La corporate digital responsibility è sempre di più al centro delle valutazioni della finanza sostenibile e di quella parte del mondo corporate attenta in misura crescente a misurare gli impatti del digitale sui fattori ESG e quindi sui rischi finanziari. A confermarlo le recenti raccomandazioni pubblicate dall’International Sustainability Standards Board (ISSB)[1] con una sezione dedicata alla gestione dei contenuti digitali di utenti e aziende: la content governance.
“Corporate digital responsibility” braccio armato della sostenibilità aziendale: una strategia
La content governance in chiave ESG
In questo panorama di importante sensibilizzazione, Bruxelles ha appena approvato il nuovo regolamento sui mercati digitali (DMA) e la legge sui servizi digitali (DSA) per contrastare le pratiche sleali e l’abuso di posizione dominante nei mercati delle big tech ed imporre alle grandi piattaforme online una maggiore responsabilità sul controllo e la moderazione dei contenuti digitali. I testi dei due provvedimenti devono essere formalmente adottati dal Consiglio e pubblicati in Gazzetta Ufficiale e si applicheranno rispettivamente sei mesi e quindici mesi dopo la loro entrata in vigore.
Proviamo a contestualizzare la content governance in chiave ESG.
Le stesse tecnologie che hanno consentito un’enorme crescita della produttività globale e messo in connessione l’intero mondo attuando la seconda rivoluzione industriale, sono ormai al contempo anche abilitatori di contenuti dannosi: l’incitamento alla violenza e all’odio, i contenuti terroristici e quelli di estremismo violento, la disinformazione con le fake news e la pedopornografia.
Negli ultimi anni la gestione dei contenuti, generati principalmente dagli utenti, è un tema nevralgico in termini di business, di regolamentazione, di impatto sociale e più di recente anche in chiave finanziaria in un complesso gioco di equilibri, in cui i player dell’industria IT soppesano i propri interessi economici con quelli dei loro utenti, degli inserzionisti e delle autorità di regolamentazione. La content governance riguarda direttamente e principalmente l’industria IT con i suoi diversi player: gli internet/media e services provider (social media, applicazioni di messaggistica, piattaforme interattive quali quelle di dating, di recensione, di prenotazione), software house e servizi IT quali cloud, piattaforme di gaming, fornitori in outsourcing, gli internet service provider e il mondo dell’e-commerce con tutte le sue tipologie di marketplace.
Le due macro-aree del settore internet/media
Il settore internet/media di fatto si compone di due macro-aree:
- quella più propriamente media con motori di ricerca e canali pubblicitari sul web, giochi online e social network, che produce una massiva quantità di contenuti, di vario genere quali quelli educativi, medici, sanitari, sportivi o notizie,
- quella dei servizi forniti dalle aziende IT attraverso internet.
La correlazione fra l’impatto sociale e quello finanziario dei contenuti e le implicazioni
L’Industry genera ricavi principalmente dalla pubblicità online, su contenuti solitamente gratuiti, mentre altre fonti di ricavi sono rappresentate da canoni di abbonamento, vendita di contenuti o vendita di informazioni sugli utenti. Nel corso degli ultimi anni la correlazione fra l’impatto sociale e quello finanziario dei contenuti digitali ha destato la preoccupazione degli investitori, che hanno accresciuto l’attività di analisi e monitoraggio in un’ottica ESG della content governance dei player sia grandi che piccoli. Il risvolto finanziario della content governance è provato, la gestione dei diversi rischi dei contenuti digitali ha implicazioni finanziarie significative per le aziende del settore: innanzitutto i costi della moderazione dei contenuti, che richiede infrastrutture con una quantità significativa di risorse dedicate (es. forza lavoro) o allocate per investimenti nella creazione e applicazione di policy di content management mediante manodopera specializzata, sistemi di gestione e moderazione dei contenuti automatizzati, centralizzati o esternalizzati a fornitori terzi.
