In seguito all’assalto di Capitol Hill, nel gennaio 2021, Twitter non si è limitato a rimuovere i post dell’ex Presidente USA Donald Trump che sembravano minacciare l’ordine pubblico, ma ne ha anche bloccato l’account.
Lo ha fatto in forza della violazione dei suoi termini di utilizzo, accettati anche dal Presidente USA all’atto dell’iscrizione al social network, ma ciò non ha impedito l’esplosione, anche nel nostro Paese, di un ampio dibattito sulla libertà di espressione e sui pericoli di una “giustizia privata” esercitata dalle piattaforme.
I casi critici del pluralismo informativo
Pluralismo, se le norme inadatte al digitale danneggiano la democrazia
Un anno dopo questi fatti, il 1° dicembre 2021, si diffonde la notizia che Mediaset abbia chiuso due trasmissioni di approfondimento giornalistico in onda su Rete4, “Fuori dal coro” e “Dritto e rovescio”, per via delle posizioni sovraniste, “no-vax” e “anti-Green Pass” espresse dai loro conduttori.
Questa vicenda, però, viene riportata assai poco e commentata in relazione ad un solo tema: la corsa al Colle di Silvio Berlusconi (a cui i talk show sarebbero stati di intralcio). A differenza di quanto accaduto per Twitter/Trump, non si mette in dubbio la legittimità della scelta dell’editore, né si sollevano pensosi interrogativi su presidi e limiti della libertà di espressione. Certo, in parte dipende dal fatto che nel primo caso sono coinvolti i principali attori globali, sulla scena politica come nel mercato digitale, mentre nel secondo sembra di assistere all’ennesima riproposizione di un copione domestico arcinoto e dal sapore tutto analogico. Più in generale, sembra proprio che quanto avviene nell’ecosistema digitale – complice un diffuso sentiment anti-piattaforme – desti immediati allarmi, mentre le vicende che interessano il sistema dei media tradizionali faticano a penetrare un’opinione pubblica oggi più assuefatta di ieri al loro uso politico.
Ma nella diversa reazione alle due vicende, credo, vi è anche una forma di presbiopia che impedisce di vedere ciò che è troppo prossimo ai nostri occhi, e di riconoscerne la continuità con quanto avviene oltre la linea dell’orizzonte. Perché, a ben guardare, da una sponda dell’Atlantico all’altra siamo in presenza della medesima fattispecie, anche se si dà in forme e proporzioni molto diverse, e medesimo è il valore, il “bene” in gioco nelle due vicende: il pluralismo dell’informazione.
La chiusura dell’account di Trump e delle due trasmissioni va a beneficio o detrimento di questo valore? A chi spetta stabilire quali opinioni debbano avere visibilità sui mezzi di informazione e comunicazione? Per contribuire a questa riflessione è necessario, in primo luogo, accordarsi sulla definizione di pluralismo informativo, per poi analizzarne la ricezione da parte della normativa di settore, italiana ed europea, soprattutto alla luce delle sfide poste dall’ecosistema digitale.
Pluralismo informativo: una definizione
Il pluralismo informativo è da intendersi, ritengo, come la necessaria presenza di voci diverse nei prodotti e nei servizi di informazione, presenza funzionale alla costruzione di un’opinione pubblica consapevole e matura. Non si tratta, però, di voci e posizioni dei singoli, “idiosincratiche”, diremmo, ma rappresentative di gruppi, categorie, sezioni – più o meno ampie e a diverso titolo definite – della società (come, appunto, nell’esempio dei talk show sovranisti o delle posizioni politiche espresse da Trump). Una conferma proviene dalla sentenza con cui la Corte costituzionale nel 1993 ha definito il “diritto all’informazione” garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Questo deve essere caratterizzato, tra le altre cose, “dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie (…) in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti”. Proprio il riferimento a “orientamenti culturali” illumina la dimensione necessariamente “allargata”, superindividuale, delle opinioni che possono e devono trovare rappresentazione nei mezzi di informazione e comunicazione.
