L'APPROFONDIMENTO

Giocando s’impara? Alla ricerca delle proprietà educative “elevate” di giochi e videogiochi

La letteratura scientifica ha esplorato le opportunità di giochi e videogiochi per l’educazione e il cambiamento psicologico, ma si è focalizzata principalmente sugli aspetti più semplici. Al contrario, evidenze recenti sfidano queste concezioni, concentrando l’attenzione sulle proprietà di fiction e immedesimazione

Pubblicato il 09 Mar 2023

Stefano Triberti

professore associato di Psicologia Generale presso Università Telematica Pegaso

Maria Concetta Carruba

ricercatore in Pedagogia Speciale presso Università Telematica Pegaso

gaming - e-sports

Da più di trent’anni la ricerca psicologica esplora le proprietà di giochi e videogiochi per il potenziamento delle abilità cognitive. È indubbio che i giochi in generale, in quanto strutture di regole da padroneggiare e applicare per ottenere un determinato scopo, costituiscano stimoli complessi per la nostra mente, capaci di coinvolgerci a livello di ragionamento, memoria, sistemi motivazionali e risposta motoria.

Il ruolo del gioco nei processi di apprendimento

L’origine dell’idea che i giochi in generale possano allenare e sviluppare le abilità cognitive, e quindi “renderci più intelligenti”, si perde nei tempi antichi: si può discutere del fatto che già Platone, paragonando il gioco all’atto creativo degli dei e alla natura del mondo (come già accennava Eraclito), riconoscesse all’azione di giocare una funzione positiva per la crescita e la maturazione.

Didattica, così i videogame aiutano l’apprendimento

Anche la letteratura scientifica in ambito pedagogico conferma il ruolo centrale del gioco nei processi di apprendimento tanto in quello spontaneo che in quello intenzionale e strutturato. Gli autori classici avevano già evidenziato nei loro lavori gli aspetti educativi del gioco, l’importanza della metodologia attiva nei processi didattici o, ancora, vere e proprie classificazioni del gioco (Piaget 1951; Vygotskij 1967; Bruner, Jolly, Sylva 1976) utili per coglierne le potenzialità da un punto di vista didattico: rendere la didattica attiva consente allo studente un apprendimento più esperienziale. In tempi più recenti, però, anche a fronte delle molteplici opportunità e produzioni digitali, è possibile rintracciare nei giochi e nei videogiochi il ruolo di veri e propri “facilitatori” per l’apprendimento che usano il gioco come sfondo e permettono all’allievo un apprendimento trasversale, indiretto (Almon, 2003; Samuelsson, Carlsson, 2008; Bodrova, Germeroth, Leong, 2013; Bateson, Martin, 2013). Lo studente “apprende” , dal latino apprĕhendĕre che significa “ricevere e trattenere nella mente”, subendo meno il carico cognitivo dei processi di apprendimento tradizionali e, al contempo, diviene co-costruttore del proprio sapere. Prospettiva che evidenzia in quale misura il gioco permetta di sviluppare, allenare, interiorizzare e consolidare alcune caratteristiche e abilità che, pur se non specificamente coinvolti nel processo di apprendimento, ne risultano un sostegno al processo: l’autoregolazione, la flessibilità, la negoziazione, il decision making, il problem solving, la creatività (Gily, 2002; Lazzeri & Bocci, 2022).

Giocare diviene, dunque, l’occasione per giocare con gli apprendimenti, per mettersi in gioco. Pratica consolidata e pedagogicamente riconosciuta per il bambino che, nel tempo viene spesso tralasciata o, ancor peggio, usata male. Il gioco, invece, rappresenta non solo uno strumento ma un vero e proprio “spazio” di apprendimento entro il quale si entra in contatto con la motivazione personale, la capacità di leggere il “contesto” e accoglierne le regole (netiquette), la propensione all’esplorazione, all’autocontrollo e alla socialità. Senza limite alcuno legato all’età.

Anche relativamente al gioco digitale e al videogioco. Nell’Agenda 2030 (UN, Horizon 2030, 2015) si sottolinea l’importanza di allenare le competenze digitali già a partire dalla scuola dell’Infanzia.

