovi abusi. È il limite di alcune leggi. Funzionano se in molti si comportano bene, e devono limitarsi a raddrizzare le condotte dei pochi che non lo fanno. Non portano grandi benefici, invece, a fattori invertiti.
Gli assetti commerciali del mercato web sono corretti oppure no?
Quanto può cambiare il giudizio sulla querelle Facebook/Apple, nonché sull’efficacia delle nostre norme privacy, a seconda del punto di partenza del ragionamento? Vale a dire: siamo in un mercato caratterizzato da assetti commerciali sostanzialmente corretti oppure no?
Immaginiamo, per un momento, di sì.
In un contesto sorretto da giuste logiche concorrenziali e leciti trattamenti di dati personali, la posizione di Apple sarebbe pressoché ineccepibile. Potrebbero, difatti, riconoscersi solo note di merito al tentativo di garantire che il trasferimento dei dati in favore di un’impresa terza, risulti sempre assistito da un valido consenso degli utenti interessati.
Immaginiamo, ora, che il mercato del web sia invece qualcosa di diverso.
Immaginiamo che sia il luogo in cui i dati personali – beni dall’indiscutibile valore economico – siano massivamente raccolti e gestiti senza adeguata consapevolezza degli interessati; in cui le basi giuridiche del trattamento siano stiracchiate fino all’inverosimile, spesso ricorrendo, facendone scempio, al legittimo interesse dei titolari; in cui si parli in continuazione, ma si parli solamente, dei principi di data retention e del diritto all’oblio.
Immaginiamo, in definitiva, che la struttura del web consenta ai suoi protagonisti di fare arbitrariamente ciò che vogliono, senza che le proprie condotte, il più delle volte, abbiano la benché minima rilevanza esterna: non tracciate, non punite.
Se questo fosse il web, nella vicenda presa a spunto del ragionamento, Apple avrebbe semplicemente trovato il modo di strumentalizzare il principio del consenso degli interessati per recare danno a una concorrente.
A sé stessa, quindi, starebbe cercando di garantire un indebito vantaggio competitivo, consistente nella possibilità di costringere altri ad attenersi a regole che lei per prima non sarebbe adusa rispettare.
Il caso dei cookies: è davvero per tutelare la privacy?
Il paventato tramonto dei cookies di terze parti ad opera di Google ed Apple non segue logiche molto diverse, e presenta lo stesso dilemma.
Nelle dichiarazioni dei due colossi, lo spegnimento dei cookies di terze parti su Chrome e Safari offrirà una più adeguata tutela alla privacy degli utenti, garantendo un uso consapevole ed una circolazione più controllata dei loro dati.
Vi è il sospetto generale, tuttavia, che questa manovra condurrà solo ad accentrare in capo a Google ed Apple ulteriore potere, in danno delle altre imprese che utilizzano la rete per sviluppare il proprio business.
Come si atteggiano le norme in materia di privacy, anche in questo caso? Come presidio di tutela dei diritti degli interessati, o come strumento prestato alle convenienze del momento e a condotte concorrenziali brutalmente sleali?
Conclusioni
L’oggettiva difficoltà nel riuscire a scattare una fotografia accurata delle dinamiche del web impedisce di offrire uno scrupoloso giudizio sull’appropriatezza degli assetti giuridici di cui ci siamo dotati.
Il non riuscire a scattare quella fotografia, tuttavia, è già di per sé un problema. Forse, in questo momento, il problema più grande. Il vero problema da risolvere.