legge di bilancio 2023

Fiscalità dei criptoasset, l’Italia pronta a colmare il gap normativo: novità e nodi da sciogliere

Le disposizioni contenute nella bozza di legge di bilancio, si prefiggono di disciplinare in maniera organica la fiscalità dei criptoasset, o almeno una buona parte di questi aspetti. Se sarà approvato l’intervento avrà il merito di portare chiarezza in un mondo piuttosto complicato.

Pubblicato il 30 Nov 2022

Alberto Franco

Professore a Contratto di Diritto Tributario presso l’Università di Torino, Ph.D. Of Counsel, Genta & Cappa

Startup - criptovalute - Fintech - blockchain - regolamento MiCa

Con la bozza della Legge di bilancio 2023, il Governo sembra sia pronto a colmare il gap normativo in materia di fiscalità dei criptoasset (criptovalutetokenNFT): una questione piuttosto “spinosa” per gli operatori, soprattutto da quando questo settore è diventato pienamente mainstream  (almeno dal 2017, quindi).

Diamo, pertanto, brevemente conto delle prossime evoluzioni nella disciplina italiana, senza pretesa di completezza (anche per il fatto che si tratta comunque di una bozza di provvedimento legislativo, che ben potrà discostarsi anche in misura significativa dalla versione finale della legge) e proviamo a fare qualche ulteriore considerazione sulle numerose incognite che ancora caratterizzano il trattamento IVA dei cripto-asset e sugli sviluppi dell’Unione Europea in questa direzione.

I nodi della fiscalità del mondo crypto

Uno dei più importanti problemi che il “mondo crypto” pone anche sotto il profilo fiscale è legato alla sua a-territorialità, tema invero non nuovo per il diritto tributario (e non solo): è ormai evidente da tempo la “crisi territoriale” del diritto, dato che, mentre le leggi sono solitamente legate ad un ambito territoriale, è già da qualche decennio che una parte significativa dell’economia, ovverosia, in sostanza, la digital economy, prescinde da un determinato territorio[1].

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Normazione e fiscalità dei cripto-asset

Dal punto di vista fiscale è complicato adattare schemi e modelli giuridici pensati per un contesto economico tradizionale ad un mondo totalmente diverso e “a-territoriale” come quello della blockchain e del web3. Spesso l’inquadramento di queste fattispecie dal punto di vista tributario si caratterizza come percorrere un vero e proprio territorio inesplorato, non segnato dalla “cartografia ufficiale”, poiché le norme attuali non sono state affatto congegnate per contemplare queste situazioni, di talché “la complessità della materia preclude la prospettazione di soluzioni, se non in chiave inevitabilmente interlocutoria e largamente dubitativa”[4].

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Nondimeno, questo settore ha scontato anche una cronica assenza di regolamentazione che certo non ha aiutato gli operatori. Quanto indicato sopra in merito all’a-territorialità, infatti, non giustifica il preoccupante vuoto normativo relativo agli aspetti fiscali dei cripto-asset che perdura tuttora.

È pur vero che siamo abituati al fatto che il diritto deve “inseguire” la tecnica, ma è anche vero che, mentre quest’ultima ha accelerato notevolmente in questi ultimi anni, il diritto sembra aver smesso di correre, e il gap tra i due è aumentato sempre di più.

Basti pensare che, a livello italiano, l’intera “disciplina” è stata sinora dettata di fatto unicamente dalle risposte ad interpello dell’Agenzia delle Entrate. A tal fine occorre considerare che le risposte ad interpello (in gran parte su criptovalute e utility token) fornite dall’Amministrazione finanziaria hanno, per loro stessa natura, un approccio molto “casistico” che non è automaticamente estendibile a fattispecie che si discostano sensibilmente da quelle rappresentate negli interpelli, e la varietà di configurazioni che un token può assumere non rende certo agevole estendere i criteri delineati dall’Agenzia delle entrate ad altri casi. Nondimeno, è evidente che non si può attribuire all’Agenzia delle Entrate la “colpa” di non aver regolamentato il fenomeno: questo è un compito che spetta al legislatore, e non all’Amministrazione finanziaria, la quale si è trovata nella scomoda posizione di dover fornire chiarimenti ai contribuenti in presenza (rectius, in assenza) di un framework normativo del tutto carente, facendo invero uno sforzo apprezzabile.

