Nessuno avrebbe potuto immaginarlo, nel 2008, quando in tv apparve il trailer di un film su un super eroe di cui quasi nessuno sa nulla. Ad interpretarlo, un tizio che sono sicuro di aver già visto da qualche parte, ma di cui non si è sentito nulla per anni.
Pure il regista non ispira fiducia: un tale francese, ma non è Luc Besson quindi non ho la minima idea di chi sia. Quel film era Iron Man, un superhero movie che riuscì nell’impresa impossibile di riportare in auge Robert Downey Jr.
Alle origini del Marvel Cinematic Universe
Ciò che però nessuno poteva immaginare è che il primo prodotto di quello che sarebbe divenuto il Marvel Cinematic Universe avrebbe segnato una delle più grandi rivoluzioni di Hollywood e del modo con cui i film vengono creati: grandi franchise interconnessi con l’obiettivo di creare un grande brand “ombrello” facilmente riconoscibile dal pubblico.
Questo modello non è però rimasto confinato nelle colline di Hollywood e presto anche l’industria del videogioco ha realizzato che è molto più redditizio spremere quanti più prodotti basati su franchise amati dal pubblico piuttosto che intraprendere la più rischiosa strada che conduce a nuove IP: in quello stesso periodo, infatti, giganti come Assassin’s Creed e Call of Duty avrebbero iniziato il loro ciclo di vita basato su nuovi sequel rilasciati ogni singolo anno.
Le differenze tra un sequel e l’altro? Minime. Gli incassi? Sempre da record.
Da queste basi sarebbero poi nati altri modelli, tutti atti a creare prodotti formalmente uniformi: i grandi open world di Ubisoft, il modello battle pass e improntato su microtransazioni di EA, la nascita del genere Battle Royale con PUBG e Fortnite… Nel corso del decennio a seguire, i titoli ad alto budget sarebbero diventati sempre più simili, sempre meno audaci e sempre più concentrati alla massimizzazione del profitto a discapito dell’originalità.
Il videogioco (come forma artistica) sta morendo
Se sulla carta questo sembrerebbe prospettare un futuro per l’industria assolutamente nefasto per i giocatori – i consumatori finali – i dati però dicono il contrario: il videogioco (almeno come forma artistica) sta morendo e i videogiocatori stanno premendo il grilletto.
Le vendite sia digitali che fisiche sono in declino (con un calo del 5% rispetto a febbraio 2022) ma, e qui nasce il problema, sono sempre più concentrate sui grossi franchise: in altre parole, c’è sempre meno incentivo per le software house di creare nuove ed originali IP quando i giocatori stessi sono i primi a non premiare sforzi fatti in quella direzione.
È sufficiente guardare una qualsiasi classifica di vendite degli ultimi anni per vedere come, in top 3, ci siano sempre gli stessi identici giochi: il FIFA ed il Call of Duty di turno e GTA V (un gioco con ormai una decade sulle spalle); e scendendo lungo queste classifiche la situazione difficilmente cambia, con l’eccezione di titoli single player appartenenti a franchise stabiliti almeno 2 generazioni ludiche fa, come God Of War o, di recente, il remake di Dead Space.
Un remake ci seppellirà: se i videogame hanno perso la voglia di innovare
Il trend dei remake sembra destinato a rimanere ancora a lungo
A fronte di questa situazione, la domanda non è più “quando rivedremo giochi più audaci ed originali?” ma piuttosto “come verrà il videogioco ulteriormente mercificato?”.
L’anno scorso compagnie come Square Enix e Ubisoft hanno tentato – e fallito – con gli NFT, ma non c’è dubbio alcuno che i Non Fungible Token verranno riproposti una volta che verrà trovata una veste più appetibile con cui rivenderla al consumatore; il trend dello sviluppo di remake 1:1 di giochi amati dal pubblico sembra destinato a rimanere ancora a lungo, con il già citato Dead Space o con il pleonastico The Last Of Us Part I rilasciato lo scorso settembre.
