Antitrust

Google, troppo potere ma le sanzioni non bastano: le sfide del pacchetto Ue per il mercato digitale

Il Tribunale della Corte di Giustizia dell’Ue ha confermato la maxi-sanzione da oltre 4 miliardi che la Commissione aveva comminato a Google per le restrizioni illegali ai produttori di dispositivi Android e agli operatori mobili. Resta il fatto che le multe non scalfiscono lo strapotere delle big tech. Servono regole

Pubblicato il 23 Set 2022

Riccardo Berti

Avvocato e DPO in Verona

Franco Zumerle

Avvocato Coordinatore Commissione Informatica Ordine Avv. Verona

googlesede

Nel contesto dell’economia digitale come in tutti gli altri, le sanzioni possono essere considerate una medicina per i sintomi, ma non curano la malattia: per quella serve un approccio normativo nuovo e strumenti agili per incidere subito sulle prassi da censurare. In questo senso la sfida del nuovo pacchetto di misure per il settore tecnologico (Digital Market Act e Digital Services Act) che sta faticosamente confezionando il legislatore comunitario è del tutto aperta.

Ultimo evento in ordine di tempo a ricordarci l’importanza di approntare delle regole adeguate alle sfide dell’economia digitale è la sentenza del 14 settembre scorso con cui il Tribunale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (l’organo della Corte che si occupa dei ricorsi per annullamento) ha confermato in larga misura la sanzione che la Commissione Europea aveva comminato a Google nel 2018, in esito ad un’istruttoria con cui l’autorità europea aveva dimostrato come Google avesse imposto restrizioni illegali ai produttori di dispositivi mobili Android e agli operatori di reti mobili, tutto ciò al fine di consolidare la posizione dominante del proprio motore di ricerca.

EU backs massive antitrust decision against Google but trims record fine

EU backs massive antitrust decision against Google but trims record fine

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La sanzione a Google

Il Tribunale ha confermato quindi l’impostazione della Commissione, che ha sanzionato Google per aver distorto il mercato al fine di promuovere il suo “prodotto-faro”, ovvero Google Search.

In particolare, Google ha profittato del suo dominio sul mondo degli OS mobile (con Android che è stabilmente intorno all’80% del mercato mobile UE) imponendo restrizioni contrattuali anticoncorrenziali ai produttori di smartphone nonché agli operatori di reti mobili.

Questi comportamenti riguardano il periodo che va dal 2011 al 2015 (momento in cui è iniziata l’indagine della Commissione) e si concretano in tre tipologie di restrizioni:

  1. imposizioni inserite negli accordi di distribuzione con i produttori che impongono ai produttori di preinstallare applicativi chiave come Google Search, Chrome (che di default propone il motore di ricerca Google) e il Play Store;
  2. imposizioni inserite nei cosiddetti “accordi anti frammentazione”, che impongono ai produttori che vogliano installare il Play Store di vendere solo ed esclusivamente dispositivi Android approvati da Google (non c’è la possibilità, quindi, per un produttore, di sperimentare su alcuni modelli installando Android in versione senza servizi Google);
  3. imposizioni inserite negli accordi di ripartizione del fatturato con produttori ed operatori, che subordinano il riconoscimento a questi ultimi di una frazione degli introiti pubblicitari di Google alla preinstallazione di motori di ricerca concorrenti rispetto a quello di Google.

La Commissione, sulla base di queste intese restrittive della concorrenza e tese unicamente a consolidare la posizione dominante di Google, ha sanzionato il colosso tech per 4,34 miliardi di euro.

Il Tribunale, adito da Google per l’annullamento della sanzione, sposa però pressoché in toto la ricostruzione della Commissione e con la pronuncia del 14 settembre conferma la sanzione, riducendola però a 4,125 miliardi di euro perché la Commissione avrebbe errato nel considerare gli accordi sulla ripartizione del fatturato tout court anticoncorrenziali, mentre lo sarebbero solo nella misura in cui Google “si tassa” consentendo l’accesso a rendite eventuali e non dovute a produttori e operatori pur di non consentire ai concorrenti di avere spazio nel suo mercato primario.

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Il Tribunale, in sostanza, conferma l’impostazione della Commissione per cui il sistema Android, pur nella sua apparente natura di prodotto open-source, finisce per fare da alfiere e stabile garante per il predominio di Google Search.

Il Tribunale affronta poi alcune questioni di puro diritto, come la definizione di mercato rilevante, individuata dalla Commissione nel caso di specie (correttamente secondo il Tribunale) in quattro facce della stessa medaglia, ovvero:

  • il mercato mondiale (Cina esclusa) della concessione di licenze per sistemi operativi per dispositivi mobili intelligenti;
  • il mercato mondiale (Cina esclusa) dei portali di vendita di applicazioni per Android;
  • i vari mercati nazionali all’interno dell’UE di fornitura di servizi di ricerca generica;
  • il mercato mondiale dei navigatori Internet per dispositivi mobili non specifici di un sistema operativo.

Abusi e restrizioni della concorrenza

In tutti questi mercati la Commissione (e il Tribunale) rinvengono una posizione dominante di Google, che consente l’applicazione della normativa antitrust in tema di abusi.

Quanto agli abusi le condotte già descritte sono state ritenute idonee dal Tribunale a costituire accordi restrittivi della concorrenza, anche vista la loro capacità di consolidare lo status quo di dominio di Google, assicurando a quest’ultima di non veder sorgere o sviluppare potenziali concorrenti.

