display advertising

Abusi Google-Meta nel mercato pubblicitario a danno di tutti: le inchieste antitrust

La Commissione UE ha aperto un’indagine formale per verificare l’eventuale violazione delle regole europee sulla concorrenza – a danno di editori e inserzionisti – in virtù di un accordo segreto tra Google e Meta (Facebook) per i servizi di pubblicità display online. La mossa rientra in un quadro di inchieste anche italiane

Pubblicato il 07 Apr 2022

Enrico Quaranta

Magistrato - già Capo di Gabinetto AGCM

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E’ di qualche giorno fa la notizia secondo cui la Commissione UE ha aperto un’indagine formale per verificare l’eventuale violazione delle regole europee sulla concorrenza – a danno di editori e inserzionisti – in virtù di un accordo segreto intervenuto tra Google e Meta (Facebook) per i servizi di pubblicità display online.

Si tratta, più nello specifico, di un’indagine su intesa sottoscritta tra tali piattaforme nel settembre 2018.

La Commissione europea sull’accordo pubblicitario Google-Meta

Ha dichiarato in proposito la vicepresidente Ue, responsabile per la Concorrenza, Margrethe Vestager che l’Antitrust Ue si pone l’obiettivo di accertare se “Attraverso il cosiddetto accordo Jedi Blue tra Google e Meta, una tecnologia concorrente all’Open Bidding di Google potrebbe essere stata presa di mira con l’obiettivo di indebolirla ed escluderla dal mercato per la visualizzazione di annunci sui siti web e sulle app di editori che si affidano alla pubblicità display online per finanziare i contenuti online per i consumatori” giacché l’intesa potrebbe aver avuto l’effetto di limitare e distorcere la concorrenza nel mercato pubblicitario, a discapito sia delle tecnologie di pubblicazione degli annunci rivali degli editori e sia, in ultima analisi, dei consumatori.

Pubblicità online, il faro dell’Antitrust Ue sull’accordo Google-Meta: le violazioni contestate

Va detto che tale accordo segreto era stato già oggetto d’indagine da parte della Competition Market Authority (Cma) del Regno Unito; la Commissione si è affrettata a precisare come in ogni caso intenda “collaborare strettamente all’indagine britannica seguendo le norme e le procedure applicabili”. 

A fronte di tale annuncio Google ha dal suo canto dichiarato che “Le accuse mosse in relazione a questo accordo sono false. Si tratta di un accordo documentato pubblicamente e a favore della competizione, che consente a Facebook Audience Network (FAN) di partecipare al nostro programma Open Bidding, insieme a decine di altre società. Il coinvolgimento di FAN non è esclusivo e non riguarda vantaggi che possano aiutare a vincere le aste. L’obiettivo di questo programma è collaborare con una gamma di reti pubblicitarie e di exchange per aumentare la domanda di spazi pubblicitari degli editori, così da aiutare gli editori ad aumentare i ricavi. La partecipazione di Facebook serve a questo. Saremo felici di rispondere a tutte le domande della Commissione o dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato britannica”.

La posizione dell’antitrust italiano

Mentre tutto questo si è concretizzato, come premesso, a marzo del 2022, nell’ottobre del 2020 l’antitrust italiana comunicava l’avvio di altra istruttoria nei confronti di Google ipotizzando un abuso di posizione dominante[1].

Sanzione Antitrust a Google, è stato vero abuso? Vediamola da un’altra prospettiva

Secondo AGCM la società “avrebbe violato l’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea per quanto riguarda la disponibilità e l’utilizzo dei dati per l’elaborazione delle campagne pubblicitarie di display advertising, lo spazio che editori e proprietari di siti web mettono a disposizione per l’esposizione di contenuti pubblicitari”.

In particolare con l’avvio veniva assunto che nel mercato della pubblicità online – controllato da Google anche in virtù della sua posizione dominante nell’ambito della filiera digitale – la società avrebbe utilizzato in maniera discriminatoria i dati raccolti attraverso le proprie applicazioni, impedendo agli operatori concorrenti nei mercati della raccolta pubblicitaria online di poter competere in modo efficace.

Ciò sul presupposto che la raccolta pubblicitaria online nel 2019 aveva registrato in Italia un valore di oltre 3,3 miliardi, da rappresentare il 22% delle risorse del settore dei media, e il solo display advertising un fatturato superiore a 1,2 miliardi. Quindi sottolineando come la raccolta pubblicitaria online costituisse, in termini di valore, la seconda fonte di ricavi del settore dei media.