La tutela del pluralismo in Italia sotto la lente della Corte di Giustizia Ue
Fino allo scorso dicembre, la tutela del pluralismo in Italia era demandata al TUSMAR (Testo Unico dei Servizi dei Media Audiovisivi e Radiofonici), adottato nel 2005 e frutto della cosiddetta “Legge Gasparri”, che a questo scopo introduceva speciali controlli da parte di AGCOM sulle intese e le operazioni di concentrazione tra imprese nonché sulle soglie di ricavi conseguibili dallo stesso operatore nei mercati inclusi nel c.d. “Sistema Integrato delle Comunicazioni” (SIC). Nel 2020, la Corte di giustizia dell’Unione Europea (nella causa C‑719/18, Vivendi SA) ha però espressamente dichiarato la contrarietà al diritto dell’Unione Europea dell’automatismo del sistema previsto dall’articolo 43 del TUSMAR. Questo articolo impediva agli operatori di telecomunicazioni di conseguire una quota di ricavi superiore al 40% del totale dei ricavi di quel settore e contemporaneamente una quota superiore al 10% del totale dei ricavi di tutti i mercati inclusi nel SIC. In altre parole, la Corte di giustizia ha censurato il principio per cui il solo superamento di determinate soglie configurasse automaticamente una lesione del pluralismo (“attivando” l’intervento dell’autorità di settore, AGCOM) e, viceversa, in modo altrettanto “meccanico”, la detenzione di quote ed intrecci proprietari al di sotto di queste soglie scongiurasse ogni possibile rischio per questo importante presidio della libertà di informazione.
Nel dicembre 2021 è stato approvato il TUSMA (Testo Unico dei Servizi dei Media Audiovisivi), che affida la tutela del pluralismo all’articolo 51, “Posizioni di significativo potere di mercato lesive del pluralismo nel sistema integrato delle comunicazioni”. Permane in questa disposizione il determinismo economico del vecchio TUSMAR, fondato sui principi del diritto antitrust; permangono soglie di ricavi conseguibili e limiti alle concentrazioni e intese fra imprese.
Neppure le modifiche alla lista dei mercati rientranti nel SIC appaiono sufficienti a superare le criticità rilevate dalla Corte di giustizia nella motivazione della sua sentenza: nell’articolo 51, si considerano congiuntamente i ricavi che derivano da finanziamento di servizio pubblico radiotelevisivo, da pubblicità nazionale e locale anche in forma diretta, da televendite, da sponsorizzazioni, da convenzioni con soggetti pubblici a carattere continuativo e da provvidenze pubbliche, da offerte di servizi di media audiovisivi e radiofonici a pagamento, dagli abbonamenti e dalla vendita di quotidiani e periodici (inclusi i prodotti librari e fonografici commercializzati in allegato), nonché dalle agenzie di stampa a carattere nazionale, dall’editoria elettronica anche per il tramite di internet, da pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione, e dalla utilizzazione delle opere audiovisive e cinematografiche nelle diverse forme di fruizione del pubblico. Si impone, in altri termini, di tenere insieme mercati che non solo sono tra loro eterogenei ma che sembrano avere poco a che fare con l’informazione, avendo cura di includere anche i mercati in cui operano le piattaforme online con il chiaro intento di limitarne la crescita dei ricavi oltre le soglie stabilite dall’articolo 51.
