Che un’impresa come Google, che controlla oltre il 90 per cento del mercato del search, sia negli US sia nell’UE, e che, forte di questa posizione. è prima – davanti a Meta e Amazon – nel mercato del digital advertising, possa meritarsi la qualifica di “monopolista”, come accaduto pochi giorni fa con la sentenza del giudice distrettuale Mehta dopo una causa antitrust durata 4 anni, non appare strano.
Google è un monopolista? Sì, ma non da ora e non è il solo
Quello che trovo, viceversa, strano è che la sentenza sia stata emessa dopo che per tanti anni Google – cui il giudice ha riconosciuto il ruolo di fondatore dell’uno e dell’altro mercato – abbia continuato sin quasi dalla sua nascita a fare le stesse cose che ora le vengono imputate, senza che le numerose indagini cui è stata sottoposta abbiano portato (a parte alcuni correttivi e diverse multe nella UE) a una condanna del suo business model e senza che nel frattempo ci sia stato negli US (a differenza di quanto accaduto nella UE) un minimo cambiamento della legislazione antitrust, che tenesse conto delle profonde mutazioni nel contesto competitivo indotte dall’enorme sviluppo di Internet (cui sono attualmente connesse oltre 5 miliardi di persone, quasi i due terzi della popolazione mondiale).
Quello che trovo anche strano è che la sentenza sia stata emessa da un giudice che ha riconosciuto il ruolo di innovatore di Google, nel fondare e nel continuare a perfezionare i due mercati interconnessi fra loro del search e del digital advertising, e che ha riconosciuto la netta superiorità del servizio offerto da Google rispetto a quello dei concorrenti e la sua enorme popolarità: non scalfita nella UE (Fig. 1) dai diversi correttivi richiesti dalle authority antitrust per rendere visibili i servizi concorrenti e non scalfita negli US dal recente tentativo di Microsoft di conquistare una fetta del mercato (ora del solo 6%) immettendo nel suo servizio Bing la possibilità di accesso all’AI generativa di OpenAI.
Che cosa è cambiato allora e perché è stata Google (componente fondamentale come noto di Alphabet) a essere messa nel mirino per prima, e non un’altra delle Big Five (Amazon, Apple, Meta e Microsoft) che hanno situazioni simili di dominanza nei loro settori?
Gli impatti della sentenza Google sulle altre big tech
Per quanto riguarda il secondo punto, credo che la sentenza su Google sia arrivata per prima semplicemente perché la procedura antitrust è stata avviata ancora durante la presidenza Trump. Ed è probabile – se ne è discusso molto in questi giorni – che la sentenza possa influenzare gli esiti delle altre procedure antitrust in corso, promosse dall’una o dall’altra authority antitrust statunitense (l’Antitrust Division del Justice Department diretta da Jonathan Kanter o la FTC-Federal Trade Commission diretta da Lina Khan): una riguardante ancora Alphabet, che dovrebbe arrivare a sentenza presto; le due in corso da anni contro Amazon e Meta; le tre più recenti, contro Microsoft (per molti anni non più attaccata dopo essere stata oggetto all’inizio del secolo di una delle più famose cause antitrust della storia), contro Apple (attaccata per la prima volta negli US) e contro Nvidia (che controlla come noto il 90 per cento circa del mercato delle GPU-Graphics Processing Unit indispensabili per istruire i modelli di AI).
Cosa è cambiato negli Usa verso le big tech
Per quanto riguarda il primo punto, su cosa sia cambiato negli US a fronte di una legislazione rimasta immutata, credo che abbiano giocato due fattori:
- le Big Tech hanno raggiunto dimensioni che in altre occasioni ho definito “oggettivamente ingombranti”: la Tab. 1 mostra come, nonostante i recenti cali in Borsa di diverse di esse, le sei tech con la maggior capitalizzazione al mondo – le Big Five con la recente aggiunta di Nvidia – “valgono” ora complessivamente 14 trilioni di dollari, equivalenti (per fornire un termine di paragone) a oltre la metà del PIL statunitense del 2023 (27,36 trilioni) e a oltre 6 volte il PIL italiano
- le dimensioni raggiunte, e il connesso potere, hanno creato una sorta di fronte politico bipartisan avverso, che non sembra al momento (ne ho parlato in un recente articolo su Agenda Digitale) che le prossime elezioni presidenziali americane possano frantumare.
