La recente proposta di Regolamento EMFA (European Media Freedom Act)[1], è foriera di importanti misure per la tutela del pluralismo ma, allargando il raggio della riflessione, non possiamo non soffermarci su quelli che appaiono nodi irrisolti tanto del discorso pubblico quanto del discorso esperto, soprattutto rispetto alle piattaforme e al rapporto tra queste e gli editori.
Giomi (Agcom): “Pluralismo informativo, come tutelarlo nell’era digitale”
Ciò è sicuramente spia dei numerosi elementi di complessità e di ambivalenza propri dei processi economici, produttivi e non ultimo simbolici che coinvolgono l’ecosistema digitale e i suoi principali attori, ma che occorre tuttavia “tenere assieme”, rifuggendo dalla tentazione di narrative manichee e semplificatorie, se vogliamo avere uno sguardo quanto più equilibrato e lucido su questi fenomeni. Uno sguardo simile, nella mia posizione di regolatrice, è peraltro imprescindibile.
In virtù di tale posizione certo non entrerò nel merito dei procedimenti attualmente in corso ad Agcom, ma non vedo controindicazioni a contribuire ad una riflessione su questi temi, urgenti e centrali per la nostra democrazia.
Le nuove norme a tutela del pluralismo contenute in EMFA
Come è noto, quella in tema di pluralismo è disciplina diversissima tra gli Stati Membri dell’Unione Europea, e la sua tutela è spesso parcellizzata anche all’interno dei singoli ordinamenti giuridici, affidata a norme anche di diversa natura. Tuttavia, con le inevitabili generalizzazioni del caso, è possibile rilevare la prevalenza di un’impostazione in chiave di diritto della concorrenza, che interpreta la tutela del pluralismo soprattutto come divieto di concentrazioni tra imprese. In altri termini, si tende a interpretare il pluralismo come la necessaria presenza di una pluralità di attori economici. Riprendendo quanto già osservato nel primo articolo, osserviamo come ciò non costituisca condizione né necessaria né sufficiente per garantire anche l’altra interpretazione del pluralismo, inteso come pluralità dei punti di vista, o, come ben enunciato o in una sentenza della Corte Costituzionale del 1993, “delle fonti cui attingere conoscenze e notizie (…) in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti”. Viceversa, un ecosistema mediale caratterizzato da una pluralità di outlet di proprietà diversa non scongiura – perlomeno non automaticamente – il pericolo di visioni monolitiche e con scarsa diversificazione interna.
Leggendo la proposta di EMFA alla luce di queste premesse, non vi è dubbio che si tratti di un documento molto avanzato: evita di fornire una definizione espressa di pluralismo, diversamente da quanto ci si aspetterebbe data la natura dell’atto quale Regolamento, strumento di massima armonizzazione del diritto UE (una scelta, verosimilmente intenzionale e presumibilmente dettata proprio dalla citata disomogeneità normativa) ma include considerazioni che rimandano ad entrambe le dimensioni del pluralismo.
È presente, infatti, una nozione di pluralismo come “divieto di concentrazioni”, ma le misure in tal senso sono affiancate ad altro: l’articolo 21 della proposta di Regolamento imporrebbe agli Stati Membri di prevedere regole sostanziali e procedurali per valutare le concentrazioni nei mercati dei media che possono avere un impatto significativo sul pluralismo e l’indipendenza editoriale. Si impone quindi di fissare principi di trasparenza, oggettività e proporzionalità, senza però fare riferimento ad alcuna soglia anticoncentrativa.
L’EMFA aggiunge anche che questo assessment deve essere distinto da quello di diritto antitrust, che è fatto salvo tramite un espresso rimando al Regolamento 139/2004/CE relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese, ma che comunque non sembra presidio normativo sufficiente a scongiurare lesioni del pluralismo dell’informazione. Il testo si preoccupa infatti di enunciare le circostanze da valutare a tale scopo (e la Commissione dovrebbe emettere anche delle linee guida sugli ulteriori fattori da considerare): gli effetti sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla diversità dei media; le salvaguardie per l’indipendenza editoriale; la sostenibilità economica della mancata concentrazione (valutando ad esempio le possibilità di sopravvivenza dei soggetti coinvolti qualora l’operazione dovesse essere vietata).