I giochi potenziano le abilità cognitive?

È possibile comunque sostenere che tali strumenti ludici abbiano effetti dimostrabili sulle capacità cognitive? Per quanto riguarda i videogiochi, è importante ricordare gli studi pionieristici di Green e Bavelier (2003; 2006; 2012; Achtman, Green & Bavelier, 2008): pubblicarono diversi studi dai primi anni Duemila da cui sembrava evincersi che i giocatori di videogiochi sviluppavano diverse abilità cognitive (come la velocità di apprendimento o l’attenzione divisa) a un livello superiore rispetto ai non-giocatori. I risultati di queste ricerche sono stati in parte ridimensionati dalla letteratura successiva (Murphy & Spencer, 2009; Trisolini, Petilli & Daini, 2018): Green e Bavelier, infatti, non misuravano gli effetti di sessioni di gioco, bensì confrontavano giocatori assidui e non giocatori in termini di performance a test cognitivi tradizionali.

Il videogioco nell’educazione 4.0: così il gaming forma, educa e istruisce

È stato osservato che tale approccio metodologico non consentiva di considerare l’intervento delle variabili motivazionali (in altre parole, un videogiocatore sottoposto a un test tende ad avere una maggiore motivazione di eccellere proprio perché maggiormente abituato a contesti che mettono alla prova le sue abilità; è possibile che parte del risultato al test fosse determinato non tanto da superiori abilità cognitive, quanto da più alti livelli di motivazione e autoefficacia). È stato anche suggerito da studi più approfonditi (Irons, Remington & McLean, 2011) che i videogiocatori potrebbero essere capaci di adattare la loro performance alle richieste del compito nel corso dello stesso (una sorta di capacità tattica, certamente richiesta sovente dai videogiochi), ma non per questo possano essere considerati “superiori” in termini di abilità attentive e cognitive.

Gli aspetti positivi trasversali del gioco

Studi recenti permettono di correlare l’esposizione a nuovi strumenti di apprendimento, quali giochi e videogiochi appunto, a conformazioni o strutture mentali ben diverse dalle generazioni precedenti che non hanno avuto modo di relazionarsi con strumenti e opportunità di questo tipo. Oggi si parla addirittura di Neurodidattica (Rivoltella, 2012) e di abilità e competenze che sembra stiano mutando in riferimento alle pratiche d’uso di device e all’esposizione ai videogiochi. Latham, Patson e Tippet (2013) nei loro lavori dimostrano che diversi decenni di videogiochi hanno certamente inciso rispetto ad alcune abilità cognitive. Tra le principali evidenze degli esiti di queste loro ricerche possiamo citare:

  1. una migliore coordinazione oculo manuale che peraltro non sembrerebbe dipendere dall’intensità d’uso;
  2. tempi di reazione notevolmente più brevi;
  3. miglioramento dell’elaborazione visuo-spaziale;
  4. più ampia capacità di anticipazione visiva e di strategie di ricerche visive;
  5. migliore gestione dell’attenzione in situazioni dinamiche.

Accanto a questi aspetti positivi trasversali, non sono mancati poi studi che ci permettono di affermare che, se progettati e usati in modo sistematico, giochi e videogiochi possono rappresentare un facilitatore per l’apprendimento anche per gli studenti con profili di funzionamento non neurotipici. Negli studi di Franceschini et al. (2013) ma anche in quelli di Sibilio, Fulgione, Di Tore (2014) emerge come un training con videogiochi d’azione ha portato a un miglioramento delle capacità di lettura per il campione di studenti con dislessia preso in esame.