Cosa aspettarsi adesso
In assenza di una nuova legislazione, però, non è affatto detto che le prime sentenze si traducano – dopo gli ovvii ricorsi – in misure di portata sostanziale, come avvenuto nel citato caso Microsoft di inizio secolo quando Microsoft stessa rischiò di essere spezzata in due tronconi: di qui la tiepida risposta della Borsa, di cui parlerò nel punto successivo. E il “conflitto tecnologico” in atto con la Cina, a mio avviso, potrebbe giocare a favore delle Big Tech: bilanciando con un obiettivo esterno, quello di non indebolire le imprese che possono giocare un ruolo fondamentale anche dal punto di vista militare, l’obiettivo interno di limitare una presenza “ingombrante”.
La reazione dei mercati
La Tab. 1 guarda alle capitalizzazioni in Borsa di Alphabet-Google e delle altre big in tre momenti diversi:
- all’inizio di luglio, quando – come si vede anche dalla Fig. 2 – Alphabet-Google toccò il suo punto di massimo valore;
- dopo la presentazione delle trimestrali all’inizio di agosto, quando l’irritazione del mercato per i crescenti investimenti in AI generativa – ritenuti incerti nei ritorni o almeno nei tempi di payback – delle Big Five, insieme a una serie di fattori di natura macroeconomica (quali la paura poi attenuatasi di una incombente recessione dell’economia statunitense), portarono a un sensibile calo delle capitalizzazioni di diverse di esse;
- al 10 agosto, momento in cui sto scrivendo questo articolo, a conclusione di una fase di parziale recupero.
Quello che emerge chiaramente, confrontando i dati attuali con quelli di inizio luglio, è che il mercato ha punito in misura quasi uniforme
- le tre imprese leader nel cloud – nell’ordine Amazon, Microsoft e Alphabet-Google – che più stanno investendo nei data center in grado di gestire la domanda di servizi di IA generativa, e
- Nvidia (che presenterà più avanti la trimestrale), che potrebbe soffrire anche pesantemente se la reazione negativa degli investitori portasse a un calo degli investimenti delle tre imprese sue principali clienti.
Alphabet-Google ha perso il 14,4% rispetto all’inizio di luglio, leggermente più di Microsoft (-13,2%), ma meno di Amazon (-15,8%) e Nvidia (-16,8%). Quasi nessuna traccia quindi, almeno sinora, della sentenza.
Possibili “rimedi” pro-concorrenza nel search: Google potrebbe essere smembrata?
Dire che “Google è un monopolista” è un primo passo, ma è solo l’inizio di un processo che potrebbe durare diversi anni fra tempi necessari per sentenziare i cosiddetti “rimedi” e ricorsi e che potrebbero spingere il mondo politico statunitense – se rimarrà bipartisan l’ostilità verso lo strapotere delle Big Tech – ad approvare, come ha fatto negli scorsi anni l’UE, una nuova legislazione che risponda (come ho detto all’inizio) ai profondi cambiamenti nei modi di competere che Internet, giocando sulla immaterialità, ha introdotto in un mondo precedentemente condizionato dalla materialità. O forse, in assenza di riforme legislative, potrebbe essere la Corte Suprema a essere coinvolta nella soluzione dei possibili conflitti fra i grandi principi previsti dalla Costituzione che quasi certamente emergeranno nella definizione dei “rimedi” per il caso Google e/o per altri che arriveranno a sentenza nel prossimo futuro.
In vista del prossimo passo che il giudice Mehta dovrà fare, non prima di un anno e mezzo da ora se verrà rispettata la tradizione, che sarà quello di sentenziare sui “rimedi”, nelle sedi più specialistiche ma anche sulle principali testate economico-finanziarie internazionali, le domande ricorrenti sono due: “Sono possibili “rimedi” che accrescano realmente la concorrenza nel search senza procedere a uno smembramento di Alphabet-Google? E un eventuale ordine di smembramento avrebbe vita facile?”.