Non solo: la tesi, qui proposta, dell’attenzione di EMFA per la salvaguardia del pluralismo inteso come varietà di fonti – e propriamente delle fonti giornalistiche – e dei punti di vista, trova riscontro, ancorché implicitamente, anche sul fronte dei diritti degli utenti. Nell’articolo 3, stabilendone il diritto a ricevere una pluralità di notizie e “current affairs content”, l’EMFA sembra infatti richiamare una concezione di pluralismo come diversificazione dei contenuti.
Possono essere lette in questa chiave anche altre disposizioni dell’EMFA. Ad esempio, l’articolo 19, che impone ai fornitori di devices di consentire agli utenti di modificare le impostazioni di default per i suggerimenti relativi ai contenuti da fruire, e così scegliere autonomamente i criteri per selezionare le “voci” cui dedicare maggiore tempo ed attenzione. Ancora, e più in generale, sono previsti molti presidi per la tutela delle fonti (incluso il divieto di uso di c.d. spyware) e per la salvaguardia dell’indipendenza editoriale.
Infine, la medesima attenzione al pluralismo, nell’accezione che qui stiamo esaminando, emerge anche nel rapporto con le piattaforme, con particolare riferimento al presidio sulla integrità dei contenuti dei fornitori dei servizi media. Due precisazioni preliminari: 1. la disposizione (articolo 17) si applica alle Very Large Online Platforms (VLOPS) e non riguarda gli utenti privati che caricano user-generated content, ma la sola utenza professionale; 2. in questo punto il Regolamento si interseca con il DSA, ancora non in vigore.
Più nel dettaglio, le piattaforme sono chiamate a mettere a disposizione una funzionalità per verificare lo status dell’utente come fornitore di servizi media – diverso, cioè, dall’utente inteso come privato cittadino che agisce per scopi privati – perché possa godere di una particolare tutela. Si tratta di una sorta di “test” che dovrà essere reso disponibile dalla piattaforma, e che l’utente deve soddisfare fornendo una serie di informazioni che consentiranno alla piattaforma di verificare il possesso dei determinati requisiti. Tra questi, l’indipendenza editoriale dell’utente/fornitore di servizi media da qualsiasi Stato Membro; la sua sottoposizione a norme regolamentari, co-regolamentari o auto-regolamentari in relazione a standard editoriali ampiamente riconosciuti ed accettati nel settore.
L’attività di verifica dei requisiti è funzionale ad un trattamento differenziato a favore degli utenti che sono anche media service providers. Infatti, oltre agli obblighi imposti dal DSA alle VLOPS – di motivare le decisioni assunte e riconoscere la possibilità, per l’utente, di proporre reclamo avverso una decisione di rimozione di contenuti o chiusura dell’account – EMFA impone anche di comunicare la decisione all’utente/media provider prima che la misura abbia effetto. Ancora, e più significativo in questo contesto, EMFA impone alle piattaforme di fornire una spiegazione aggiuntiva che confermi che la decisione non impatti sul pluralismo e non limiti l’esercizio della libertà di espressione.
Ma, ad esempio, che succede se la piattaforma, nella sua attività di verifica, ritiene che l’utente/servizio media non sia effettivamente indipendente da uno Stato come richiesto? Esiste, evidentemente un enorme margine di arbitrio. Ed è proprio qui che si può individuare una prima potenziale ambivalenza.
Giomi (Agcom): “Pluralismo antidoto alla disinformazione, il ruolo di piattaforme e utenti”
Le possibili criticità di EMFA come spie di “nodi” irrisolti
Il presidio sull’integrità dei contenuti da un lato appare importante iniziativa a tutela del pluralismo, che concorre a salvaguardare aumentando la responsabilità delle piattaforme e aumentando i vincoli nell’attività di moderazione dei contenuti, per ridurre le possibilità che essa vada a detrimento della libertà e varietà dell’informazione. D’altro canto, però, demandare alle piattaforme la verifica dei requisiti perché gli utenti possano essere classificati come fornitori servizi media significa demandare alle piattaforme una funzione para-pubblica, compiti propri di uno Stato e, mi verrebbe da dire, in una certa misura, in concorrenza con quelli di altri soggetti. Ad esempio, in Italia lo status di “editor” è verificato e assegnato da procedure con alto grado di complessità e standardizzazione (cui partecipa una pluralità di soggetti, come l’Ordine dei giornalisti, e concorre una pluralità di valutazioni eterogenee).