Successivamente, nel giugno 2021 Google accettava di pagare una multa di 220 milioni di euro nell’ambito di un’inchiesta avviata dalla Autorité de la Concurrence, l’antitrust francese, per aver abusato della sua posizione dominante nel settore della pubblicità online.

Nel suo caso, su segnalazione pervenuta da alcuni grossi editori, tra cui Newscorp e l’editore del Figaro, l’antitrust francese aveva accusato Google di aver approfittato del fatto di possedere sia una delle principali piattaforme per le aste online della pubblicità (ADX) sia uno dei principali sistemi di vendita della pubblicità (DoubleClick for Publishers) per favorire i propri servizi e incoraggiare gli inserzionisti a comprare pubblicità direttamente da Google e danneggiare i servizi rivali.

Il mercato della pubblicità on line

In considerazione di quanto appena premesso appare evidente – oltre che sotto gli occhi di tutti, abituati sempre più ad avvalerci del web per una qualsiasi ragione, dalla ricerca di notizie aggiornate, all’acquisto di beni e servizi, al mero passa tempo – che il mercato della pubblicità on line costituisca un settore di primaria rilevanza per gli operatori commerciali, compresi gli editori e che lo stesso abbisogni di interventi a garantire una competizione regolare, di fronte alla predominanza di chi gode – per struttura, per estensione su ambito globale delle attività caratteristiche e per presenza in una serie di mercati di beni e servizi – di una quantità sterminata di dati che valgano a definire il target e profilare i consumatori.

Va ricordato, al punto, che nel diritto antitrust viene definito mercato rilevante, sotto il profilo merceologico e geografico, l’ambito nel quale si svolge la concorrenza tra le imprese.

Ne consegue che la relativa definizione assuma carattere preliminare ai fini della verifica del se ricorrano in tale contesto situazioni di abuso di posizione dominante.

Esiste, in linea generale, il mercato della pubblicità on-line, che consiste nell’utilizzo di Internet per indirizzare messaggi promozionali agli utenti, quali potenziali consumatori.

I big data

Ad orientare in maniera determinante il mercato della pubblicità digitale sono, evidentemente, i Big Data, oggetto di un’indagine conoscitiva pubblicata nel febbraio 2020 dalle tre Autorità interessate[2].

I cosiddetti Big Data si generano, appunto, con l’attività degli utenti nell’ambito di Internet of things.

La loro elaborazione comporta l’organizzazione dei dati acquisiti allo stato grezzo, per cavarne informazioni suscettibili di essere utilizzate per finalità economiche.

La loro interpretazione consiste nel compierne un’analisi approfondita al fine delle conseguenti strategie economiche; analisi da cui cogliere trend di consumo e di comportamento degli utenti ed ottenere informazioni finalizzate ad orientare e/o adattare, rispetto alle preferenze espresse dai propri utenti/clienti, le scelte commerciali o perfino a determinarle[3].

L’AGCM nell’ambito del suo intervento nella riferita indagine ha diviso in tre grandi macro-categorie le aree di impresa in cui possono operare i Big Data:[4] e comunque affermato come l’utilizzo dei dati agisca sulle dinamiche competitive e concorrenziali del mercato.

In particolare ha rilevato come i vari business fondati sui Big Data caratterizzano fortemente i modelli economici dei servizi digitali, con elevati livelli di concentrazione ed operatori che detengono posizioni di assoluto rilievo in questi mercati. Ad esempio il potere di mercato d Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, di dimensione globale e caratterizzato da servizi che rivestono un ruolo centrale nella vita degli utenti (privati o imprenditori) e nelle delle transazioni smaterializzate e digitali.

Il lavoro congiunto delle tre Autorità le ha condotte alle seguenti conclusioni, in prospettiva di tutela dell’utente e del mercato:

  • invito al Governo ed al Parlamento a valutare norme a tutela della piena ed effettiva trasparenza nell’uso delle informazioni personali;
  • rafforzamento della cooperazione internazionale sul disegno di policy per il governo dei Big Data;
  • promozione di una policy unica e trasparente circa l’estrazione, l’accessibilità e l’utilizzo dei dati pubblici, con coordinamento tra tale policy e le strategie europee già esistenti per la costituzione di un mercato unico digitale;
  • riduzione delle asimmetrie informative tra utenti e operatori digitali, nella fase di raccolta dei dati, nonché tra le grandi piattaforme digitali e gli altri operatori che di tali piattaforme si avvalgono.