I costi (non solo economici) della moderazione dei contenuti
La maggior parte delle aziende non rende pubblici questi costi, nel 2020 Mark Zuckerberg ha dichiarato, in una testimonianza davanti al Congresso degli Stati Uniti, che l’azienda spendeva più di 3 miliardi di dollari per la sua forza di 35.000 dipendenti addetti alla moderazione dei contenuti, molti dei quali lavorano come appaltatori. Nella stessa audizione, l’amministratore delegato di Alphabet Sundar Pichai ha testimoniato che la sua azienda ha speso più di 4 miliardi di dollari per una forza di oltre 10.000 moderatori di contenuti. Nel 2021, Meta ha rivelato che la sua spesa per “sicurezza e protezione” dei contenuti è stata di 13 miliardi di dollari nel corso dei cinque anni precedenti. A questi costi si aggiungono i “costi” connessi ai rischi reputazionali nel caso di diffusione o di utilizzo di contenuti illeciti (es. pornografia), e a quelli economici legati alla perdita di inserzionisti e quindi di mercato, nel caso in cui i ricavi derivano da inserzioni pubblicitarie che “passano” vicino a contenuti generati dagli utenti. Nel 2017, un’inchiesta del Wall Street Journal[2] raccontò di come a causa dell’accostamento di pubblicità di marchi come Coca-Cola, Pepsi, General Motors, Walmart e Startbucks a video pubblicati su YouTube, che potevano essere considerati violenti, pericolosi o razzisti, questi grandi player interruppero la pubblicità sulla piattaforma con un crollo di Google di 4 punti percentuali e la perdita di milioni di capitalizzazione. A chiudere il cerchio vi è il rischio normativo della continua evoluzione di legislazioni che in determinati paesi possono ad esempio stabilire la responsabilità delle piattaforme dei contenuti generati dagli utenti o comunque porre una serie di limiti indiscriminati a tutela degli stessi con un impatto materiale a carico delle aziende tech.
Gli standard SASB
Ora veniamo agli standard SASB.
Nel 2018 (anno dell’Action Plan sulla finanza sostenibile) proprio alla luce dei rischi sopra esposti e dell’attenzione degli investitori, l’allora Sustainability Accounting Standards Board diede vita ad un progetto per integrare gli standard di rendicontazione del settore IT e Media con specifiche linee guida e metriche riguardanti le policy di content governance e la libertà di espressione degli utenti nonché il loro enforcement, anche in considerazione della natura controversa della responsabilità delle piattaforme sui contenuti e le modalità poco efficaci con cui queste policy possono essere attivate dagli utenti.
La prima tassonomia della content governance
Le analisi compiute da SASB nell’industria tech e una consultazione di aziende e investitori hanno portato nel novembre 2020 alla prima tassonomia della content governance (Moderation Taxonomy), che ha evidenziato le numerose esternalità sociali dei contenuti dannosi anche in relazione alla libertà di espressione degli utenti. La tassonomia ha definito la “moderazione dei contenuti” come l’insieme dei processi e delle procedure utilizzate per individuare e potenzialmente intervenire sui contenuti illegali o indesiderati, soprattutto nelle piattaforme di social media. Inoltre, la tassonomia stabilisce quali sono gli elementi al centro della content governance:
- i contenuti dannosi, che spaziano da quelli illegali (es. contenuti che ritraggono lo sfruttamento sessuale dei bambini), a quelli legali ma discutibili (es. la disinformazione e le fake news);
- i materiali pedopornografici, diffusi, condivisi, scambiati e venduti attraverso i più disparati canali, tra cui “siti web, e-mail, messaggistica istantanea/ICQ, Internet Relay Chat (IRC), newsgroup, bacheche, reti peer-to-peer, siti di gaming, social network e reti anonime;
- i contenuti terroristici e di estremismo violento;
- l’incitamento all’ odio (i.g. hate speache);
- la disinformazione – definita in questo caso come la diffusione intenzionale di informazioni o narrazioni false per perseguire un obiettivo specifico -, il cui esempio più palpabile è rappresentato da fake news, dai movimenti no vax o dalla propagata politica (cfr. le elezioni presidenziali statunitensi del 2016 e il referendum del Regno Unito sull’uscita dall’Unione europea).