Si ripropone qui quell’ambivalenza che è propria, più in genere, dell’approccio regolatorio nei confronti delle piattaforme e del dibattito che lo circonda: da un lato il legislatore (europeo) mira a regolare le big tech, quindi, correttamente, a ricondurle alla propria competenza, e dall’altro chiede loro di svolgere compiti e prendere decisioni “in sua vece”. Naturalmente, il trattamento “para-pubblicistico” delle piattaforme discende dalla loro qualifica come essential facilities (perlomeno quelle ritenute “infrastrutturali” o, nella disciplina comunitaria, c.d. gatekeepers), mettendo loro in capo obblighi non troppo lontani da quelli previsti per i servizi di pubblica utilità. Ma l’applicazione di questo frame giuridico ai servizi delle piattaforme produce effetti molto pregnanti. Nessun altro servizio di media e comunicazione, infatti, ha la natura proteiforme e la penetrazione capillare delle piattaforme in tutte le dimensioni della vita individuale e associata. Stante la loro presenza ormai strutturale nei processi economici, giuridici, culturali e ovviamente democratici, nella formazione come nella salute, nella pubblica amministrazione come nei trasporti, è evidente che applicare questo frame significa non solo imporre oneri ma anche funzioni pubbliche da cui discendono scelte delicatissime. Ben lo mostra, ad esempio, l’articolo 37 del DSA – dedicato ai protocolli di crisi – paradigmatico dell’attribuzione alle piattaforme di prerogative e poteri addirittura in materia di sicurezza e salute pubblica.[2]
EMFA, le misure per i media di servizio pubblico e il tema del sostentamento economico
L’indipendenza dei media, condizione strettamente legata al pluralismo, passa anche dall’indipendenza economica e dalla capacità delle imprese di stare sul mercato, tema rispetto a cui la misurazione dell’audience assume un ruolo fondamentale. Tutti questi aspetti sono presi in carico dall’EMFA, con particolare riferimento ai media di servizio pubblico.
Quanto alle regole per assicurare l’indipendenza di questi ultimi, EMFA riconosce un particolare rischio per questi soggetti in virtù della loro vicinanza istituzionale allo Stato e della dipendenza dal finanziamento pubblico. Per questo motivo, la proposta introduce misure per garantirne l’autonomia della gestione e dei suoi organi direttivi. In particolare, gli Stati membri sarebbero tenuti a garantire un finanziamento stabile e adeguato ai media di servizio pubblico al fine di salvaguardarne l’indipendenza editoriale su base pluriennale.
È d’obbligo notare come la stabilità dei finanziamenti presenti, ovunque, la criticità legata all’impossibilità di tenere sotto controllo la crescita delle spese, però costituisce condizione necessaria – ancorché di per sé non sufficiente – per garantire l’indipendenza editoriale.
La trasparenza, la proporzionalità e non discriminatorietà sono poi principi cardine nei rapporti tra fornitori di servizi media e soggetti pubblici in tema di assegnazione della pubblicità di Stato. Le norme proposte infatti mirano a evitare un’indebita influenza dello Stato e a garantire pari opportunità tra i fornitori di servizi. A tal fine, le autorità pubbliche dovranno garantire procedure aperte, proporzionate e non discriminatorie e pubblicare ogni anno informazioni sulle loro spese pubblicitarie per i servizi di media, includendo (almeno) i nomi legali dei fornitori, l’importo totale speso e l’importo per fornitore.
Come detto, centrale al tema della sostenibilità economica dei fornitori di media è la misurazione dell’audience: rispetto alla quale la Commissione solleva un tema di uniformità di dati e metriche, ad oggi spesso diversificate. Sono infatti proposte nuove regole sulla trasparenza della misurazione dell’audience (anche online) introducendo obblighi per i fornitori di questi servizi. In particolare, gli organismi deputati ad effettuare le rilevazioni dovranno assicurare metodologie trasparenti, imparziali, inclusive, proporzionate, verificabili e non discriminatorie. Inoltre, dovranno condividere con i fornitori di servizi media e gli inserzionisti informazioni accurate, dettagliate, aggiornate, verificabili, complete e comprensibili sulla metodologia utilizzata per le rilevazioni. Le informazioni potrebbero includere ad esempio la dimensione del campione, le metriche, gli indicatori, i metodi e il periodo di misurazione e il margine di errore.