La definizione del mercato rilevante della pubblicità on line

Evidenziate le criticità che si rinvengono rispetto al binomio Big Data e operatori digitali, può passarsi ad esaminare il tema specifico del mercato della pubblicità on line e dei suoi segmenti rilevanti, gestiti da piattaforme digitali.

Tema oggetto d’indagine dell’Antitrust inglese, la Competition & Markets Authority (CMA), “Online platforms and digital advertising”[5], dell’indagine sulla pubblicità in internet pubblicata nel 2018 dall’Autorité de la concurrence, “Avis portant sur l’exploitation des données dans le secteur de la publicité sur internet”[6] e di una conseguente istruttoria relativa ad alcune pratiche abusive messe in atto da Google nel mercato francese della pubblicità generata dai motori di ricerca[7]. Oltre che, ovviamente, oggetto di studi accademici[8].

Il mercato della pubblicità on line va distinto in (i) pubblicità search on-line e (ii) pubblicità non-search on-line.

Nell’ambito della seconda categoria possono essere poi distinte le categorie di: a) e-mail advertising, b) classified advertising, c) display advertising, d) social network advertising e) e-commerce advertising[9].

Il search advertising riguarda gli annunci pubblicitari che appaiono insieme ai risultati della ricerca svolta dall’utente, all’interno di un’area dedicata ai risultati sponsorizzati. Essi vengono selezionati in base alle parole chiave (i.e. keywords) inserite dall’utente per la ricerca.

Il fenomeno presuppone il pagamento da parte dell’inserzionista alla piattaforma di un corrispettivo monetario onde avere in lista e/o inserire un collegamento al proprio sito in corrispondenza di termini e parole ritenute rilevanti per la ricerca che effettuerà l’utente.

Il search advertising si distingue poi in keyword advertising e contextual advertising;  nella prima ipotesi, il collegamento (oneroso) al sito dell’inserzionista viene pubblicato nelle Search Engine Results Page (SERP)[10] del motore di ricerca all’interno di appositi spazi pubblicitari; nella seconda, in spazi non riconducibili alla classica pubblicità

Spazi comunque creati dai motori di ricerca interpretando il contenuto delle pagine web dei siti ad essi affiliati, visualizzando i link sponsorizzati al loro interno in base ad affinità tematica all’annuncio.

Il non-search advertising, invece, riguarda le altre tipologie di inserzioni che non conseguono a una ricerca tramite keyword da parte dell’utente.

Si tratta di inserzioni grafiche che possono apparire su qualsiasi pagina web, a loro volta derivanti dall’affinità tematica tra i relativi annunci pubblicitari e il contenuto della pagina web in cui sono mostrate (i.e. contextual targeting), ovvero indipendentemente da questa (i.e. non-contextual targeting).

L’antitrust italiana ha segnalato – per altro verso – come siano possibili segmentazioni del mercato del non-search advertising, in considerazione della forte eterogeneità di quella pubblicità sia in termini di formato che di canale attraverso cui il messaggio pubblicitario è veicolato e, infine, di funzioni diverse per l’inserzionista pubblicitario.[11]

In tale contesto rientrano:

1)il classified advertising – piccole inserzioni pubblicitarie collocate in apposite rubriche dei quotidiani o sezioni/bacheche di siti web dedicate alla compravendita di prodotti o servizi , raggruppate in sezioni intitolate appunto in base ai prodotti o ai servizi offerti – che tuttavia la Commissione UE colloca in una categoria a parte [12];

2) L’e-mail advertising , ovvero le comunicazioni verso l’account e-mail di proprietà dell’inserzionista o acquistabile sul mercato, diretto a favorire le vendite distanza o a fidelizzare l’utente mediante campagne target;

3) Il social network advertising che è stato definito dalla Commissione come un segmento distinto del più ampio segmento del non-search advertising [13] e, in ogni caso, come una pubblicità di grande efficacia: a) per la sua attitudine di allocarsi presso la comunità degli utilizzatori dei social network, ampiamente diffusa a livello globale; b) per la sua possibilità di allocarsi in base alla profilazione dei destinatari;

4) l’e-commerce advertising, laddove le piattaforme di e-commerce consentono tipicamente attività di pubblicità in relazione ai prodotti e/o servizi ivi commercializzati, offrendo anche qui elevate possibilità di targeting del messaggio pubblicitario rispetto ad altre forme di non-search advertising, anche in ragione delle ricerche degli utenti dei prodotti commercializzati nella piattaforma.