Le ipotesi di smembramento e le possibili conseguenze
Riporto a tale proposito il titolo di un recentissimo articolo del Financial Times (giornale che ha scelto una linea di attacco radicale al potere delle Big Tech), che suona così “C’è qualcuno che è in grado di porre uno stop al monopolio illegale di Google?” e che nel sottotitolo evidenzia i dubbi, nel momento in cui il giudice Mehta sta studiando i “rimedi” concreti da imporre a Google: “La più grande vittoria dell’antitrust US dopo il caso Microsoft [di inizio secolo] potrebbe essere di portata troppo piccola e troppo tardiva [per conseguire l’obiettivo di stroncare il monopolio di Google]”.
I dubbi sulla possibilità che emerga qualcuno in grado di fronteggiare la forza e il prestigio del search di Google spingono diversi esperti – accademici o “trustbusters” (termine informale usato per denotare chi opera o ha avuto incarichi in agenzie antitrust) – a ritenere indispensabile lo scorporo di una o più business unit di Alphabet-Google, con Android come principale candidata. Ma gli stessi evidenziano anche l’estrema difficoltà di una operazione di questo tipo.
Una possibilità cui altri fanno cenno, anch’essa probabilmente ai confini della legalità, è di impedire accordi quale quello sottoscritto con Apple, per cui Google è arrivato a versare annualmente 20 miliardi circa di dollari: spingendo Apple, a fronte della perdita di una quota non piccola dei suoi profitti, ad aprire un fronte di concorrenza nel search, anche utilizzando la “Apple Intelligence” che sta mettendo a punto.
Potrebbe essere l’Intelligenza Artificiale a minare il monopolio di Google nel search?
La storia ci insegna che i veri grandi cambiamenti negli equilibri di mercato sono solitamente dovuti all’entrata in gioco di grandi innovazioni tecnologiche. Ibm, che si riteneva destinata a mantenere una posizione monopolistica su un orizzonte temporale indeterminato, rimase vittima non tanto dell’attacco antitrust, quanto del passaggio dai mainframe all’informatica distribuita. E l’avvento di Internet, più che l’attacco antitrust, creò le condizioni perché Microsoft perdesse la posizione di assoluta primazia nel mondo informatico, facendo crescere nuovi protagonisti al suo fianco (fra cui Alphabet-Google).
Potrà essere l’AI, generativa o meno, a creare le condizioni per la rottura del monopolio? È una possibilità, come Alphabet-Google ha mostrato di temere, dopo l’attacco portato da OpenAI con i soldi e l’influenza mediatica di Microsoft. E’ un qualcosa su cui molte imprese – big come Meta o di crescita recente come OpenAI (che ha promesso di lanciare a breve SearchGPT) o Perplexity (che proprio in questi giorni ha comunicato i dati di crescita del suo search) – stanno puntando, anche se al momento i grandi problemi sono quelli di ridurre i costi (molto più elevati rispetto al search tradizionale di Google), di individuare un business model remunerativo e di superare il problema delle allucinazioni (che potrebbe portare anche a pesanti contenziosi).
L’AI è comunque una tecnologia in continua evoluzione, di cui l’AI generativa è solo una componente, per cui le sue potenzialità nell’ambito del search devono essere pesate in un’ottica più ampia.
Dove andrà il mercato? Focus sulle acqui-hires
In questo quadro, se si pensa che l’AI abbia un futuro nel search e se si mira a una reale competizione, dovrebbe essere tenuto sotto controllo il meccanismo delle acquisizioni delle AI startup da parte delle Big Tech: non solo delle acquisizioni nel formato “convenzionale”, attualmente quasi svanite per la circa certezza del blocco da parte delle authority antitrust, ma di quelle nel formato innovativo talora denominato “acqui-hires” – utilizzato in più occasioni da Microsoft, Alphabet-Google e Amazon – in cui l’impresa che si vuole acquisire viene lasciata in vita con gli azionisti esistenti, viene remunerata per i prodotti e il know-how che può mettere a disposizione, ma “spolpata” del gruppo fondatore/dirigente e di larghissima parte del personale che vengono assorbiti dall’impresa acquirente.