Il nodo dei ricavi nel determinare lo stato di salute del pluralismo informativo
Il punto è proprio questo: i ricavi, di per sé, sono un cattivo indicatore dello stato di salute del pluralismo informativo. Ogni valutazione sui rischi e sui fattori di potenziale distorsione o lesione del pluralismo dovrebbe essere condotta in riferimento alla complessiva offerta di prodotti e servizi di informazione. Infatti, non necessariamente le media company che conseguono maggiori ricavi sono anche quelle che offrono la maggior quantità di contenuti informativi e/o raggiungono l’utenza più ampia (si pensi a Sky, che presenta ricavi notevolmente più elevati di RAI e Mediaset, ma ascolti notevolmente più bassi, e in ogni caso trasmette decisamente meno contenuti informativi rispetto alle TV in chiaro). Viceversa, tra le imprese che offrono contenuti informativi, ve ne sono alcune che conseguono quote significative di ricavi e tuttavia riescono a garantire diversificazione e pluralismo delle voci e delle fonti (è il caso di RAI). Quote di mercato e grado di concentrazione sono sicuramente dati importantissimi, ma assunti ad unici indicatori – benché in interazione con gli altri parametri ugualmente economici considerati dall’articolo 51 – possono risultare addirittura fuorvianti ai fini della valutazione dello stato del pluralismo informativo: schiacciano l’attenzione su dimensioni e posizioni di dominanza di alcuni players, oscurando la fotografia complessiva, che invece dovrebbe inquadrare il grado di concentrazione dei contenuti/servizi informativi della medesima fonte e orientamento culturale.
Lo stato dell’arte della normativa a livello europeo e nazionale
L’analisi del pluralismo condotta unicamente attraverso parametri economici e concorrenziali suscita ulteriori perplessità quando il banco di prova diviene quello delle big tech. Ben lo sa la Commissione Europea, che nell’EDAP (European Democracy Action Plan), annuncia l’intenzione di analizzare: “le attuali norme nazionali in materia di diversità e concentrazione dei media per capire se e in che modo garantiscano una pluralità di voci nei mercati dei media digitali, in particolare alla luce del ruolo sempre più importante delle piattaforme online” (par. 3.4. Ulteriori misure a sostegno del pluralismo dei media). Ancor più esplicito nel veicolare lo scetticismo verso un approccio che riduce il pluralismo ad un problema di concorrenza è il nuovo Codice Europeo delle Comunicazioni Elettroniche che dichiara: “le regole di concorrenza da sole possono non essere sempre sufficienti per garantire la diversità culturale e il pluralismo dei media nel settore della televisione digitale” (Considerando 159).
Ma quale è lo stato dell’arte della normativa a livello europeo e nazionale? Quali interventi hanno preso in carico mercati digitali e piattaforme in rapporto alla tutela del pluralismo? Partiamo con il dire che ad oggi manca una regolazione organica del digitale in chiave informativa. I due riferimenti normativi più rilevanti in materia sono (oltre alla norma quadro costituita dalla Direttiva sul commercio elettronico del 2000):
- la Direttiva SMAV (2018), con cui le piattaforme online fanno il loro ingresso nel diritto dei media, benché limitatamente a quelle che offrono servizi di videosharing;
- la Direttiva Copyright (2019) con l’articolo 15 “Protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo online”. Una misura molto importante, quest’ultima, che tuttavia ha un impatto solo indiretto e parziale sul pluralismo.
In tale prospettiva, la cosiddetta informazione di qualità, di origine professionale – quale quella giornalistica – rappresenta solo una delle fonti informative ancorché la più autorevole. Così, se è vero che per promuovere il pluralismo si devono tutelare anche i giornalisti, non è vero che tutelando i giornalisti si garantisce un pluralismo inclusivo e completo, ossia basato su orientamenti culturali diversificati.
Pluralismo e pubblicità online
Quanto alla direttiva SMAV, in Italia è stata recepita tramite il TUSMA, e tuttavia nell’articolo dedicato alla tutela del pluralismo, il 51, le videosharing platforms sono considerate solo in relazione alla definizione del mercato della pubblicità online (che include, appunto, anche quella sulle diverse piattaforme, le risorse raccolte da motori di ricerca, social media, ecc.). La pubblicità online, come quella offline, non è un tema di pluralismo (non ci si informa tramite la pubblicità!) ma viene inserita perché concorre a determinare il valore del SIC, espresso in termini di ricavi degli operatori, che, come detto, è la base per determinare le loro quote di mercato e l’eventuale superamento delle soglie di concentrazione, superamento che determina – adesso solo potenzialmente, non automaticamente – lesione del pluralismo.