Gli studi sul ruolo del gioco nel processo di apprendimento nei contesti formali

Dal punto di vista pedagogico, dobbiamo certamente a Papert & Harel (1991) prima e a Resnick (1995) poi i primi importanti lavori sul ruolo del gioco nel processo di apprendimento nei contesti formali. Gli autori definiscono giochi e videogiochi come una vera e propria palestra per il “pensiero computazionale”. Semplificando, in questo contesto il pensiero computazionale può essere inteso come un complesso processo che permette di scomporre un macro “compito” in più sottocompiti per meglio leggere e comprendere lo stesso allenando processi mentali elevati quali il ragionamento, l’immaginazione, le inferenze e le rappresentazioni (Girotto, Legrenzi, 1999; Ferranti, Agosto, 2016). Così definito, il pensiero computazionale ha assunto un vero e proprio valore pedagogico e riconosciuto come fondamentale per scomporre ma anche per decodificare e, conseguentemente, programmare azioni e procedure ripetibili (algoritmi riutilizzabili).

Questo tipo di pensiero associato al gioco richiama alla capacità dei progettisti dell’educazione (gli insegnanti) di proporre attività didattiche e di apprendimento che permettano all’allievo di sperimentarsi con attività piacevoli ma sfidanti perché possano attivare quei processi mentali necessari per padroneggiare situazioni complesse (Papert, 1988). Per molto tempo il gioco didattico, propriamente inteso, è stato rappresentato da software didattici chiusi (che non consentono modifiche e personalizzazioni). Il software didattico chiuso è concepito con un sistema predefinito (chiuso, appunto) nel quale il giocatore impara attraverso un susseguirsi di attività lineari. Nascono con scopi didattici espliciti e ruotano intorno a una disciplina o un contenuto specifico della stessa. Un incentivo per “imparare bene e velocemente”, volendo usare le parole di Papert. I giochi e videogiochi di ultima generazione sono, invece, addirittura “aperti” e consentono un vero e proprio apprendimento per scoperta lasciando al giocatore la possibilità di orientare il processo.

Le possibilità dei videogiochi di potenziare abilità cognitivo-sociali

Parallelamente, la letteratura ha esplorato le possibilità dei videogiochi di potenziare abilità cognitivo-sociali, come ad esempio la regolazione emotiva. Il potenziamento di queste abilità è strettamente legato, nelle prime formulazioni di questi studi, alla componente motivazionale: si evidenzia che i videogiochi vengono spesso giocati per distrarsi dalle emozioni e dalle esperienze negative, combattere lo stress, rifugiarsi in un “posto sicuro” emotivo (escapism), in altre parole a fini di mood repair (Bowman & Tamborini, 2012; Reinecke et al., 2012; Rieger et al., 2014). Alcuni studi successivi utilizzano metodologie più sofisticate ed esplorano la possibilità di creare videogiochi appositamente per indurre frustrazione e poi insegnare strategie per gestirla (Rodriguez et al., 2015; Vara et al., 2016), oppure per rappresentare il processo di regolazione delle emozioni e così allenarlo (Scholten et al., 2016; Cejudo & LaTorre, 2015).

Queste e altre evidenze hanno portato allo sviluppo di concetti particolarmente fortunati come quelli di edutainment, gamification, serious game, game for social change (Triberti & Argenton, 2013; Maestri, Polsinelli & Sassoon, 2018; Kappa, 2012): una vera e propria cultura del gioco e del videogioco che punta coscientemente a sfruttarne le opportunità formative e didattiche già al livello dello sviluppo e del game design. Diventa piuttosto comune incontrare progetti di ricerca e di intervento che contengono, come elemento secondario oppure come vera protagonista, una attività di gioco o videogioco volta ad allenare abilità cognitive, fisiche, emotivo-sociali, il tutto radicato nella credenza che tali strumenti dispongano di una particolare efficacia nel promuovere il cambiamento.

E’ possibile oggi confermare questa credenza? Solo in parte; review sistematiche e meta-analisi focalizzate sui serious game in diversi ambiti (Girard, Ecalle, & Magnan, 2013; Ypsilanti et al., 2014) riportano evidenze non completamente conclusive. I problemi della letteratura riguardano in particolare misurazioni dell’efficacia non chiare o incommensurabili, e anche una eccessiva diversità tra le tipologie di gioco/videogioco utilizzate nei diversi studi. Il risultato più frequente è che i prodotti ludici si distinguono consistentemente da altri strumenti di intervento in termini di motivazione positiva e coinvolgimento, ma non è possibile dire con chiarezza se siano universalmente più efficaci nel raggiungere gli obiettivi formativi.

