L’approccio degli americani con il Web è stato lo stesso tenuto col West: tanto spazio e poche leggi.
La storia la scrivono i vincitori, anche nelle guerre finanziarie e tecnologiche: chi ce l’ha fatta ha ragione.
Dietro questo equivoco si nasconde ancora l’idea che il fine giustifichi i mezzi, ignorando principi, valori e diritti conquistati nel tempo, derubricati a esitazioni e scrupoli morali. Così si riafferma il primato (di fatto) dell’economia sulla politica che porta a confondere leadership e consenso.
Governare la potenza delle imprese tecnologiche
Il binomio fortuna economica – consenso politico sta diventando sempre più ricorrente mettendo in discussione la qualità delle democrazie. Quando la concentrazione economica è così grande produce un potere politico rilevante, che non può essere lasciato ad una élite di miliardari eccentrici. La potenza delle imprese tecnologiche è iperbolica e va governata prima che superi il punto di non ritorno. Le istituzioni, dunque, devono collocare pure l’hardware e il software nel perimetro del contratto sociale, come tutti gli altri poteri.
La natura dell’impresa digitale – apparentemente intangibile – ha sorpreso istituzioni novecentesche pensate per la manifattura, l’industria e il commercio, aggirando un caposaldo del libero mercato come la concorrenza. L’antitrust fu pensato ben 110 anni fa per smembrare la flotta di petroliere di Rockefeller, egemone a livello mondiale. Una concentrazione non dissimile da quella delle odierne big-tech (Google, Microsoft, Meta, X … Amazon o Apple). È più facile vedere le petroliere che i server?
Sempre più numerose e frequenti sono le intromissioni nella politica, le prese di posizioni, gli anatemi o le minacce che fanno questi tycoon. Come latifondisti che gestiscono il loro spazio di influenza non come proprietari ma più come veri e propri governatori di quell’ambiente. Insomma, i tiranni digitali (Mandrone, 2022) fanno quello che vogliono, fagocitano gli oppositori e infondono paura, soprattutto in chi gli è vicino. Non contemplano la discussione, non hanno bisogno di consenso e si sentono infallibili. Poco gli importa delle conseguenze dei loro capricci sui paesi e le persone.
Tecno-regolamentazione: le norme dettate dalle big tech
Si è parlato spesso di fuga dal diritto, cioè della ricerca sistematica di rapporti che eludono gli ordinamenti degli Stati sovrani per sfuggire alle loro prescrizioni (tassazione, sicurezza, remunerazione, normativa) ma, oggi, forse bisognerebbe aggiungere la “tecno-regolamentazione”, ovvero quella patina di para-normativa imposta dalle grandi imprese e dalle piattaforme per utilizzarle ma senza un mandato popolare. Di fatto, ulteriore codice ma senza alcuna legittimazione democratica è stato redatto per regolare la dimensione digitale.
Contratti digitali e cessione di sovranità
I contratti che stipuliamo – distrattamente – sul web creano continuamente sovrastrutture che hanno un impatto reale e forte sulla vita delle persone. Curvando il diritto dei singoli ambiti e paesi ad una pletora di precisazioni e indicazioni pervasive e sempre più tecniche. Sono spacciate per politiche aziendali, strategie commerciali, adesioni volontarie, regole di comunità, pensate affinché l’utente, da ovunque digiti, aderisca ad un sistema di riferimento solidale ad un set certo valoriale, salvo cedere progressivamente parti sempre maggiori della propria sovranità.
La parte più insidiosa della questione è l’idea che ogni volta, ognuno di noi, dovrebbe leggere patti e accordi per accedere ai servizi, magari sempre gli stessi: dai social ai media, dalle piattaforme pubbliche (scuola, sanità fisco, anagrafe, ecc.) a quelle private (banche, assicurazioni, servizi, utenze, ecc.). Questo escamotage è una resa dell’ordinamento nazionale e comunitario che, invece, dovrebbe tutelare e circoscrivere le azioni unilaterali di questi soggetti per i cittadini, per quelli che non sono in grado di comprendere le implicazioni di certe scelte.
I rischi della democrazia eterodiretta influenzata dai social
Inoltre, lo strapotere dei social-media corrompe la meccanica democratica poiché la loro influenza (se non manipolazione o, in certi casi, propaganda) non consente al cittadino comune una lettura corretta e una valutazione adeguata delle questioni (sempre più complesse) riducendo il suo voto a una liturgia laica (sempre meno partecipata). Siamo passati dalla democrazia diretta alla democrazia eterodiretta, senza neanche accorgercene.
I legislatori riponevano grande fiducia nella capacità della scuola pubblica, e quindi di un livello di istruzione medio, la realizzazione degli auspici, dei diritti e delle prerogative democratiche. Ciò è sempre meno vero, con la conseguenza di una partecipazione sempre meno consapevole.
Chi usa un computer deve essere tutelato dalla legge e dalle istituzioni locali come chi usa guida una automobile o compra una maglietta, indipendentemente da dove è prodotta. Non è possibile delegare ai singoli cittadini la tutela della propria privacy e dei propri dati. È una posizione asimmetrica, in cui il cittadino-web user è la parte debole.
Abbiamo progressivamente perso quote di potere in cambio delle briciole di quei cookies che si premurano continuamente di farci autenticare. Ma chi gli ha dato l’autorità per farlo? Perché surrettiziamente le garanzie analogiche ci sono state sottratte nel piano digitale? Prima che sia troppo tardi, è il momento di frenare lo strapotere delle grandi aziende tecnologiche e dei suoi proprietari.
Principi, regole e limiti vanno negoziati preliminarmente. Dobbiamo essere informati (noi o i nostri rappresentanti) per valutarne le implicazioni. Ma, soprattutto, dovrebbero essere i player a uniformarsi alle nostre regole (europee) non chiedere di aderire, per parti o per l’intero, a norme d’oltreoceano. Quale altro prodotto o servizio accettereste di sottoscrivere sapendo che è regolato da leggi diverse da quelle del vostro Paese o che sono decise (e possono cambiare) unilateralmente?
I rischi dei monopoli digitali
Forse si è aperta una breccia in questo muro. Un giudice federale degli Stati Uniti ha condannato Alphabet, la società proprietaria di Google, per aver agito con lo scopo di mantenere un monopolio nella ricerca online. È accusato di aver consolidato illegalmente il suo predominio, in parte, pagando ad altre aziende, come Apple e Samsung, miliardi di dollari all’anno (nella sentenza si parla di più di 26 miliardi di dollari nel solo 2021) per gestire le ricerche sui loro smartphone e browser web. Google controlla il 90% delle ricerche online: una posizione totalmente dominante, non concessa a nessuna azienda in nessun settore. I giudici affermano quello che già tutti sapevamo: Google è un monopolista.
Il monopolista, la storia ce lo insegna, agisce come un predatore al vertice della catena alimentare, guidato dall’istinto, senza alcun timore, lasciando solo gli scarti della sua preda agli avvoltoi. Il mercato, senza un regolatore pubblico efficace, torna allo stato di natura, homo homini lupus.
Conclusioni
Questa gara verso il successo ha fatto correre tanti rischi ma ha alimentato tantissimo il progresso tecnologico. Dai garage in cui scrivere programmi o assemblare componenti fino alle big-tech, tanti hanno partecipato alla corsa all’oro digitale. La competizione tecnologica esasperata, però, ha i suoi costi: qualcuno vince, molti perdono. Parafrasando Sergio Leone; quando un uomo con un computer nuovo incontra uno con un computer vecchio, quello con il computer vecchio è un uomo morto.