Se il nostro Garante della privacy, o la petizione per una moratoria di sei mesi sottoscritta anche da Elon Musk, avranno successo, non leggete questo articolo. Perché il presupposto è che la “generative AI” – la categoria di algoritmi di intelligenza artificiale (divenuta stranota con ChatGPT) capace di creare nuovi contenuti sotto forma ad esempio di testi o di immagini – proceda nella sua strada, anche se con regole del gioco che doverosamente dovranno contenere i danni che essa può provocare a fianco degli innegabili (e fino a poco tempo fa inimmaginabili) vantaggi.
Pizzetti, ChatGpt: senza diritti siamo nudi davanti all’intelligenza artificiale
E perché il focus dell’articolo, riprendendo una discussione molto serrata sulla grande stampa economico-finanziaria internazionale, riguarda l’impatto che essa potrà avere sulle big tech, e sulle “big five” (Alphabet-Google, Amazon, Apple, Meta-Facebook e Microsoft) in particolare:
- un impatto che, data la diversità (nonostante i frequenti tentativi reciproci di invasione di campo) nella composizione dei portafogli di business delle cinque e dei livelli di avanzamento in tema di intelligenza artificiale, potrebbe essere molto differenziato;
- un impatto che – come accaduto con il successo travolgente (in gergo platform shift) di Internet o dell’iPhone – potrebbe far emergere nuovi protagonisti, favoriti anche dal possibile inasprirsi delle politiche antitrust nei riguardi delle big five stesse;
- un impatto però, che come ha sottolineato Richard Waters su FT con riferimento a quanto accaduto per la blockchain e più recentemente per il metaverso, potrebbe anche risultare inferiore o molto inferiore rispetto alle attese: per la difficoltà ad esempio di tradurre l’innovazione in business model a elevata profittabilità;
- un impatto che sarà fortemente condizionato da tipo e tempi di messa a punto della regolamentazione – sono ad esempio di pochi giorni fa i minacciosi avvertimenti di Lisa Khan (a capo come noto di una delle due authority antitrust statunitensi) contro possibili azioni delle big five volte a soffocare la nascente competizione nel comparto – e dalle differenze che sicuramente essa assumerà nelle diverse aree del mondo (per le sue valenze sul versante bellico e su quello del controllo interno della popolazione).
Lo stato di salute delle big five
Anche se su livelli inferiori ai loro massimi storici, le “big five” continuano a collocarsi ai vertici mondiali per market cap – ovvero per capitalizzazione/valore di Borsa – fra le società quotate (si veda la Tab. 1 di fonte companiesmarketcap.com): due di esse, Apple e Microsoft, occupano le prime due posizioni; quattro, con l’aggiunta di Alphabet-Google e Amazon, sono fra le prime cinque; insieme infine con Meta-Facebook, sono tutte fra le prime nove, sopra il mezzo triliardo di dollari di valore.
Anche i profitti netti delle prime tre continuano a essere molto elevati: 116,7 miliardi di dollari quelli di Apple come somma degli ultimi quattro trimestri, 82,6 e 71,7, rispettivamente, quelli di Microsoft e Alphabet-Google. Meta-Facebook, nonostante i suoi problemi, è a quota 28,9. Un dato negativo viceversa per Amazon – meno 3,6 miliardi di dollari (su 514 di ricavi) – alle prese con gli eccessi nell’eCommerce di dipendenti e di infrastrutture dopo la “sbornia pandemica”; mentre essa mantiene la leadership globale con AWS nel cloud computing e ha avuto una forte crescita nel digital advertising, ove è terza al mondo alle spalle di Alphabet e Meta.
Il timore delle big five di rimanere vittime di un effetto Kodak o di un effetto iPhone
Le big five temono ora di finire vittime del cosiddetto effetto Kodak o di un effetto iPhone. Che vuol dire? Innanzitutto che cosa si intende per “effetto Kodak” ed “effetto iPhone”, o – come spesso definiti alternativamente – “Kodak moment” o “iPhone moment”. Sono da un lato le due facce di una stessa medaglia, con Kodak nella parte della vittima di un cambio di contesto radicale (platform shift) e l’iPhone (ovvero la Apple di Steve Jobs) in quella del carnefice, di artefice del cambio di contesto altrettanto radicale. Sono dall’altro situazioni diverse per quanto concerne sia le cause del salto di piattaforma sia i comportamenti di vittime e carnefici: differenze utili da analizzare per cercare di spiegare le paure delle imprese ora dominanti. Nel primo caso c’è un’impresa, Kodak, leader mondiale nella fotografia dall’inizio del ‘900, che viene travolta dal passaggio dalla fotografia chimica a quella digitale:
- un passaggio non certo inatteso, per il continuo progredire (in linea con la “legge di Moore”) dei microprocessori, che Kodak aveva affrontato con una rilevante attività di R&D, testimoniata dal fatto che è sua la maggior parte dei primi brevetti in materia;
- un passaggio però che, al di là di alcuni suoi ritardi nel fronteggiarlo, colpì mortamente il cuore del suo business model, la vendita della pellicola, attorno a cui tutto il resto ruotava.
Le conseguenze furono devastanti. Kodak ora, dopo essere passata attraverso un concordato, vale 330 milioni di dollari. Fujifilm, la sua grande concorrente giapponese, che decise di focalizzarsi sui settori – il biomediale innanzitutto – ove la pellicola rimaneva rilevante, vale ora 21 miliardi. Il fatto curioso è che il salto di tecnologia non fece nascere un nuovo leader in sostituzione di Kodak, in assenza di business model adeguati, e che furono gli smartphone alcuni anni dopo a far crescere la fotografia a livelli mai visti, ma utilizzandola solo come fattore di differenziazione fra brand e modelli diversi.