Cambiare il nostro sguardo sui giochi

È possibile sostenere che sia necessario complessificare la rappresentazione che la letteratura scientifica ha di giochi e videogiochi. Da una parte, review successive focalizzate sull’utilizzo dei videogiochi per la promozione della regolazione emotiva (Villani et al., 2018) trovavano risultati interessanti: l’evidenza di studi multipli sembrava suggerire che maggiori opportunità per l’esercizio di abilità emotive si potevano trovare nel gioco assiduo con prodotti commerciali piuttosto che nell’utilizzo di serious game. Gli autori speculavano che ciò fosse dovuto alla possibilità per i giocatori di sperimentarsi non solo con le esperienze di “mera interazione” spesso supportate da videogiochi creati ad hoc (per esempio: attività semplici come far scoppiare bolle, costruire strutture, platforming, ecc.), ma anche e soprattutto di potersi immergere in storie complesse e sistemi di relazioni. In questo senso le proprietà più potenti di giochi e videogiochi per mettere alla prova abilità emotive e sociali sarebbero le proprietà di fiction nelle quali il giocatore può immergersi per consistenti periodi di tempo: pur non volendo con questo suonare dispregiativi, il semplice “giochino” con vaghe proprietà simboliche o pensato principalmente per distrarre o rilassare non promuove il medesimo cambiamento che può ottenere una complessa storia nella quale il giocatore può fare esperienza di forti emozioni, scelte morali, relazioni complesse. Contesti simili agiscono come veri e propri “laboratori” per l’esercizio di abilità sociali (Triberti, Villani & Riva, 2015; Triberti, Di Pasquale e Riva, 2018).

Un secondo elemento rilevante, che a nostro avviso merita interesse di ricerca per una concezione rinnovata dei giochi e del loro potenziale per il cambiamento, sono alcune tendenze nell’evoluzione dei giochi stessi, per come sono rilevabili nella società contemporanea, al livello tanto delle proposte commerciali attuali quanto dei mutamenti della cultura pop che li circonda. Fino a qualche anno fa si discuteva dell’emergere di giochi “semplici” e “user-friendly”; vi è stata senz’altro una importante deviazione nel mondo di giochi e videogiochi, volta a catturare l’attenzione di gruppi demografici differenti da giovani e adolescenti. Emerse a livello globale il concetto di “casual gaming” (Wilson & Leaver, 2016), giochi rivolti a famiglie, adulti e anziani che tendenzialmente hanno poco tempo e interesse per sviluppare competenze e abilità complesse: così i party game, numerosi giochi per piattaforme mobile o console rivolte a famiglie, furono sviluppati per facilitare un ingresso immediato nell’ambiente di gioco e privilegiare relax e divertimento sugli elementi di complessità.

Se da una parte questa tendenza è ancora presente e rappresenta una importante fetta del mercato di giochi e videogiochi, è possibile a nostro avviso notare anche un “ritorno di massa” di prodotti rivolti a giocatori che cercano al contrario sfide difficili e coinvolgenti a livello cognitivo/intellettuale. Rappresentanti di questa tendenza si possono rilevare per esempio:

  • nel potente ritorno dei libri game, caratterizzati da meccaniche di gioco ed enigmi innovativi e complessi, rinnovamento di cui tra l’altro l’Italia è considerabile una importante locomotiva, tra nuovi autori e case editrici dedicate (Giove, 2022);
  • nell’emergere e nella diffusione negli ultimi anni delle escape rooms, esperienze interattive e di gruppo di grande successo, che riportano l’esperienza di gioco al di fuori del digitale e delle case degli utenti (Veldkamp et al., 2020; Wiemker, Elumir, & Clare);
  • nell’interesse degli sviluppatori e dei giocatori verso giochi e videogiochi di tipo analitico, riflessivo, investigativo (per fare un esempio, sulla piattaforma Steam che supporta l’acquisto di una vasta proporzione dei giochi esistenti per computer, giochi con elementi di “mistero” e “rompicapo” superano oggi di gran lunga i più noti “sparatutto” e “picchiaduro”);
  • nel “return of the Whodunnit” di cui scrivono studiosi e giornalisti di media, ovvero il rinnovato interesse, tra diversi media come videogiochi, podcast e cinema, per i gialli tradizionali in cui il focus narrativo è sul processo di investigazione e sulla complessità degli enigmi.