In considerazione della stretta correlazione fra moderazione dei contenuti e libertà di espressione degli utenti, SASB li ha classificati sotto un unico standard. Al centro di questi recenti standard, al vaglio dell’ISSB e ancora non definitivi, le policy di gestione e moderazione dei contenuti che dovrebbero essere rese pubbliche dalle aziende al fine di comunicare la loro efficienza nel monitorare l’impatto degli stessi sugli utenti e sulla società civile nonché nel ridurlo e/o eliminarlo anche a seguito delle richieste di rimozione dei contenuti dannosi da parte degli utenti. Gli standard propongono metriche sia quantitative che qualitative.
Le metriche quantitative degli standard SASB
Le quantitative sono:
- il numero di elementi di contenuto rimossi,
- la percentuale di contenuti rimossi scoperti in modo proattivo,
- la percentuale di contenuti rimossi oggetto di ricorso da parte degli utenti,
- la percentuale di contenuti oggetto di ricorso e poi ripristinati,
- la misurazione della velocità con cui le aziende rimuovono i contenuti dannosi e delle reazioni e impressioni medie degli utenti sui contenuti rimossi.
Le metriche qualitative
Le metriche qualitative sono:
- l’importo speso dalle aziende per la content governance,
- la descrizione dell’approccio aziendale all’identificazione e alla gestione dei rischi significativi legati ai contenuti nonché alla gestione della visualizzazione dei contenuti,
- la descrizione dell’approccio aziendale alla moderazione dei contenuti con indicazione della tipologia dei sistemi implementati per la gestione medesima (es. forza lavoro, sistemi automatizzati, terzi fornitori).
Dette metriche possono essere anche utilizzate in modo combinato dagli investitori a seconda della tipologia di azienda in questione, fermo restando l’importanza trasversale della misurazione della azionabilità delle policy (enforcement) per prevenire e ridurre il rischio di impatto sociale e finanziario. Il tema della azionabilità delle policy in uno spazio giuridico il più delle volte globale deve fare i conti con le leggi applicabili nei diversi paesi che possono differire non poco con ulteriore complicazione di uniformità di una gestione dei contenuti, che potrebbe essere diversa e avere un peso differente a seconda del paese dove sono basati i propri utenti. L’analisi della content governance secondo queste nuove metriche diventa strategica anche in relazione a lanci di nuovi prodotti e servizi, o alla strutturazione di operazioni di merger & acquisition o di joint venture atteso l’approccio preventivo e di mitigazione del rischio.
Conclusioni
La definizione di questi standard è in linea con l’attuale tendenza alla standardizzazione di KPIs e metriche che rispondano a framework di rendicontazioni armonizzati per settori di riferimento, risponde inoltre all’urgenza degli obblighi di trasparenza imposti agli operatori del mercato finanziario nonché alle aziende quotate in borsa con riguardo rispettivamente a politiche di investimento e misurazione della sostenibilità dell’attività di impresa rispetto ai fattori ESG.
L’efficacia concreta dell’applicazione di questi standard potrà essere valutata, una volta definiti e pubblicati, solo sul campo nel momento in cui si potrà verificare la loro capacità nel rendere comparabile e misurabile la content governance delle aziende e quindi agli occhi degli investitori la gestione da parte delle stesse del rischio sociale e finanziario dei contenuti digitali dannosi.
Note
- Organismo di definizione degli standard di rendicontazione istituito nel 2021 nell’ambito della Fondazione IFRS ove è confluito il Sustainability Accounting Standards Board, volte a integrare gli attuali SASB “Internet Media & Services Standard” (composti da “Data Privacy, Advertising Standards & Freedom of Expression”) ↑
- Jack Nicas, “Google’s YouTube Has Continued Showing Brands’ Ads with Racist and Other Objectionable Videos,” Wall, Street Journal, March 24, 2017, accessed March 15, 2022, https://www.wsj.com/articles/googles-youtube-has-continued-showing-brands-ads-with-racist-and-other-objectionable-videos-1490380551 ↑