Molto differente il caso dell’iPhone, in cui non furono i cambiamenti nelle tecnologie ma la straordinaria genialità di Steve Jobs nel combinare tecnologie diverse per mettere sul mercato un prodotto completamente innovativo nelle prestazioni, a provocare il “platform shift”. Le due imprese allora dominanti, Nokia (45 per cento del mercato globale e (in un ambito più di nicchia) BlackBerry, si accorsero solo in ritardo di quanto stava avvenendo: BlackBerry vale ora 2,7 miliardi, poco più di un millesimo di Apple; Nokia, che usò le sue ultime risorse per spostarsi nel mercato delle apparecchiature telecom, vale 27,9 miliardi, poco più di un centesimo. Fu invece Google, con Android, a seguire la strada di Apple, con un business model però (come noto) radicalmente diverso, orientato al potenziamento del suo digital advertising.
Le big five aumentano gli investimenti per non restare schiacciate
Le big five, e ciascuna di esse in modo diverso, non vogliono fare la fine di Nokia e BlackBerry, incapaci di comprendere (come in parte nei primi anni anche le Borse) la portata del cambiamento. Non vogliono fare la fine di Kodak, travolta – anche se attenta (a differenza di Nokia e BlackBerry) ai segnali esterni – dalla incapacità (o impossibilità) di trovare un nuovo business model con cui sfruttare l’enorme popolarità del suo brand. E per questo investono, cercando di giocare un ruolo proattivo e possibilmente di acquisire – o comunque creare legami forti come ha fatto Microsoft con OpenAI (che aveva in precedenza rifiutato di farsi acquisire integralmente da Elon Musk) – startup portatrici di idee innovative.
L’incremento degli investimenti in conto capitale e ancor più quello delle spese in R&D delle big five – anche se riconducibile solo in parte ai timori per la crescita della “generative AI” e anche se in parte attribuibile all’inflazione – è stato impressionante, come si può vedere dai dati di Bloomberg pubblicati da The Economist (Fig. 1). La somma delle due voci, prossima ai 400 miliardi di dollari nel 2022, è circa doppia rispetto al 2019. Le spese in R&D sono ammontate a 223 miliardi, a fronte dei 109 del 2019, e gli investimenti in conto capitale a 161 miliardi. In termini percentuali, rispetto alla somma dei ricavi delle cinque, si è passati dal 16% del 2015 al 26% del 2022. L’analisi fatta da The Economist, dopo aver ricordato che ci sono anche voci molto più prosaiche delle tecnologie di frontiera che assorbono risorse (come quelle per i magazzini, gli uffici e i data center da far evolvere), conclude però – sulla base di una serie di indicatori indiretti (di cui uno riportato in Fig. 2) – che l’intelligenza artificiale ha fatto la parte del leone, molto più rispetto al metaverso (in cui hanno investito Meta soprattutto e Microsoft prima del recente abbandono) e con un ordine di grandezza maggiore rispetto al mondo che ruota attorno alla blockchain e alle cryptovalute.
Le big five potrebbero superare indenni il cambiamento radicale che la “generative AI” potrebbe provocare?
Alla domanda, del tutto astratta, se le big five sarebbero in grado di superare il cambiamento radicate che l’IA generativa potrebbe indurre, darò una risposta sintetica. Il fatto che siano ancora vive, e addirittura in testa alla classifica, due imprese nate a metà degli anni ’70 come Apple e Microsoft, testimonia che è possibile che ciò accada. Con due chiarimenti però:
- Microsoft è riuscita a mantenere intatta la sua posizione quasi monopolistica in una componente rilevante dell’industria del software, cavalcando la bolla Internet (nel marzo 2000 rasentò i 550 miliardi di $ di capitalizzazione) e non essendo particolarmente toccata dall’avvento dell’iPhone (se non per il fallimento del suo tentativo di entrare in gioco con l’acquisizione degli smartphone di Nokia); e, con l’arrivo dell’attuale CEO, si è lanciata nel cloud (ove è seconda al mondo) ed è ora in pole position nell’incorporazione della “generative AI” nei propri prodotti;
- Apple, che era quasi fallita quando Steve Jobs ritornò a gestirla nel 1997, ha cambiato completamente anima con i suoi prodotti assolutamente innovativi e ha addirittura generato l’”effetto iPhone”; per poi trovare un successore, Tim Cook, che ha saputo sfruttare in tutti modi possibili l’eredità ricevuta.
Conclusioni
Il caso Kodak però ci dice che impegnarsi può non essere sufficiente, che i cambiamenti radicali di contesto possono ferire mortalmente i business model di maggior successo, facendo mancare loro gli elementi che ne rappresentavano la reale fonte di differenziale competitivo. Potrebbe essere ad esempio critico, soprattutto per il search di Google ma anche per quello di Bing, passare integralmente dall’attuale modello di elencazione di siti pertinenti – in cui è possibile inserire in maniera privilegiata quelli a pagamento – alla risposta secca, sia essa data da Bard o da GPT; rischierebbe cioè di entrare in crisi un modello, quale quello dell’offerta di un servizio gratuito pagata attraverso il digital advertising, che ha fatto la fortuna di Alphabet.
Le mie sono ovviamente considerazioni del tutto astratte. La storia ci insegna che con la creatività si riescono talora a risolvere situazioni potenzialmente catastrofiche e che viceversa situazioni apparentemente sicure entrano in crisi a fronte di eventi inattesi, talora senza reali possibilità di reazione.