5) Il display advertising, che riguarda gli spazi messi a disposizione da editori e proprietari di siti web per contenuti pubblicitari in formati fissi o mobile. Il banner, che è il formato di riferimento del display advertising, viene emesso da un ad server su determinate pagine web per catturare l’attenzione di chi visita i contenuti di quelle pagine, in funzione interattiva con l’annuncio.

Il display advertising funziona in maniera simile a quanto avviene per le campagne pubblicitarie  tradizionali, sicché il valore di uno spazio pubblicitario è determinato in considerazione di parametri quali l’audience potenzialmente raggiungibile, il tempo di permanenza dell’annuncio online, le dimensioni, il formato.

Ciò posto, va rilevato che si denominano Supply Side Platform (SSP) le piattaforme attraverso cui editori e concessionarie pubblicitarie possono presentare le richieste di offerta – comprensive di tutte le principali informazioni inerenti agli spazi pubblicitari proposti – per i propri spazi pubblicitari.

Si denominano invece Demand Side Platform (DSP) le piattaforme tecnologiche di acquisto di cui si avvalgono gli inserzionisti per presentare offerte di acquisto per le ad impression selezionate secondo criteri e parametri da essi stessi prefissati e indicati preventivamente alle DSP.

Le DSP consentono, dunque, agli inserzionisti (e, per loro conto, alle media agency) di partecipare all’asta virtuale in cui si realizza lo scambio commerciale con le SSP.

Si stima che la quota del mercato per la fornitura di servizi DSP ragionevolmente attribuibile a Google sia pari all’80% circa delle inserzioni pubblicitarie.

La rilevanza dell’acquisizione di dati personali

Dall’analisi condotta si può ragionevolmente trarre la particolare preoccupazione di editori ed inserzionisti sull’impatto dell’utilizzo degli algoritmi usati in maniera non trasparente da parte delle piattaforme sul traffico web nei loro siti [14], su qualità ed efficacia della pubblicità[15], sulle gare per l’acquisto degli spazi e la remunerazione degli intermediari[16].

In altri termini, la possibile esistenza di condotte abusive ed anticoncorrenziali, sotto il profilo dell’abuso di prezzo, di strategie che ritardano o impediscono l’interoperabilità con i siti di riferimento delle inserzioni pubblicitarie, del diniego di accesso alle informazioni, d’imposizione di condizioni inique.

Di certo, l’acquisizione ed il conseguente utilizzo di dati degli utenti ai fini di una loro profilazione risulta essenziale nella pianificazione di campagne pubblicitarie.

Si evidenzia, al riguardo, la capacità di tale patrimonio – fondato anche sulle precedenti ricerche effettuate dagli utenti – di generare effetti di rete ed economie di scala nei mercati della pubblicità on-line, consentendo ai pubblicitari di indirizzare i messaggi a target di utenti e consumatori ben individuati e profilati.

Da questo punto di vista, nel procedimento attivato dall’antitrust italiana ( sino alla sua conclusione per sopravvenuta incompetenza in favore della Commissione UE) si è sottolineata la capacità di Google raccoglie dati dai servizi che offre, dai dispositivi mobili Android che utilizzano il suo sistema operativo, e dai c.d. tags, sul presupposto che la stessa piattaforma garantisce una serie ampia di servizi e di funzionalità ai propri utenti[17]

La quantità e la qualità di dati a disposizione delle piattaforme ( nel caso dettagliato di Google), rappresenta un’ulteriore barriera all’ingresso sia per le piattaforme concorrenti che per i pubblicitari che vogliono offrire contenuti che solo Google è in grado di offrire personalizzati (targeted).

Ciò in ragione della semplice considerazione che la capacità di un annuncio pubblicitario di arrivare ed indirizzare l’utenza finisce per indirizzare la scelta degli stessi inserzionisti, che devono scegliere ove risulti utile fronteggiare la propria spesa tra editori e piattaforme.

Per misurare questa capacità di penetrazione del messaggio, gli inserzionisti pubblicitari devono poter tracciare i comportamenti degli utenti on-line, il che è tecnicamente possibile con i tag (i.e. strumenti che consentono di misurare e catalogare le pagine visitate e il numero di visitatori delle diverse pagine).