Tuttavia, tale situazione sembra finalmente dover mutare nel prossimo futuro, in quanto il legislatore sembra essersi deciso a colmare (in buona parte) il vuoto normativo di cui sopra nella legge di bilancio 2023.

Attuale qualificazione delle criptovalute e legge di bilancio 2023

Un primo esempio di come la combinazione tra a-territorialità del “mondo crypto” e mancanza di una regolamentazione ad hoc conduca a una significativa incertezza circa i profili fiscali è quello relativo alla disciplina relativa alla qualificazione, ed ai connessi temi di monitoraggio fiscale, di token e criptovalute.

Si ricorda infatti che, in tale ambito, secondo l’attuale orientamento dell’Amministrazione finanziaria (invero, non del tutto condiviso da una parte della dottrina) le criptovalute sono parificate alle valute estere, con la necessità di indicare le stesse nell’apposito quadro RW della dichiarazione dei redditi – salvo, sembrerebbe dai più recenti orientamenti della prassi amministrativa, nel caso in cui siano detenute presso piattaforme residenti o aventi una stabile organizzazione in Italia.

In questo contesto, si inseriscono le disposizioni contenute nella bozza di legge di bilancio (articoli 30 e seguenti), che si prefiggono di disciplinare in maniera organica la fiscalità dei criptoassset, o quantomeno una buona parte di questi aspetti.

Anche se è chiaramente troppo presto per fornire una valutazione complessiva ed una compiuta disamina di queste disposizioni (disamina che sarebbe certo prematura e che si rimanda semmai ad un futuro contributo post approvazione della legge di bilancio), l’approccio sembra condivisibile e le norme proposte nell’attuale bozza della legge si valutano certamente in maniera positiva. Esse, infatti, avrebbero il merito di porre rimedio ad una situazione in cui, come si accennava in precedenza, le uniche linee guida per il contribuente erano dettate dall’Amministrazione finanziaria – anche se, come già illustrato retro, non si può certamente attribuire all’Agenzia delle Entrate la “colpa” di non aver regolamentato il fenomeno.

Ad ogni modo, la bozza di legge di bilancio prevede innanzitutto che, in estrema sintesi, le plusvalenze e i proventi derivanti dalle cripto-attività siano inseriti tra i redditi diversi di natura finanziaria di cui all’articolo 67, comma 1, lettere c e seguenti del TUIR.

Con questo intervento normativo ci si discosta in maniera notevole dall’orientamento precedentemente affermatosi nella prassi amministrativa, ovverosia di considerare le criptovalute come asset assimilabili a valute estere. Nella legge di bilancio, infatti, i redditi da cripto-asset vengono considerati come una autonoma componente dei redditi diversi, e ciò ha conseguenze importanti anche sulla determinazione di tali redditi e sulla tassazione degli stessi; allo stato attuale, la bozza di legge di bilancio prevede infatti che le plusvalenze inferiori complessivamente a 2.000 euro nel periodo d’imposta (soglia quantitativa che, beninteso, potrebbe benissimo variare nella versione finale della legge di bilancio) non siano soggette ad imposizione, e che non costituisce una fattispecie fiscalmente rilevante la permuta tra cripto-attività aventi medesime caratteristiche e funzioni.

Inoltre, aspetto che sembra del tutto apprezzabile, e di particolare importanza nello sviluppo dell’intero settore (nonché dell’ulteriore ingresso nello stesso anche di intermediari finanziari “tradizionali”) è il fatto che nell’ambito della legge di bilancio si siano inserite le cripto-attività tra i rapporti che possono essere inseriti nel regime di risparmio amministrato o di risparmio gestito. Questo sembra assicurare un funzionamento più “fluido” dell’intero sistema e valorizzare il ruolo dei soggetti “centralizzati”, come appunto – oltre agli istituti bancari e finanziari – gli exchange centralizzati (CEX), i servizi centralizzati di custodia dei criptoasset e così via, anche dal punto di vista tributario, essendo peraltro gli stessi proprio il punto in cui, si ripete, realizzandosi la conversione tra criptoasset e valute FIAT, si può evincere a chi appartenga un determinato indirizzo pubblico, e dovendo gli stessi già porre in essere procedure di KYC nei confronti del cliente.