Ora, la pubblicità fa certamente parte della catena del valore dell’informazione o comunque è elemento centrale del business dell’informazione, tant’è che il Media Pluralism Monitor 2021 (MPM), il più avanzato strumento per misurare i rischi per il pluralismo dell’informazione e l’indipendenza dei media a livello europeo, individua come il principale pericolo dell’ambiente digitale il fatto che le piattaforme drenino le risorse della pubblicità (ben il 66% è distribuito tra le tre principali big tech, Google, Amazon e Facebook; il restante terzo tra gli editori).
Qui si impongono due considerazioni: la prima è che il grado di concentrazione del mercato pubblicitario online è comunque inferiore a quello della tv in chiaro, che da sempre vede un sostanziale duopolio, i cui protagonisti sono peraltro anche i più attivi produttori e fornitori di programmi informativi. E in ogni caso, i ricavi della pubblicità online delle piattaforme, per quanto crescenti nel tempo, sono ancora di ordine comparabile a quelli dei media tradizionali (stando ai dati 2020).
La seconda considerazione è che, come per i media tradizionali, anche per le piattaforme si evidenziano le distorsioni prodotte da un approccio – non è il caso del MPM ma, appunto, della nostra normativa – che affidi ai ricavi delle imprese di settore e ad altri parametri economici e di mercato l’indice della salute del pluralismo. Un esempio: Google risulta impresa dominante sul mercato della pubblicità online, e tuttavia, valutandone il ruolo dal punto di vista della diversificazione delle fonti e delle opinioni cui è in grado di dare voce e rappresentazione difficilmente si possono negare i benefici generati dagli aggregatori di notizie, che offrono una vetrina ad un ampio spettro di editori, inclusi quelli più piccoli e meno noti; né si può ignorare che Google sia anche titolare del motore di ricerca più utilizzato per la individuazione di contenuti informativi, di una nota piattaforma di videosharing, ed altri numerosi servizi della società dell’informazione offerti a privati come ad imprese. Più in generale, le piattaforme digitali sono mezzi che permettono un confronto immediato tra una pluralità di contenuti informativi prodotti da terzi, costituendo veicolo aperto e di importanza cruciale soprattutto per i media tradizionali, che riescono così ad assicurarsi una “quota” rilevante nell’attenzione degli utenti. Prova ne siano i notevoli ricavi conseguiti dai media tradizionali nel mercato della pubblicità online (circa un terzo del totale, come riportato poco sopra).
Come ripensare il pluralismo informativo oltre il determinismo economico
In sintesi, se intendiamo, come abbiamo fatto, il pluralismo informativo alla stregua di pluralità di voci e fonti, necessaria a garantire diversità culturale e di orientamenti, dobbiamo riconoscere che esso non può essere garantito dalla sola concorrenza, né dalla limitazione del grado di concentrazione del mercato: il pluralismo è un fallimento degli equilibri di mercato tra privati, vale a dire un obiettivo di politica sociale non necessariamente perseguibile dalle imprese operanti nel settore dei mezzi di comunicazione. In questo senso, come abbiamo mostrato, anche una situazione concorrenziale potrebbe ledere il pluralismo se i mezzi di comunicazione dovessero prediligere pochi portatori di opinione perché più capaci di attirare pubblico e quindi profitti. All’opposto, per estremo, una situazione monopolistica potrebbe assicurare condizioni di pluralismo se i contenuti informativi accogliessero una pluralità di punti di vista, di estrazione e orientamento culturale diverso. Per queste ragioni, è necessario un intervento pubblico che preveda l’introduzione di misure normative idonee allo scopo.