Il che vuol dire, da altro punto di osservazione, Google dispone di un accesso ai dati e di una capacità di tracciamento dei comportamenti degli utenti che non sono replicabili da altre piattaforme.

E’ evidente, allora, come la condotta delle piattaforme integrate di rifiutare di fornire chiavi di decriptazione dell’ID utente e nell’escludere la possibilità di tracciamento dei pixel di terze parti, a fronte del contestuale utilizzo, da parte delle proprie divisioni interne, di strumenti di tracciamento che consentono di rendere i servizi DSP, SSP e gli AD server di Google in grado di raggiungere una capacità di targhettizzazione che altri concorrenti altrettanto efficienti non paiono poter replicare.

Tali condotte sono idonee a determinare effetti restrittivi della concorrenza, nella misura in cui il rifiuto di fornire tali strumenti determina un ingiustificato vantaggio competitivo.

In particolare, dall’insieme degli elementi forniti sembra emergere l’ipotesi che tale rifiuto possa integrare effettivamente un comportamento discriminante nell’utilizzo di dati, a danno di operatori attivi nel display advertising localizzati nel territorio italiano.

Conclusioni

L’insieme delle riferite iniziative assunte (o in corso) da parte delle varie autorità antitrust contro le piattaforme digitali rende palese come esista un rilevante campo di scontro in ambito concorrenziale nel settore nevralgico della pubblicità on line.

Per altro verso, la centralità e diffusività di tali piattaforme si è oltremodo accentuata prima nel periodo più complesso della fase pandemica e poi ora in pendenza del conflitto in Ucraina.

La mole di dati a loro disposizione, soprattutto ove esse siano integrate verticalmente, ne fa titolari di un patrimonio di valore assolutamente rilevante e in un posizione di dominanza nel mercato.

Dovrà allora verificarsi se l’armamentario offerto del TFUE possa in qualche modo fungere non solo da rimedio sanzionatorio ma anche quale strumento che arrivi in tempo per riportare nei giusti binari la concorrenza, evitando pro futuro o sopprimendo in maniera tempestiva condotte abusive e restrittive.

Del pari dovrà verificarsi se – de jure condendo – i nuovi rimedi che a livello europeo sono in corso di approvazione ( come il DMA) possano garantire un maggiore e più efficace interventismo delle autorità antitrust che – come del resto rende chiara la tempistica intercorsa tra l’intesa Google e Meta di cui in premessa e l’indagine attivata al riguardo dalla Commissione UE a distanza di quattro anni – rischia allo stato di arrivare fuori tempo massimo.

Per altro, appare di tutta evidenza come la reale ed effettiva pluralità dell’informazione passi attraverso la possibilità degli editori di offrire spazi pubblicitari accattivanti per gli inserzionisti ovvero di acquisire adeguata risonanza dei propri prodotti editoriali ove ospitati dalle piattaforme digitali senza subire alcun effetto di dipendenza economica.

Nel primo caso, ciò non può che passare attraverso un accesso alle informazioni ed ai dati profilati dai grandi operatori che non siano oggetto di un abusivo rifiuto.

E di un’informazione indipendente, completa e aggiornata si sente sicuramente un gran bisogno ora che esiste una particolare sensibilità e necessità di notizie aggiornate, visto il crinale che improvvisamente le relazioni internazionali hanno preso, così orientate ad uno scontro che ha già fatto e continua a far pagare un prezzo incredibilmente salato in termini di vite umane.