Rimangono tuttavia alcune incertezze sulla detenzione “diretta” di criptovalute, dato che anche nel regime previsto dalla legge di bilancio occorrerebbe indicare le criptovalute quale “attività estera” nella dichiarazione dei redditi, senza tuttavia specificare uno Stato estero, come se l’a-territorialità fosse una detenzione all’estero.

Ora, è abbastanza evidente come questo regime non sia il massimo dell’efficienza nel contesto economico attuale, dovendo costringere il contribuente ad effettuare calcoli anche piuttosto complessi (con i relativi costi, in termini di tempo o di onorari di un professionista) per dei dati che fondamentalmente l’Amministrazione finanziaria potrebbe ricavare, quantomeno per i flussi “in entrata” e “in uscita” dal sistema, dalle movimentazioni bancarie del contribuente nei confronti degli exchange centralizzati, dai quali passa la quasi totalità della liquidità immessa nel sistema e si concretizza lo scambio tra valuta a corso legale (FIAT) e criptovalute[2].

Problematiche ai fini IVA: identificare e localizzare il cliente in un sistema pseudo-anonimo?

Se il legislatore sembra (finalmente) in procinto di intervenire su numerosi aspetti della fiscalità del “mondo crypto”, ci sono altri profili che rimarrebbero comunque particolarmente problematici in ragione dell’a-territorialità di questo settore, ed in particolare i profili relativi all’IVA.

Occorre premettere che, com’è noto, un’infrastruttura basata sulla blockchain è di regola basata sostanzialmente su un sistema non tanto anonimo, ma piuttosto pseudo-anonimo, ovverosia che contempla l’utilizzo di uno pseudonimo (l’address del wallet, che è la chiave pubblica utilizzata nei trasferimenti di criptoasset) per l’effettuazione delle transazioni. Di talché, la questione non è identificare quale wallet effettui certe operazioni, ma a quale persona (fisica o giuridica) sia semmai riconducibile un determinato wallet, in quanto tale persona ne detiene le chiavi private o la seed phrase. In altri termini, quindi, nella blockchain le transazioni sono (contrariamente a quanto si crede di regola) tutte pubbliche: chiunque può vedere le transazioni intercorse tra un indirizzo A ed un indirizzo B – il punto è semmai che non è possibile determinare (se non con analisi particolarmente complesse) a chi appartiene “nel mondo reale” l’indirizzo A o l’indirizzo B.

Sotto il profilo tributario, questa difficoltà (se non sostanziale impossibilità) di appurare univocamente la localizzazione e lo status (privato o imprenditore) della controparte rappresenta oggi una grande problematica che il settore si trova ad affrontare, soprattutto sotto il profilo Iva e in specie da parte di coloro che compravendono direttamente i propri token (NFT su tutti) e dei soggetti che si pongono sul mercato quali intermediari o marketplace.

Ciò vale particolarmente per l’IVA; infatti, se le criptovalute sono state ritenute dalla Corte di Giustizia UE, con la nota sentenza Hedqvist (sentenza del 22 ottobre 2015, causa C-264/14), parificate alle valute “tradizionali” e quindi esenti IVA – ma, beninteso, a patto che le stesse non abbiano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento – discorso molto diverso deve essere fatto per i token che incorporano altre finalità o use case, quali gli utility token, gli NFT e così via.

L’orientamento prevalente è infatti quello di ritenere i token diversi dalle criptovalute come “beni” soggetti ad IVA, e ciò può avere delle notevoli complicazioni per gli operatori. Si pensi ad esempio all’orientamento prevalente in dottrina che sostiene l’assimilazione, in via di principio (e salvo casi particolari), della cessione degli NFT da soggetti diversi dall’autore all’ipotesi di cessione di “beni digitali”, ovverosia di prestazione di servizi e quindi di e-commerce diretto, con le relative esigenze di identificazione del cliente finale non solo nel caso di operazioni tra soggetti B2B (cosa che appare comprensibile, anche in ragione dei riflessi IVA per l’acquirente che tale operazione può comportare), ma anche per la vendita a clienti finali “privati” (operazioni B2C), ove la localizzazione dell’acquirente o la sua identificazione potrebbe benissimo non avere alcuna rilevanza per il cedente che non sia quella strettamente fiscale, e potrebbe non essere nemmeno possibile, tecnicamente fattibile od economicamente conveniente implementare qualsivoglia procedura di KYC.

