greenwashing e reputazione

Perché l’azienda rischia la faccia se l’ambientalismo è solo di facciata

La Corporate Social Responsibility è oggi un tema di grande attualità, in quanto l’influenza che esercita sull’ambiente, sulla società e sulle community influisce in modo significativo sulla reputazione di un’azienda. Ecco perchè il greenwashing oggi è un rischio ad alto potenziale per le aziende

Pubblicato il 26 Ott 2022

Salvatore Pugliese

CEO The Fool

green ict

La discussione sul tema del greenwashing, l’ambientalismo di facciata fatto di sole dichiarazioni è passata nell’arco di 12 mesi da argomento ideologico a tema mainstream. Proprio perché la portata del suo interesse ha travalicato la linea dell’attivismo andando a toccare le corde di una platea molto più ampia, il greenwashing oggi è un rischio ad alto potenziale per le aziende.

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Aziende “verdi”: marketing o impegno concreto?

Un’azienda, parafrasando il padre del management moderno Peter Drucker, “non è un’isola a sé stante. Deve risolvere il problema fondamentale di bilanciare il bisogno di concentrazione e di autolimitazione con la preoccupazione per l’ambiente e la sollecitudine per la comunità”. Ma quanto davvero autentico il è purpose di marchi e brand che quotidianamente si definiscono sempre più verdi e sostenibili?

Per gli italiani la risposta è decisamente negativa, visto che solo il 2% dichiara di fidarsi completamente di quanto dichiarano i brand circa il loro impegno per ridurre il loro impatto ambientale, inoltre le false dichiarazioni di sostenibilità o di impegni ambientali sono il primo disincentivo all’acquisto di un brand per quasi un italiano su due (48%). Sono i dati che emergono dalla ricerca realizzata da The Fool utilizzando, insieme a Brandwatch e GWI, la piattaforma Audiense.

Così aziende e istituzioni fanno leva su strategie di comunicazione per apparire più ‘verdi’ di quanto siano effettivamente, in cui attività, prodotti e servizi sono presentati come sostenibili dal punto di vista ambientale e si cerca di nasconderne l’impatto negativo sul pianeta. Così si crea una società divisa, tra aziende a cui va riconosciuto l’impegno sul tema e altre che preferiscono investire su una comunicazione che non viene confermata dalla cruda realtà

Chi parla oggi di greenwashing in Italia

Nell’estate appena trascorsa, è stata una delle parole più usate, segno tangibile della maggiore consapevolezza da parte dei consumatori che non si fanno abbagliare dall’iper-esposizione di loghi in varie tonalità di verde o packaging più o meno ecosostenibili. Una parola che è diventata di uso comune ed entrerà nel vocabolario Zingarelli a partire dal 2023: “ambientalismo solo apparente, di facciata, spec. da parte di un’azienda che vuole presentarsi come ecologicamente responsabile per scopi pubblicitari, di immagine, ecc”.

A parlare di greenwashing sono soprattutto laureati che abitano in grandi città (Milano, Roma e Torino) e i più interessati appartengono alla fascia 18-24 anni. Un futuro più verde quindi, ma con giudizio. Non basta colorare le confezioni o ridurre la plastica degli imballaggi. I consumatori sempre più informati cercano una svolta davvero green e quando si accorgono che alle parole non seguono fatti, indirizzano le loro scelte d’acquisto verso altri brand.

Se nel 2021 la discussione online sul tema proveniva prevalentemente da 3 categorie di utenti – individuate a seconda di interessi, followgraph, tratti psicografici e, programmi tv/radio seguiti – ovvero gli Attivisti (21%) già impegnati personalmente su temi “green”, i Cosmopoliti (35%) che seguono con interesse i temi di politica e attualità e i “Green Finance” (40%) cioè impiegati o manager interessati al tema dal punto di vista del business – in soli 12 mesi altre due categorie si sono delineate all’interno della discussione.

È anche a causa dello sdoganamento del tema all’interno delle categorie dei “Digitalisti”, ossia coloro che vivono la loro quotidianità online e che non disdegnano l’ibridazione delle proprie passioni con tematiche smaccatamente di marketing e degli “Screen Addicted” che le discussioni hanno fatto segnare un +73% anno su anno, con una “rumorosa” entrata in scena di questi ultimi due nell’arena del dibattito online.

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La relazione con i brand e con il loro impegno ambientale

La Corporate Social Responsibility è oggi un tema di grande attualità, in quanto l’influenza che esercita sull’ambiente, sulla società e sulle community influisce in modo significativo sulla reputazione di un’azienda.

Il lavoro da fare da parte delle aziende è tanto, se si considera che attualmente quasi nessun italiano si fida totalmente dei brand e del loro impegno (il 68% dichiara “poca fiducia” e l’8% addirittura nessuna fiducia, a fronte del 22% che si fida molto e solo il 2% che si fida completamente.
Il greenwashing inoltre risulta la prima motivazione a non acquistare da un brand (48%), addirittura davanti a scarso tracciamento (42%) e mancanza di trasparenza nella supply chain (41%).

Sono dati che in sintesi documentano che esiste un forte desiderio di pratiche aziendali più concrete e trasparenti. I consumatori vogliono che le aziende diano il loro contributo reale alle comunità locali, alla beneficenza, ai loro dipendenti e che influenzino positivamente l’ambiente. Perché, come scriveva l’imperatore Marco Aurelio “ciò che non giova all’alveare non giova neppure all’ape”.

Diventa sempre più difficile per un’organizzazione comunicare le azioni concrete e reali messe in campo in soccorso di ambiente e società: se il green marketing aveva inizialmente un obiettivo positivo – contribuire allo sviluppo di un nuovo modello di consumo – l’ampliarsi della discussione rende oggi più complesso farsi ascoltare anche quando i messaggi sono veritieri e i contenuti originali.

Gli stakeholder sono diventati più diffidenti: i dipendenti chiedono coerenza tra il dichiarato e l’agito; associazioni del Terzo Settore pretendono azioni concrete; i clienti esigono informazioni sull’intera filiera; gli investitori premiano la trasparenza.

A questo tema Rossella Sobrero, Presidente di Koinètica e di FERPI è stata tra le prime esperte in Italia ad approfondire il legame tra comunicazione e sostenibilità. In “Verde, anzi verdissimo” edito da Egea. Sobrero non si limita a fotografare lo scenario attuale ma condivide dati, buone pratiche e strumenti utili a comunicatori e organizzazioni per evitare il rischio greenwashing valorizzando – correttamente – le proprie attività: dagli impegni formalizzati in documenti come la Carta dei valori e il Codice etico alle policy aziendali; dalle certificazioni di prodotto e di processo al rispetto di standard condivisi, senza dimenticare etichette, packaging, strumenti di rendicontazione.

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