Note

  1. Con delibera del 2.11.2021 l’AGCM chiudeva il procedimento per sopravvenuta incompetenza evidenziando che “ in data 22 giugno 2021, la Commissione Europea ha avviato una procedura per l’applicazione dell’articolo 102 del TFUE nei confronti del gruppo Google (AT.40670 – Google – Adtech and Data-related practices); ..che i comportamenti oggetto di valutazione da parte della Commissione nel predetto procedimento coincidono con quelli esaminati dall’Autorità nel provvedimento di avvio dell’istruttoria per violazione dell’articolo 102 del TFUE; .. che pertanto “ ai sensi dell’articolo 11, comma 6, del Regolamento (CE) n. 1/2003, nel caso di specie, sia venuta meno la competenza dell’Autorità ad applicare l’art. 102 TFUE”.
  2. Il 30 maggio 2017 l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni , con delibera n. 217/17/CONS recante “Avvio di un’indagine conoscitiva sui big data”, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con provvedimento n. 26620 del 30 maggio 2017 “IC53 – Big Data”, e il Garante per la protezione dei dati personali – sulla base delle determinazioni adottate nell’adunanza collegiale dell’11 maggio 2017, hanno avviato congiuntamente una Indagine conoscitiva volta ad approfondire la conoscenza degli effetti prodotti dal fenomeno dei Big Data e analizzarne le conseguenze in relazione all’attuale contesto economico-politico-sociale e al quadro di regole in vigore.
  3. Sul tema, V. G. Colangelo, “Big data, piattaforme digitali e antitrust”, Il Mulino editore, 2019, https://www.rivisteweb.it
  4. Segnatamente:1) mercati in cui l’utilizzo dei Big Data ha un rilievo di tipo organizzativo interno all’azienda, per la fornitura del bene/servizio; 2) mercati in cui l’utilizzo dei Big Data può incidere sull’offerta, nei settori caratterizzati da elevate asimmetrie informative e dallo svolgimento di attività di distribuzione/intermediazione (qui gli scopi di utilizzo vanno dal design di prodotti e servizi, al marketing, al customer care); 3) mercati in cui l’utilizzo dei Big Data è assolutamente rilevante giacché da esso dipendono le caratteristiche fondamentali del bene/servizio da offrire, in termini di innovazione e/o di personalizzazione.
  5. CMA, Online platforms and digital adversiting. Market study interim report, London, december 2019.
  6. Autorité de la concurrence, Avis n.18-A-03 du 6 mars 2018.
  7. Autorité de la concurrence, Décision n° 19-D-26 du 19 décembre 2019 relative à des pratiques mises en oeuvre dans le secteur de la publicité en ligne liée aux recherches, da cui all’accordo citato in premessa.
  8. Fiona M. Scott Morton, David C. Danielli, Roadmap for a Digital Adversiting Monopolization Case Against Google, Omydar Network, may 2020.
  9. In tema si cfr AGMC, A542 – GOOGLE NEL MERCATO ITALIANO DEL DISPLAY ADVERTISING Provvedimento n. 28398;
  10. SERP è la pagina dei risultati del motore di ricerca. Ogni qualvolta un utente effettua una ricerca con un motore, infatti, ottiene come risposta un elenco ordinato.
  11. In particolare nel caso A542 AGCM ha sostenuto che possano essere definiti i seguenti mercati rilevanti, tutti di estensione geografica nazionale: i) classified advertising; ii) e-mail advertising; iii) social network advertising; iv) e-commerce advertising, e v) display advertising.
  12. r. Decisione della Commissione del 18 febbraio 2010, caso M.5727 – Microsoft/Yahoo!Search Business.]
  13. [Cfr. Decisione della Commissione del 3 ottobre 2014, caso M.7217 – Facebook/Whatsapp.]
  14. Sulla base del Report della CMA, infatti, sembra che Google offra ai grandi pubblicitari meno del 40% del traffico e modifiche agli algoritmi utilizzati da Google Search hanno determinato drastiche e improvvise riduzioni della navigazione su specifici quotidiani, con evidenti ripercussioni finanziarie che non possono essere né previste né gestite adeguatamente.
  15. In termini di numero totale di visualizzazioni di un annuncio pubblicitario servite da un ad server a un utente in un dato intervallo temporale (c.d. ad impressions).
  16. Con riguardo alla qualità e all’efficacia della pubblicità, per esempio, Google non consente una verifica indipendente del proprio ad inventory con la conseguenza che valuta da sola la qualità e l’efficacia degli spazi pubblicitari offerti.
  17. A titolo es l’AGCM fa riferimento al “la posta elettronica (Gmail), le mappe on-line (Street View su Google Maps), gli annunci pubblicitari on-line e la commercializzazione di spazi pubblicitari (Google DoubleClick e Google AdWords), il browser (Google Chrome), la gestione di pagamenti on-line (Google Wallet), il negozio virtuale per l’acquisto di applicazioni, musica, film, libri e riviste (Google Play), la ricerca, visualizzazione e diffusione di filmati (YouTube), i servizi di immagazzinamento, condivisione e revisione di testi (Google Docs e Google Drive), il software per la visualizzazione di immagini satellitari (Google Earth) o per la gestione di agende e calendari (Google Calendar), il software per il controllo e la gestione dei profili dell’utente (Google Dashboard), strumenti di analisi statistica e di monitoraggio dei visitatori di siti web (Google Analytics)”

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