Sono bastate poche settimane a Mario Draghi per far intendere come il nuovo Presidente del Consiglio sia molto più a suo agio nell’arena internazionale dei suoi predecessori, e per proiettare, sia al pubblico italiano che all’estero, un’immagine del nostro Paese più “assertiva”.
Un esempio di questa nuova assertività è il recente veto posto dal governo italiano all’acquisizione della LPE S.p.A., una società produttrice di componenti per semiconduttori con sede a Baranzate. La decisione del Governo Draghi è interessante sia per il contesto geopolitico in cui si inserisce che per il recentissimo strumento legislativo di cui si è fatto uso.
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La battaglia per i semiconduttori
Negli ultimi mesi è emersa, a livello globale, una drammatica scarsità di semiconduttori. Infatti, i semiconduttori costituiscono l’anima di tutti i prodotti elettronici, dai più elementari quali gli elettrodomestici, a quelli più sofisticati, utilizzati per apparati con tecnologia 5G, Data Centers etc.
L’irreperibilità di chip sul mercato ha negli ultimi mesi avuto un impatto dirompente sull’industria automobilistica, con i principali produttori costretti a rallentare i tempi di consegna dei veicoli e, addirittura, chiudere alcuni impianti industriali, principalmente negli Usa.
Sebbene alcuni analisti abbiano ricondotto la scarsa disponibilità di chip ad alcuni eventi contingenti, quali l’incendio di un grande centro di produzione in Giappone, la siccità che da mesi affligge Taiwan – un altro importante paese produttore – e l’ondata di gelo che ha recentemente colpito il Texas e altri stati del sud portando alla chiusura di vari siti produttivi, le ragioni effettive della scarsità sembrano doversi ricondurre alla pandemia del Covid-19 e alle politiche del governo Trump.
Infatti, negli ultimi anni i produttori di semiconduttori avevano generalmente puntato sulla produzione di chip di ultime generazioni, prodotti molto complessi che, come già menzionato, costituiscono il sistema nervoso di soluzioni e piattaforme tecnologiche avanzate. Tuttavia, durante il lockdown, i consumatori di tutto il mondo hanno fatto incetta di prodotti elettronici consumer, causando un picco di domanda proprio di quei chip meno evoluti su cui i chipmaker avevano smesso di scommettere, diminuendone la produzione.
Come se ciò non bastasse, a seguito delle limitazioni imposte dall’amministrazione Trump all’esportazione in Cina di prodotti e tecnologia americani connesse ai semiconduttori, molte aziende della Terra di Mezzo si sono affrettate ad accaparrarsi tutti i chip disponibili, aggravando una situazione già critica.
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Il contesto geopolitico mondiale
Questi due elementi scatenanti, tuttavia, si collocano in un contesto internazionale già compromesso, in cui gli USA e gli alleati atlantici sono sempre più restii a condividere la propria tecnologia con la Cina, sia perché la superpotenza asiatica è accusata di sottrarre proprietà intellettuale delle aziende occidentali, sia a cagione dell’opacità degli assetti proprietari delle società cinesi, che spesse volte nascondono dei legami strutturali od operativi con l’apparato militare del paese asiatico.
D’altro canto, dopo una prima ondata acquisitiva dei primi anni dello scorso decennio in cui aziende cinesi sembravano essere interessate ai settori più disparati (dal calcio, al settore automobilistico, agli asset turistici), il focus si è spostato su asset tecnologici, spingendo l’occidente a realizzare delle robuste misure di controllo degli investimenti.
Simultaneamente, poi, gli USA hanno esercitato pressioni crescenti sugli alleati atlantici affinché vigilassero sulle proprie infrastrutture nazionali di telecomunicazione per evitare che l’utilizzo di componentistica straniera consentisse o favorisse la sorveglianza digitale, o comunque la fuga di informazioni sensibili mediante backdoor a tutto vantaggio di apparati militari o governativi cinesi.
Il contesto regolatorio europeo
Anche l’Europa decideva di dotarsi di proprie regole per il controllo degli investimenti stranieri nell’unione, adottando il Regolamento 2019/452/UE. Il Regolamento, tuttavia non ha inciso – né avrebbe potuto farlo sotto un profilo costituzionale europeo – sulla ripartizione dei poteri tra Commissione e Stati membri in materia di controllo degli investimenti esteri, limitandosi a creare un sistema di coordinamento dei sistemi di controllo nazionali. Una volta notificato alla Commissione un progetto di investimento, l’esecutivo comunitario può emettere un parere non vincolante relativo al rischio posto dal progetto alla politica commerciale europea, a progetti comuni europei o alla pubblica sicurezza. Tale parere non vincolante, tuttavia, dovrà essere preso nella dovuta considerazione da parte del paese cui è diretto, che in determinate circostanze dovrà motivare le ragioni che lo abbiano spinto a non attenervisi.
Il Golden Power
In questo contesto geopolitico globale, l’Italia procedeva a svecchiare la propria disciplina dei controlli sugli investimenti esteri riformandone le regole mediante il decreto-legge 8 aprile 2020 n. 23, convertito con modifiche con legge 5 giugno 2020, n. 40.
Con riferimento alle circostanze in cui la nuova disciplina è stata introdotta, vale la pena notare come l’inserimento delle nuove regole del Golden Power nel Decreto Liquidità 2020, che assicurava un primo ristoro finanziario alle categorie economiche più colpite dalla pandemia, tradisce la volontà di riaffermare una certa “sovranità economica” in un momento in cui sembrava che il coronavirus avesse messo in ginocchio la supply chain globale.
Golden Power, il covid aumenta i rischio esterno per l’Italia
Proprio in applicazione della nuova disciplina del Golden Power il Governo Draghi ha posto il veto sull’operazione LPE. Tuttavia, se la situazione LPE ha richiesto uno stop deciso – in linea con le ultime schermaglie della battaglia dei semiconduttori di cui si è già parlato – la decisione di dettare alcune regole vincolanti a Fastweb e Linkem in relazione alla loro acquisizione di componenti 5G dimostra come il Governo abbia saputo modulare gli strumenti del Golden Power adattandoli alle circostanze concrete in gioco.
Parimenti, nessuno stop è stato imposto all’entrata del colosso cinese Tencent (assieme alla statunitense Square) nel capitale di Satispay, una società FinTech specializzata in sistemi di pagamento. Anche in questa circostanza, infatti, sembrerebbe che sia stato unicamente imposto un regime più rigido di trattamento dei dati.
Insomma, sovranità economica sì, ma sapientemente adattata alle circostanze specifiche.