La persistenza di narrative “polarizzate”
Il tema del sostentamento del settore dell’informazione è forse quello che più fa registrare elementi di ambivalenza e narrative polarizzate, soprattutto in riferimento al ruolo delle piattaforme online. Nell’articolo precedente ho sostenuto la necessità di districare due temi che tendono invece a sovrapporsi: equo compenso e remunerazione per lo sfruttamento dei contenuti da un lato e necessità di sostenere il giornalismo di qualità dall’altro. Questa sovrapposizione trova fondamento in una implicita narrativa manichea, che oppone le “cattive” piattaforme, responsabili di inquinare con la loro disinformazione senza farne le spese grazie alla mancanza di responsabilità editoriale, al “buon” giornalismo degli editori, a cui esse sottraggono linfa vitale.
Naturalmente, i dati parlano, e testimoniano di una “torta” della pubblicità online che è divisa per due terzi in mano alle piattaforme, e un terzo in mano a editori tradizionali. L’equo compenso verrebbe dunque proposto come strumento di compensazione per la sottrazione di risorse ad opera delle piattaforme sia in forma diretta (sfruttando contenuti prodotti da terzi) sia indiretta (dirottando su di sé la pubblicità online).
È altrettanto oggettivo il tema dell’asimmetria tra piattaforme ed editori: ne dà evidenza un caso concreto di applicazione di una legge, in Australia, che impone alle grandi aziende tecnologiche di pagare per le notizie che pubblicano. Ad oggi sono stati chiusi circa 30 accordi[3] con i soggetti più grandi (quindi bene) però i piccoli non sono stati in grado di portare avanti negoziazioni effettive ed efficaci perché non hanno sufficienti informazioni (dati) circa lo sfruttamento dei loro contenuti: a riprova dell’esistenza di una asimmetria informativa inabilitante.
Qui vorrei però provare ad illuminare un’altra faccia di quel complesso prisma che è l’insieme dei rapporti, anche di forza, tra i diversi attori dell’ecosistema digitale. Torniamo al clima che precede l’adozione della menzionata legge australiana. Siamo nel febbraio 2021 quando, in seguito all’inaugurazione del processo legislativo, Facebook oscura (e poi riabilita) le pagine dei principali giornali. L’interpretazione più condivisa[4] legge il gesto come una prova di forza: la dimostrazione plastica che la piattaforma intendeva offrire, di come sarebbe stato il web senza i “suoi” servizi di informazione. Anche perché, il social media cambiò idea, consentendo nuovamente la condivisione dei contenuti giornalistici, appena due giorni più tardi, quando il governo australiano annunciò di voler fare un passo indietro e di essere disposto a valutare gli emendamenti suggeriti dalle big tech (la vicenda è ben analizzata in questo contributo di De Gregorio, Pollicino, Perotti[5]).
La narrativa della piattaforma invece fu un’altra: dichiarò di non aver più intenzione di utilizzare i contenuti giornalistici, valutando che i costi fossero maggiori dei benefici. All’epoca i contenuti giornalistici – asseritamente – generavano infatti una percentuale trascurabile delle interazioni e dei ricavi conseguibili. Il rappresentante delle relazioni esterne di Facebook paragonò la richiesta degli editori a quella di cantautori che chiedessero alle case automobilistiche i diritti delle loro opere trasmesse nelle autoradio di serie in virtù del beneficio prodotto al conducente dall’ascolto delle stesse e della conseguente perdita di valore delle auto che ne fossero deprivata. Ma le case automobilistiche, obiettava il rappresentante di Facebook autore dell’analogia, hanno tutto il diritto di farsi i “conti in tasca” e decidere che a loro conviene più eliminare quella musica che pagare diritti.
Messa in questi termini, quella di Facebook appare una posizione se non condivisibile, di sicuro, più intellegibile e meno “strumentale” di come l’ha restituita la narrazione collettiva, tutta incardinata sull’opposizione manichea “predatori vs. predati”. Naturalmente, non sta a noi stabilire se la rimozione dei link fosse una “provocazione” da parte di chi gode di posizione di vantaggio o piuttosto la conseguenza della legittima autodeterminazione di un soggetto di mercato rispetto alle proprie politiche aziendali e quindi rispetto ai servizi più utili da acquisire in base al proprio modello di business. Credo in ogni caso che convenga trascendere il dato specifico per cogliere gli spunti generali offerti dalla vicenda, ai fini di una riflessione su quali siano le misure più proporzionate, equilibrate, capaci di tenere insieme i legittimi interessi di tutti gli attori della filiera.