Quale potrebbe dunque essere un modo diverso di considerare la tutela del pluralismo informativo?
Due sono le operazioni necessarie per ripensarla in una chiave che trascenda il determinismo economico della normativa vigente e sappia più efficacemente aderire alla vera natura del bene in gioco:
- riportare al centro del sistema tale bene, procedendo dunque a definire con maggior chiarezza non solo il termine “pluralismo”, come abbiamo fatto, ma anche il termine “informativo”, così da poter individuare la tipologia dei contenuti e servizi mediali che rilevano ai fini della normativa;
- circoscrivere l’ambito oggettivo della stessa, ovvero il suo raggio di azione.
Per quanto riguarda il primo punto, le teorie dei media e della comunicazione, ascrivono al macrogenere dell’informazione e della produzione documentaristica tutti quei prodotti e generi mediali deputati a rappresentare la realtà fattuale, e con i quali il pubblico stabilisce un “contratto di veridizione”, attendendosi, cioè, che tali prodotti raccontino il vero. Il “vero” è da intendersi non come contrapposto a “falso”, giacché la verità – anche giornalistica – è concetto opinabile, bensì contrapposto a “finto”, nel senso di artefatto, o frutto di invenzione immaginativa, come la fiction. Naturalmente, anche la fiction, così come quell’ampia galassia di prodotti a metà tra “vero” e “finto” – tipo il factual entertainment – concorrono fortemente alla costruzione sociale della realtà da parte delle audience, alla formazione dell’opinione pubblica e degli immaginari collettivi. Tuttavia, ai fini della delimitazione del nostro oggetto di analisi, rilevano i soli contenuti propriamente informativi, cioè caratterizzati da fonti giornalistiche e dalla correlazione con i temi dell’attualità e della sfera pubblica, come politica, economia, finanza, cultura, società, costume, attualità, cronaca, ecc. Esempi di “prodotto di informazione” sono, naturalmente, quotidiani, telegiornali e giornali radio, ma anche programmi di approfondimento giornalistico, dibattiti, talk show, infotainment, ecc.
Un “new digital deal” per regolare le big tech: le azioni Agcom nel contesto Ue
Conclusioni
Avendo chiarito cosa si intende per “informazione”, è adesso necessario circoscrivere con attenzione l’ambito oggettivo della disciplina: nei mercati non operano soggetti fornitori di soli contenuti informativi; quindi, è necessario individuare quali servizi informativi sono presenti nella gamma dei servizi offerti dalle media company (online e offline) o da imprese diverse, quali per esempio le piattaforme online.
L’individuazione dei format e della rilevanza dei contenuti informativi, rispetto alla loro diffusione, dovrebbe essere oggetto di attento approfondimento proprio per evitare che siano impiegati strumenti di tutela del pluralismo che in realtà possono mettere fuori fuoco l’obiettivo finale di garantire una diversità culturale delle fonti informative completa ed effettiva. Rispetto a questa particolare tipologia di servizi, le piattaforme e le media company (online e offline) dovrebbero essere viste come degli intermediari che mettono in contatto i produttori di contenuti informativi (portatori di opinioni culturali diverse) con i fruitori o i destinatari finali di tali contenuti (la cittadinanza).
La media company dovrebbe essere chiamata a fornire in modo trasparente e non discriminatorio il più ampio accesso ai produttori di contenuti e servizi informativi con il fine di assicurare la rappresentazione dell’intero spettro delle diversità culturali di una società. Invece, attualmente, non sono note le condizioni di accesso alle media company da parte dei portatori di opinioni, né le misure a garanzia della completezza e della diversità delle fonti informative. Questi sono aspetti importanti per assicurare che la eterogeneità delle fonti sia la più vasta e per garantire che i cittadini possano formare le proprie opinioni su informazioni complete e così esprimere decisioni consapevoli.
—
*Le opinioni espresse hanno carattere personale e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione.