la nuova causa antitrust

Google, il monopolio nella pubblicità online che gli Usa ora vogliono demolire

Con l’acquisizione di Doubleclick, nel 2007, Google ha messo il primo tassello di un monopolio che altera illegalmente il mercato della pubblicità online. Il Dipartimento di Giustizia e 7 Stati vanno alla carica della Big Tech, e anche un esito negativo della causa potrebbe avere effetti benefici sulla concorrenza

Pubblicato il 03 Feb 2023

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

googlesede

Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e 7 Stati (tra cui la California, New York, Colorado e Virginia) hanno intentato una nuova causa antitrust nei confronti di Google LLC, sostenendo che la società, che rappresenta il principale colosso nel settore dei motori di ricerca e della pubblicità online, abbia costituito una posizione di monopolio alterando, illegalmente, il mercato degli annunci online attraverso l’adozione, lungo un processo durato anni, di pratiche di auto-negoziazione, acquisizioni anticoncorrenziali e “limitazione” della possibilità di scelta dei propri utenti, così da favorire i propri prodotti rispetto a quelli resi dalla concorrenza.

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Sebbene ambiziosa, questa ultima azione intentata nei confronti di Google si adatta perfettamente all’attuale legge antitrust, ha affermato Bill Kovacic, ex presidente della Federal Trade Commission e professore presso la George Washington University Law School. “Questi non sono concetti strani”, ha detto. “Il caso ha una storia coerente, e sta azzerando le opportunità mancate del passato”. Kovacic, infatti, si trovava alla guida della Federal Trade Commission quando DoubleClick, società che si occupava di pubblicità, fu acquisita da Google nel 2007: da detta acquisizione, al tempo approvata senza condizioni, ha avuto origine l’odierno “impero digitale” pubblicitario di Google, dando alla società la possibilità di aiutare i siti web a vendere spazi pubblicitari, nonché uno scambio di siti web e inserzionisti. Ma col senno di poi, Kovacic ha detto che avrebbe cercato di bloccarla: ha affermato, in particolare, che se la FTC avesse cercato di bloccare l’accordo alla fine degli anni di Bush o all’inizio di Obama, anche se alla fine avesse perso, “non avremmo avuto la stessa conversazione che stiamo avendo ora sul fatto che i regolatori antitrust abbiano sbagliato così male nel trattare con la tecnologia”. “Anche un caso fallito avrebbe inviato un messaggio alla Silicon Valley che i regolatori stavano osservando e avrebbe anche dato al pubblico una migliore comprensione della concorrenza in mercati tecnologici complessi”, ha riportato Politico. Al fine di evitare che la storia possa ripetersi, dando adito all’emersione di figure di monopolio, le autorità e i governi stanno dunque cercando di porre dei freni al potere delle Big Tech.

La notizia, riportata da Politico, lascia spazio ad una serie di riflessioni, inerenti al profondo mutamento che il mondo della tecnologia ha subito nel corso degli ultimi anni. Le Big Tech, in particolare, si trovano ora nell’occhio del ciclone, sia per quanto riguarda il mercato degli annunci online (che costituisce il core business principale della maggioranza dei colossi del web) sia per quanto riguarda le acquisizioni dei competitor.

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In relazione a quest’ultimo aspetto, è noto come, nell’arco di pochi anni, l’attenzione posta dalle autorità antitrust rispetto alle conseguenze che deriverebbero per il mercato da una possibile acquisizione sia fortemente aumentata: di recente, la Federal Trade Commission (autorità antitrust statunitense) ha dato avvio al caso giudiziario inerente all’acquisizione, da parte di Microsoft, della società produttrice di videogame Activision Blizzard. Decisione che è stata definita da alcuni “ambiziosa”, ma che comunque risulta funzionale alla definizione di una strategia ben precisa, che vede le autorità porre dei limiti al potere delle grandi aziende tecnologiche, nel tentativo di regolare un mercato che tutt’ora è in forte via di sviluppo, e i cui esatti confini talvolta non si riescono ancora a comprendere.

Daniel Francis, ex vice direttore del Bureau of Competition della FTC, ora professore di legge alla NYU, ha paragonato il nuovo caso Google proprio al caso Microsoft/Activision, sebbene riconosca che il primo pone in maggior risalto la questione inerente ai limiti di applicabilità della legge antitrust, mentre il secondo si pone su piani più “tradizionali” di preservazione della concorrenza. Francis ha affermato a Politico, in particolare, che il nuovo caso di Google sarà probabilmente istruttivo indipendentemente dal suo esito e che “Questo nuovo caso ci insegnerà il significato della monopolizzazione nei mercati digitali“.

Le contestazioni mosse a Google

La controversia antitrust avviata in gennaio dal Dipartimento di Giustizia, sebbene a firma della divisione antitrust dell’amministrazione Biden, guidata dall’assistente procuratore generale Jonathan Kanter, rappresenta la naturale prosecuzione del lavoro avviato dall’ex procuratore generale Bill Barr.

Senza contare che, nel dicembre 2020, era stato presentato un caso del tutto simile a quello di cui si discute da parte del procuratore generale repubblicano del Texas Ken Paxton.

Lo scopo dichiarato è quello di infrangere l’attuale monopolio della tecnologia pubblicitaria di Google, forzando la cessione, da parte di quest’ultima, di alcune componenti chiave della sua strategia. Google, infatti, oggi possiede gran parte degli strumenti più utilizzati da inserzionisti ed editori per vendere gli spazi editoriali e inserire annunci online. Tra questi strumenti, rientra anche AdX, una delle piattaforme di scambio per gli spazi pubblicitari più utilizzate, che abbina inserzionisti ed editori in aste automatiche, della durata di alcuni millisecondi, il tempo necessario per caricare una pagina web.

Come anticipato in premessa, il Dipartimento di Giustizia e i singoli stati accusano Google di monopolizzare illegalmente il mercato statunitense degli annunci digitali, dal valore stimato di circa 250 miliardi di dollari.

“Google abusa del suo potere monopolistico per svantaggiare gli editori di siti web e gli inserzionisti che osano utilizzare prodotti ad tech concorrenti nella ricerca di corrispondenze di qualità superiore o a costi inferiori”, hanno affermato il DOJ e gli Stati nella denuncia. “Google usa il suo dominio sulla tecnologia pubblicitaria digitale per incanalare più transazioni verso i propri prodotti ad tech in cui estrae commissioni gonfiate per riempire le proprie tasche a spese degli inserzionisti e degli editori che presumibilmente serve”.

Più nel dettaglio, nella causa si sostiene che il dominio di Google in tutti gli aspetti della pubblicità online, raggiunto in parte attraverso una serie di acquisizioni risalenti a quasi 15 anni fa, abbia dato alla società troppo controllo sugli strumenti utilizzati per acquistare, vendere e visualizzare annunci. Strumenti che sono la principale fonte di entrate per gran parte del web. La società, in particolare, stando a quanto il DOJ avrebbe scoperto sulla base dell’analisi di documenti interni di Google, citati nella causa, raccoglierebbe 30 centesimi per ogni dollaro speso dagli inserzionisti attraverso i suoi strumenti che inseriscono annunci sul Web.

Non solo: nella denuncia, il dipartimento sostiene che Google si è impegnata in 15 anni di condotta che ha avuto e continua ad avere l’effetto di cacciare i rivali diminuendo la concorrenza, gonfiando i costi pubblicitari, riducendo i ricavi degli editori di siti web, ostacolando l’innovazione e appiattendo il mercato pubblico di idee. “Il danno è chiaro”, afferma la nuova denuncia. “I creatori di siti guadagnano meno e gli inserzionisti pagano di più di quanto farebbero in un mercato in cui la pressione competitiva illimitata potrebbe disciplinare i prezzi e portare a strumenti di tecnologia pubblicitaria più innovativi che alla fine si tradurrebbero in transazioni di qualità superiore e costi inferiori per i partecipanti al mercato”.

“I consumatori di New York e le piccole imprese stanno pagando il prezzo delle azioni di Google”, ha dichiarato il procuratore generale Tish James. “Quando gli editori di siti web ottengono meno entrate pubblicitarie a causa dei monopoli di Google, devono abbassare la qualità del loro sito web o trasferire i costi ai consumatori“.

È la prima grande causa antitrust contro una società tecnologica nell’amministrazione Biden, ma non rappresenta la prima causa antitrust cui Google è sopposta: il DOJ, infatti, aveva già preso di mira la sua attività pubblicitaria, citando in giudizio Google nell’ottobre 2020 per il predominio esercitato nelle ricerche sul web. Ancora un altro caso è stato presentato da un gruppo di stati guidati dallo Utah nel 2021 su Google Play, il suo app store mobile.

“La causa di oggi del Dipartimento di Giustizia tenta di scegliere vincitori e vinti nel settore altamente competitivo della tecnologia pubblicitaria”, ha dichiarato il portavoce di Google Peter Schottenfels. “Duplica in gran parte una causa infondata del procuratore generale del Texas, gran parte della quale è stata recentemente respinta da un tribunale federale. Il Dipartimento di Giustizia sta raddoppiando su un argomento imperfetto che rallenterebbe l’innovazione, aumenterebbe le commissioni pubblicitarie e renderebbe più difficile la crescita di migliaia di piccole imprese ed editori”.

I progressisti, invece, secondo quanto riportato da Politico, si sono dichiarati soddisfatti dell’azione intrapresa dal DOJ. “Come documenta meticolosamente la causa del Dipartimento di Giustizia, Google è un acquirente, un broker e uno scambio di pubblicità digitale con conflitti di interesse pervasivi”, ha affermato Matt Stoller dell’American Economic Liberties Project, “Google abusa regolarmente di questo potere, manipolando i mercati, rafforzando qualsiasi forma di concorrenza e ispirando paura in tutto il panorama commerciale”.

Le possibili criticità

Come riportato da Politico, non tutti sono d’accordo sul fatto che il nuovo caso Google del Dipartimento di Giustizia possa essere accolto, in quanto non rientra esattamente nell’ambito di applicazione tradizionale della legge antitrust americana. “La denuncia (di Google) sostiene alcune preoccupazioni tradizionali come le acquisizioni e l’induzione dell’esclusività, e altre, come l’inganno, in cui c’è spazio libero per estendere la legge”, ha detto Daniel Francis, ex vice direttore del Bureau of Competition della FTC, “Ma include anche alcune accuse, come l’auto-preferenza, che – almeno secondo le opinioni tradizionali – non sembrano violare la legge esistente”.

Sulla scorta della giurisprudenza sin qui formatasi sul punto, di stampo prevalentemente conservatore, Francis dubita che vi potrà essere un’apertura. In una causa del tutto simile avviata nei confronti di Meta, nella quale si contestava l’auto-preferenza dei propri prodotti, i giudici hanno respinto le accuse, scagionando Meta da qualsiasi conseguenza.

Oltre alle accuse secondo cui Google ha infranto la legge antitrust preferendo i propri prodotti rispetto a quelli dei suoi concorrenti, peraltro, il DOJ sostiene che anche i casi in cui la società si è rifiutata di condurre affari con i rivali costituiscono violazioni della normativa antitrust. Il tema delle piattaforme tecnologiche che si auto-preferiscono e si rifiutano di lavorare con i rivali, peraltro, è una questione che i legislatori hanno tentato senza successo di affrontare nello scorso Congresso. Questo porta a dubitare circa il positivo esito della causa, non essendo la normativa vigente adatta a regolare fenomeni di questo tipo.

In ogni caso, anche un esito negativo della controversia potrà portare ad una maggiore comprensione di come i tribunali federali possono affrontare le questioni di concorrenza nello spazio digitale, nell’attesa di una riforma antitrust federale. È d’uopo osservare, poi, come l’avvio di indagini e azioni giudiziarie nei confronti delle Big Tech abbia comunque portato a dei mutamenti nel mercato, e abbia spinto le grandi aziende a riporre maggiore attenzione ai profili connessi non solo alla tutela dei mercati ma anche alla tutela dei dati personali. Tanto più in un contesto che vede le medesime, in Europa, sottoposte a nuove stringenti norme, una volta che il Digital Markets Act sarà pienamente entrato in vigore.

Le difese di Google

A seguito della proposizione della causa da parte del Dipartimento della Giustizia, Google non ha mancato di esprimere il proprio disappunto. In un blog post condiviso il 24 gennaio, Google afferma che “La causa di oggi del Dipartimento di Giustizia tenta di scegliere vincitori e vinti nel settore altamente competitivo della tecnologia pubblicitaria. In gran parte duplica una causa infondata del procuratore generale del Texas, gran parte della quale è stata recentemente respinta da un tribunale federale. Il Dipartimento di Giustizia sta raddoppiando su un argomento imperfetto che rallenterebbe l’innovazione, aumenterebbe le commissioni pubblicitarie e renderebbe più difficile la crescita di migliaia di piccole imprese ed editori”.

In particolare, continua, “Il Dipartimento di Giustizia ci chiede di annullare due acquisizioni che sono state esaminate dalle autorità di regolamentazione statunitensi 12 anni fa (AdMeld) e 15 anni fa (DoubleClick). Nel tentativo di invertire queste due acquisizioni, il Dipartimento di Giustizia sta tentando di riscrivere la storia a spese di editori, inserzionisti e utenti di Internet. Entrambe queste acquisizioni ci hanno permesso di investire molto nello sviluppo di nuove e innovative tecnologie pubblicitarie. Questi accordi sono stati esaminati dalle autorità di regolamentazione, incluso il Dipartimento di Giustizia, e autorizzati a procedere. Da allora, la concorrenza in questo settore è solo aumentata”.

A riprova della forte concorrenza presente nel settore, Google fornisce poi i nomi dei diretti concorrenti che, al pari di lei, possiedono uno stack tecnologico pubblicitario completo che serve inserzionisti ed editori. Tra questi, vi rientrano i grandi nomi della tecnologia: Amazon, TikTok, Apple, Microsoft, Disney e tanti altri. L’intervento forzoso del governo statunitense, dunque, comporterebbe la fuoriuscita dal mercato di Google, favorendo altri grandi player del settore: “Il governo”, si legge, “non dovrebbe scegliere vincitori e vinti in un settore competitivo”.

Conclusioni

È dunque da vedersi, alla luce di quanto sin qui emerso, in che termini la vicenda si evolverà, e la giurisprudenza che si formerà sul tema, con rilevanza non solo per Google, ma anche per le altre grandi aziende del web che pure fondano, oggi, il proprio core business sulla vendita di spazi pubblicitari digitali, oltre che per gli editor che fanno uso degli strumenti resi da dette società.

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