Conclusioni
In questo contributo ho esaminato la recente proposta di Regolamento EMFA (European Media Freedom Act) in rapporto alla tutela del pluralismo e in rapporto, più in genere, alla tenuta complessiva del discorso intorno all’ecosistema digitale e ai suoi principali attori. Ogni intervento normativo, infatti, riflette e al tempo stesso ratifica quelli che sono gli orientamenti culturali e le sensibilità più diffuse attorno ai fenomeni che affronta.
Così, scorgo una potenziale contraddizione o perlomeno un elemento di mancata linearità nel mettere in capo alle piattaforme l’obbligo, essenziale per la tutela del pluralismo, di rispettare l’integrità dei contenuti degli editori e nel contempo lasciare loro l’onere (e l’arbitrio) della attribuzione dello status stesso di editore. Credo che ciò rifletta una più generale contraddizione tra determinazione a regolare le big tech e – semplificando grossolanamente – potenziale “alienazione” di funzioni proprie dello Stato a favore delle big tech stesse.
L’attenzione riservata da EMFA al tema del finanziamento dei media di servizio pubblico è stata l’occasione per riflettere sul più generale tema del sostentamento economico del sistema dell’informazione e mettere in evidenza i rischi connessi ad una narrativa polarizzata, al limite dello “scontro ideologico”, sul rapporto tra editori e piattaforme, potenzialmente ostacolo all’introduzione di misure più proporzionate.
Infatti, dietro a contraddizioni e rappresentazioni a volte bidimensionali si cela l’inevitabile difficoltà della codifica normativa e più in genere di tutte le forme di “razionalizzazione” – inclusi dunque categorie analitiche e modelli teorici – dinanzi ai movimenti tellurici che interessano l’ecosistema dell’informazione e dinanzi soprattutto al rapido evolvere delle piattaforme. La loro estensione e compenetrazione con processi e strutture sociali già adesso è tale da sollecitare il termine di “piattaformizzazione della società” (Van Dijk et al. 2019), ad indicare proprio la perdita di diaframma tra piattaforme da un lato e società dall’altro: non sono più neppure considerate entità separate.
In questo senso, è importante specificare che la pubblicazione della proposta di Regolamento EMFA è solo il momento iniziale di un processo legislativo. L’esperienza recente ci ha mostrato che un tale processo può essere relativamente breve (il compromesso sul testo del DSA è stato raggiunto in meno di due anni), ma bisogna intervenire con cura quando si regola il pluralismo, soprattutto in considerazione del fatto che si parte da differenze giuridiche profonde tra i diversi Stati Membri. Certo, non si può andare neppure troppo per le lunghe, perché l’ecosistema dell’informazione evolve continuamente e a velocità senza precedenti.
Note
- Le opinioni espresse sono rese a titolo personale e non impegnano l’amministrazione. ↑
- L’articolo 37 della proposta di DSA prevede che il comitato europeo per i servizi digitali può raccomandare alla Commissione di avviare l’elaborazione di protocolli di crisi volontari per affrontare situazioni di crisi strettamente limitate a circostanze straordinarie che incidono sulla sicurezza pubblica o sulla salute pubblica.Tali protocolli di crisi, comprendono una o più delle misure seguenti:“a) la visualizzazione di informazioni ben evidenziate sulla situazione di crisi fornite dalle autorità degli Stati membri o a livello di Unione o da altri organismi competenti affidabili a seconda del contesto della crisi;b) la garanzia che il fornitore di servizi intermediari nomini uno specifico punto di contatto responsabile della gestione delle crisi;c) ove opportuno, l’adeguamento delle risorse destinate a garantire il rispetto dei diritti nelle esigenze create dalla situazione di crisi”. ↑
- Australia’s media thrives after forcing Big Tech to pay for content | Financial Times ↑
- Copyright, l’Australia approva la legge per il rimborso dei contenuti editoriali online – Rai News ↑
- Flexing the Muscles of Information Power – Verfassungsblog ↑