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A ciò si aggiungono, peraltro, le obsolete presunzioni previste dal Regolamento UE n. 1042/2013 per individuare il luogo del committente (ovverosia, nel caso che si discute, l’acquirente del token). Può sembrare strano definire “obsolete” le previsioni recate in un Regolamento del 2013, ma in effetti le stesse avrebbero bisogno di una robusta revisione nonostante abbiano meno di dieci anni: è chiaro che nel “mondo crypto” alcune circostanze come l’indirizzo di fatturazione del destinatario o le coordinate bancarie sono difficilmente utilizzabili, mentre altre, come l’indirizzo IP del dispositivo utilizzato dal destinatario, sono di fatto poco affidabili in un contesto, come quello del 2022, in cui ciascun utente può geolocalizzarsi ovunque nel mondo, anche in Paesi agli antipodi rispetto a quello in cui effettivamente risiede, per mezzo di qualsiasi VPN da pochi euro di abbonamento al mese.

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Conclusioni

È normale che, al crescere delle dimensioni del “mondo crypto” e dei volumi scambiati, emerga in maniera sempre più pressante l’esigenza di creare un framework normativo volto innanzitutto ad evitare usi illeciti ed a verificare i flussi di denaro che coinvolgono gli utenti e gli operatori[3]. Del resto, numerose istituzioni nazionali e sovranazionali si sono tempestivamente attivate con riferimento a tale aspetto; sotto questo profilo l’azione dell’Italia, con l’obbligo dal luglio scorso per gli operatori nel campo delle criptovalute di iscrizione al registro tenuto dall’Organismo Agenti e Mediatori (OAM), non può che valutarsi positivamente, e anche gli operatori stessi hanno accolto positivamente la volontà di regolamentare questo settore (seppur con qualche timore circa gli effetti di una possibile “concorrenza sleale” da parte degli operatori offshore)[4].

È parimenti evidente, e del tutto comprensibile, che anche il sistema tributario necessita e necessiterà di un significativo (e probabilmente frequente) update per poter considerare in maniera appropriata i fenomeni derivanti dalla “cryptoeconomy”, anche in considerazione del fatto che le problematiche e le difficoltà che gli operatori si trovano ad affrontare rischiano di ostacolare uno sviluppo armonico del settore e di far sì, peraltro, che gli ingenti investimenti nello stesso vengano dirottati in giurisdizioni più “permissive”, o quantomeno più attente ad una regolamentazione più puntuale ed efficiente di queste fattispecie.

In tale contesto, è sicuramente da accogliere in maniera positiva l’intervento normativo prospettato nella bozza attuale di legge di bilancio del 2023, il quale – se sarà effettivamente approvato – avrebbe il merito di portare chiarezza in un “mondo”, come quello dei cripto-asset, piuttosto complicato. Chiaramente occorrerà valutare detto intervento normativo una volta che sarà approvato, ma le premesse sembrano buone.

A livello europeo, invece, non si ha invece alcuna evidenza del fatto che si sia intenzionati a procedere in tempi brevi sul piano fiscale.  È pur vero che l’Unione Europea è in procinto di varare il Regolamento Market in Crypto Asset (MiCA); tuttavia, dal punto di vista fiscale, ed IVA in particolare, ad oggi gli unici interventi sono stati quelli della Corte di Giustizia UE e del Comitato IVA, che in alcuni documenti (i Working Paper n. 983/2019 e n. 1037/2022) ha affrontato alcuni aspetti. È evidente come si potrebbe fare qualcosa di più per assicurare un grado maggiore di certezza per gli operatori anche in questo campo.

Note

  1. D. Deotto, Gli NFT diventeranno uno strumento quasi “ordinario”, in AA.VV. NFT e metaverso, il Sole 24 Ore, maggio 2022, 5.
  2. L. Boiardi, Investire in Bitcoin e Criptovalute, Milano, 2022, 41. ↑ 
  3. L. Boiardi, Investire in Bitcoin e Criptovalute, Milano, 2022, 40.↑
  4. A. Gennai, Sono 74 gli iscritti al registro OAM per le cripto, in AA.VV., Finanza Digitale #02 / Cripto, il Sole 24 Ore, 2022, 23 .

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