Infine, il Tribunale esamina le eccezioni procedurali di Google, consistenti nella violazione del diritto di essere ascoltata e del diritto di consultazione del fascicolo. Il Tribunale accoglie entrambe le eccezioni di Google, rilevando degli errori procedurali che hanno in effetti compromesso la possibilità di difendersi di Google. Peccato che queste eccezioni riverberino, secondo il Tribunale, unicamente sull’accertamento relativo alla anticoncorrenzialità degli accordi di ripartizione del fatturato, che risulta marginale nell’economia complessiva della sanzione e che il Tribunale intendeva già annullare per valutazioni di merito (e di mancato assolvimento dell’onere probatorio in capo alla Commissione).

Il risultato è, per Google, uno sconto di “soli” 215 milioni di euro, con una sanzione residua di proporzione comunque smisurata (ma anche qui è una questione di proporzioni, 4,125 miliardi di euro sono un’enormità per quasi tutti, non però per le profonde tasche di Google).

Le altre procedure contro Google

La sanzione confermata dal Tribunale è solo l’ultima di una lunga serie di multe indirizzate dalle autorità antitrust della Comunità Europea al colosso statunitense, che in totale ha collezionato circa 8 miliardi di Euro di sanzioni negli ultimi anni, tutte frutto di una serie di indagini parallele iniziate dalla Commissione UE nel 2015/2016.

In particolare, nel 2019 la Commissione ha comminato una sanzione a Google di 1,49 miliardi di euro per la piattaforma AdSense.

La sanzione è stata comminata perché Google non si limita a promuovere il proprio motore di ricerca come strumento stand-alone, ma cerca di incorporare, con AdSense, il suo motore di ricerca in altri siti di rilievo, facendo al contempo da intermediario per gli spazi pubblicitari pubblicati anche su siti di terzi.

E l’accaparramento di questi siti finiva per schiacciare ulteriormente i ricavi dei concorrenti diretti di Google come Yahoo e Microsoft.

Google, infatti, nel promuoversi come intermediario di inserzioni su siti di terzi in un contesto di dominazione del mercato (con percentuali del 70/90% delle ricerche e degli utili pubblicitari nel settore), aveva abusato della propria posizione introducendo in particolare le seguenti clausole nei propri contratti con gli editori dei suoi annunci:

  1. dal 2006 Google ha iniziato ad introdurre clausole di esclusiva nei suoi contratti con gli editori (impedendo quindi a questi ultimi di vendere gli annunci anche ai concorrenti di Google);
  2. non contento, dal 2009, Google ha iniziato gradualmente a sostituire le clausole di esclusiva con clausole di c.d. “Premium Placement”, con cui i titolari dei siti si dovevamo impegnare ad acquistare una soglia minima di annunci e a riservare le posizioni “più in vista” agli annunci di Google. Google aveva inoltre iniziato a includere nei suoi contratti clausole con cui subordinava alla sua approvazione scritta ogni modifica nella visualizzazione degli annunci, di fatto così facendo Google poteva intervenire sull’appetibilità dei suoi annunci e al contempo affossare l’appetibilità di quelli dei concorrenti.

La più risalente delle tre sanzioni comminate dalla Commissione UE risale al 2017 e riguarda Google Shopping.

La sanzione, per 2,42 miliardi di euro, riguarda l’implementazione del servizio Google Shopping nel motore di ricerca Google, implementazione che il colosso di Mountain View aveva effettuato, specie agli inizi, con tecniche atte a nascondere dai risultati i prodotti e i servizi di concorrenti.

Questa decisione è stata in sostanza convalidata dal Tribunale della Corte di Giustizia UE con sentenza del 10 novembre 2021 (caso Google Shopping, T-612/17). Pende però ora l’impugnazione di Google, avanti alla Corte di Giustizia (C-48/22 P), destino, quello dell’impugnazione, che verosimilmente anche l’ultima decisione del Tribunale sulla sanzione da 4,34 (ora 4,12) miliardi di euro.

Prospettive per il futuro

Le più recenti discipline comunitarie in corso di approvazione si propongono di calmierare il ruolo di queste piattaforme che fanno da “gatekeeper”, soggetti che hanno un potere contrattuale assoluto in quanto sono in grado di mettere in contatto le imprese con i clienti in maniera privilegiata (e spesso personalizzata) aprendo di fatto (e a loro discrezione) un intero mercato ai propri partner, divenendo così titolari di un servizio che possono prezzare senza preoccuparsi della concorrenza.

Inoltre (e questo è un aspetto molto evidenziato dalle sanzioni UE), il mercato digitale presenta dei tratti caratteristici che favoriscono la crescita esponenziale dei colossi già consolidati.

Basta pensare ad esempio agli elevatissimi investimenti iniziali per avviare le piattaforme e farle popolare del maggior numero possibile di utenti, cui poi fa da contraltare un costo marginale nullo per accogliere questi utenti e monetizzare sull’intermediazione fra le imprese e questa base di utenti consolidata. É evidente che in questo contesto le imprese già affermate hanno un duplice sostanziale vantaggio:

  1. hanno i capitali da investire nel tentativo (potenzialmente fallimentare, vedi lo sfortunato social network Google+) di consolidare una nuova piattaforma in un settore affine a quello in cui già dominano;
  2. possono sfruttare la propria posizione dominante nel settore affine per “lanciare” il loro nuovo servizio irrobustendo così fin dal principio le sue potenzialità di successo e garantendogli di arrivare ad un livello di adozione tale da iniziare a generare una rendita.

Questo processo è stato in particolare censurato dalla Commissione con riguardo alla sanzione su Google Shopping.

Resta il fatto che queste sanzioni (unite alle molte altre sanzioni che hanno avuto come destinatario Google) non hanno minimamente scalfito la posizione dominante di Google nel settore della ricerca, dell’advertising (anche su siti di terze parti) e non hanno nemmeno inciso sul successo di Google Shopping (che non è esploso solo per la concorrenza trasversale di un altro colosso in continua crescita come Amazon).

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