Stiamo, in altre parole, assistendo ad uno shift nel paradigma che era valido fino a circa 5-6 anni fa, secondo il quale i giochi multiplayer con una forte componente online rappresentavano il lato “casual”, “mainstream” e – soprattutto – fortemente monetizzato dell’industria, mentre quelli single player potevano fregiarsi di essere l’altra faccia della medaglia, quella in grado di mantenere la volontà di innovare.
Oggi, questa distinzione non è più valida: con la distribuzione delle vendite di videogiochi sempre più ultra concentrata sugli stessi franchise, il timore è quello di assistere a pratiche sempre più predatorie da parte di software house che, semplicemente, non hanno alternativa.
Fino ad oggi, compagnie come EA e Konami erano “punching bag” su cui era facile fare battute per la loro avidità e l’aggressiva monetizzazione dei loro giochi ma ora questo trend si sta diffondendo in ogni compagnia che sviluppa giochi AAA.
Se i giocatori sono i primi a non ripagare gli sforzi dei progetti indipendenti
Prendendo ad esempio anche Sony – che da ormai 20 anni ha cementificato la propria immagine come una compagnia focalizzata sullo sviluppo di giochi single player con una forte componente narrativa – se osserviamo quali sono stati i giochi in esclusiva sviluppati sotto l’ombrello della compagnia giapponese nel corso delle ultime 2 generazioni vediamo la presenza di moltissimi titoli open world con una struttura di gioco solida ma anche già vista e rivista come Spiderman, Days Gone, Ghost of Tsushima ed Horizon Zero Dawn; giochi che ancora possiedono una propria identità, ma che in un prossimo futuro potrebbero ulteriormente omogeneizzarsi come quanto visto con Ubisoft, dove i vari open world sono via via divenuti sempre più simili, fino all’essere praticamente identici.
Quando queste grandi compagnie sono, giocoforza, costrette a finanziare solo prodotti di questo tipo, sempre più la responsabilità di difendere l’arte del videogioco ricade sulle spalle di developer indipendenti e quei pochi game designer che possono ancora permettersi di osare, come Hideo Kojima o Neil Druckmann, forti di un pedigree in grado di convincere i publisher a finanziare prodotti più personali; in pratica l’equivalente videoludico del cinema d’autore.
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Sforzi che però necessitano di esser ripagati dai videogiocatori. Se il trend di vendite attuale verrà seguito, presto anche questi ultimi capisaldi dell’industria potrebbero diventare reliquie del passato, spazzate via dalla nuova incursione di NFT o dai promotori del metaverso.
A farne le spese per primi saranno però gli sviluppatori di titoli AA – i giochi a budget medio alto – che inizieranno a gravitare sempre di più verso quanto descritto finora in titoli AAA oppure dovranno man mano ridurre il capitale investito nei loro progetti, ridurre il numero di dipendenti e, infine, trasformarsi in nuove compagnie indie.
Non siamo ancora arrivati ad un punto di non ritorno: Nintendo è ancora una forza della natura che può fregiarsi di alcuni dei giochi meglio ricevuti da pubblico e critica nella storia dell’industria, il panorama indie continua a crescere di anno in anno e persino publisher come EA riescono talvolta a pubblicare titoli di spessore, come It Takes Two (gioco dell’anno 2021).
Conclusioni
Ma il fatto che ancora esistano giochi di qualità non può e non deve essere una scusa per fingere che non ci sia un problema nel panorama videoludico: i videogiochi costano sempre di più per essere sviluppati, i videogiocatori acquistano meno titoli e i loro acquisti son sempre meno vari.
E se si vuole avere conferma di quanto questi mega franchise ludici siano considerati come i veri aghi della bilancia anche da parte dei publisher, è sufficiente osservare la vera e propria guerra che Sony ha lanciato contro Microsoft in seno all’acquisizione da parte di quest’ultima di Activision Blizzard, la compagnia responsabile, tra gli altri, di Call of Duty: secondo Sony, il possesso dell’IP Call of Duty è, infatti, da solo, sufficiente a garantire il monopolio del mercato.
Se questa affermazione sia vera o meno non sta a me deciderlo, ma il fatto che un colosso dell’industria possa anche solo pensare che una singola IP sia in grado di determinare le sorti del mercato è dimostrazione che quanto descritto in questo articolo sia un futuro quantomeno possibile.