Conclusioni

Che rilevanza ha questo per la ricerca psicologica e pedagogica? E’ possibile che alcune opportunità dei giochi e dei videogiochi siano state finora, almeno in parte, sotto-sfruttate. Se oggi è dimostrato che sistemi interattivi divertenti supportano la motivazione e l’impegno, e migliorano abilità cognitive di base, è possibile immaginare che lo sfruttamento delle proprietà più “alte” di giochi e videogiochi (come le proprietà di fiction e immedesimazione, o l’inserimento di enigmi e problemi realmente complessi e sfidanti) presentino ancora delle sorprese. La ricerca psicologica può puntare innanzitutto alla profilazione degli utenti di giochi e videogiochi di generi peculiari, meno noti o emersi solo recentemente al livello degli interessi dell’utenza, cercando di comprendere le motivazioni che supportano un impegno notevole o un rilevante dispendio di “energie” a livello cognitivo, e allo stesso tempo può esplorare i benefici attesi o effettivi che tali giochi e videogiochi hanno sulla vita e le capacità dei fruitori.

Evidenze di questo tipo offrirebbero nuovi spunti anche alla ricerca pedagogica, soprattutto nell’ottica di impostare la didattica di concetti complessi oppure supportare il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti a livello morale ed esistenziale, permettendo agli utenti della formazione di mettere alla prova sè stessi all’interno di scenari simulati e tuttavia immersivi. La nostra ipotesi è che l’utilizzo di giochi di questo tipo (proprietà di fiction elevate e/o complesse richieste cognitive) possa non solo promuovere cambiamenti comportamentali e di apprendimento/educazione, ma anche garantire che tali cambiamenti perdurino nel tempo e contribuiscano ad formare caratteristiche e capacità stabili nelle persone.

Infatti, dal punto di vista pedagogico e didattico il gioco e il videogioco non rappresentano solo l’occasione per una proposta didattica attiva e interattiva e neppure soltanto l’occasione per promuovere un apprendimento più divertente e piacevole per l’allievo; essi rappresentano una “palestra progettuale” anche per l’insegnante che può prendere spunto dai principi di apprendimento su cui si fondano giochi e videogiochi per applicare gli stessi anche in altri contesti. Gee (2003) individua ben 36 principi tra i quali possiamo evidenziare i quattro più significativi in termini didattici:

  1. I giochi ben fatti limitano la decontestualizzazione e il sovraccarico informativo e forniscono informazioni su richiesta in tempo reale relativamente al contesto d’uso e connesse agli obiettivi didattici e/o educativi esplicitati;
  2. I giochi ben fatti propongono all’allievo sfide graduali e in crescendo: sono sfidanti a tal punto da motivare al successo ma non eccessivamente frustranti per evitare di demotivare il fruitore con sfide non in linea con il livello di competenza raggiunto;
  3. I videogiochi intesi come “software aperti”, consentono al fruitore di essere al contempo giocatore e costruttore delle sfide ludiche (le scelte operate dal giocatore variano il contesto e lo rendono strettamente personale l’esperienza di gioco);
  4. nei videogiochi ben fatti ci si misura con sfide che vengono praticate fino a quando non si verifica una nuova padronanza di ordine superiore offrendo al giocatore la possibilità di effettuare generalizzazioni che divengono un vero e proprio “ciclo di esperienza”.

In accordo con questa visione, proponiamo quindi una rinnovata attenzione a giochi e videogiochi che sappia riconoscere le loro evoluzioni e la loro complessità, allo scopo di esplorare ulteriormente le opportunità offerte da questi complessi media per la crescita delle persone e per la promozione della salute e del benessere.

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