l'analisi

Il crollo di Facebook anticipa il “declino” delle Big Tech? Tutti i motivi per crederlo

Lo “storico” crollo in Borsa di Meta ha provocato una violenta caduta delle quotazioni delle altre Big Tech – Microsoft, Google, Apple e Amazon – che pure avevano presentato risultati sopra le aspettative. A cosa sono dovuti i timori sul futuro di queste aziende, che pure continuano a macinare utili miliardari?

Pubblicato il 04 Feb 2022

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

borsa gamestop

Dieci miliardi di dollari di utile netto in un solo trimestre rappresenterebbero il sogno di quasi tutte le imprese del mondo, ma non sono bastati a evitare a Meta-Facebook, il 2 febbraio, un crollo del 24% del titolo nell’after-market trading, con una caduta il giorno dopo di 232 miliardi di dollari della capitalizzazione di Borsa, ancora pari – al momento della chiusura antecedente l’annuncio – a 900 miliardi circa.

Le altre big tech (vedi grafico) sono andate molto meglio, eppure sarebbe sbagliato vedere come caso isolato, avulso dal contesto, quanto successo a Meta. Ci sono segnali di mutamento, anche critici, che attraversano tutto il settore tech.

Quello che i mercati (e Mark Zuckerberg) temono

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Hanno ad esempio perso un quarto del loro valore il giorno precedente (in parte poi recuperato) le azioni di PayPal, con un calo di 51 miliardi nella capitalizzazione, dopo l’annuncio del calo atteso degli utenti e dei fatturati soprattutto in determinate fasce di reddito. Hanno perso valore nei giorni precedenti le regine dello streaming (ancorché di diversa natura) Netflix e Spotify, ambedue operanti con un modello di business basato sulle subscription, per i forti rallentamenti in atto nella crescita dei loro sottoscrittori.

Se il valore di Netflix e Spotify è legato al continuo aumento dei sottoscrittori (che ovviamente si traduce in una crescita anche dei margini unitari), il continuo aumento del numero di utenti unici è essenziale per imprese che, come Meta, operano nei social media, per l’importanza determinante del ben noto “network effect”: più persone entrano nel network, più sono quelle attratte ad entrarvi.

Perché Meta ha perso

È un tipico fenomeno “winner-takes-all”, ma che – come sembra temere anche Mark Zuckerberg (“Zuckerberg saw this coming”, titola Bloomberg Technology) – può funzionare anche al contrario, una volta che il numero di utenti smetta di crescere e inizi a scendere. Proprio quello di cui il mercato finanziario appare aver paura, dopo le comunicazioni di Zuckerberg sull’aumento della competizione soprattutto in alcune fasce (il dilagare, ad esempio, di TikTok fra i giovani). Due ulteriori timori del mercato:

  • le perdite (per la prima volte esplicitate) – 10 miliardi di dollari nell’intero 2021 – della divisione “Reality Labs” dedicata allo sviluppo del metaverso, che allo stesso tempo pesano negativamente sull’utile netto corrente e offrono poche certezze sui tempi di payback;
  • l’impatto sul digital advertising, di gran lunga il principale business di Meta, delle nuove regole sulla privacy poste in atto nel suo App Store da Apple: un impatto che secondo alcuni analisti ha già pesato sui risultati degli ultimi mesi. Meta lo stima pari a ben 10 miliardi di euro. Di contro Google – che dipende meno dai dati per la pubblicità rispetto a Meta-Facebook – guadagna terreno. Anche a scapito di Meta.
  • C’è anche da dire che Meta sta perdendo utenti, a vantaggio di TikTok e quindi perde soprattutto nella fascia giovane. Non solo: dove li guadagna – il servizio dei video brevi Reels creato appunto per competere con TikTok – ancora non ha una fonte di ricavi apprezzabile.

Regole privacy Apple e digital marketing, i problemi per le imprese

Il crollo di Meta trascina giù tutto il tech

Meta è stata la quarta fra le big five a presentare i dati trimestrali e la prima a deludere, perché sia Microsoft sia Apple sia Alphabet-Google avevano presentato risultati al di sopra delle aspettative e avevano dato un notevole contributo – insieme con le Big Oil Chevron ed Exxon – al ridecollo, dopo una non irrilevante caduta, delle Borse statunitensi e mondiali.

Una delusione che ha provocato una nuova violenta caduta delle quotazioni, in particolare delle imprese tech, e che ha trascinato verso il basso anche Amazon (le cui comunicazioni sui dati trimestrali erano attese dopo la chiusura delle Borse), facendole perdere 119,4 miliardi di capitalizzazione (l’ottava caduta giornaliera di tutti i tempi secondo i dati Dow Jones pubblicati da The Wall Street Journal). Una caduta recuperata nell’after market da Amazon, le cui azioni sono salite del 15% subito dopo la comunicazione dei dati trimestrali, a riprova dell’estremo nervosismo del mercato e del suo andamento sempre più simile alle montagne russe.

Il “caso” Amazon insegna: diversificare è la chiave

Amazon ha presentato dati così eccezionali? No, se paragonati a quelli di Microsoft, Apple e Alphabet-Google. Ma elevati per un’impresa che ha sempre privilegiato la crescita rispetto alla profittabilità e nettamente superiori – soprattutto – alle aspettative degli analisti, che ritenevano che l’aumento dei prezzi delle materie prime e il maggior costo del personale (Amazon ha ora quasi un milione e mezzo di dipendenti e le remunerazioni sono aumentate) avrebbe completamente affossato l’utile netto.

Ma, come fa notare il Financial Times nella sua rubrica Lex, la forza e la resilienza di Amazon – rispetto, ad esempio, a Meta-Facebook e ad Alphabet-Google – sta nella sua non dipendenza da un singolo business. I successi da un lato nel cloud e nel digital advertising, che hanno controbilanciato le difficoltà nell’eCommerce, e la plusvalenza una tantum dall’altro di 12 miliardi, realizzata con la quotazione di Rivian (la startup concorrente di Tesla la cui valutazione è stata sicuramente esaltata da una grande commessa di Amazon stessa per la costruzione di veicoli elettrici da usare nella distribuzione), hanno portato a un utile netto dell’ultimo trimestre dell’anno di 14,3 miliardi di dollari circa doppio rispetto ai 7,2 miliardi di un anno prima.

Apple e l’effetto Trump

Qualche informazione di maggior dettaglio.

Il grandioso risultato di Apple è almeno in parte attribuibile a quello che potremmo scherzosamente chiamare “effetto Trump”: la messa al bando di Huawei, che le impedisce l’accesso ai microchip più avanzati e le impedisce l’utilizzo degli aggiornamenti di Android, ha fatto cadere la sua quota di mercato negli smartphone sul grande mercato cinese dal 23 al 7%, aprendo la strada alla crescita di Apple (che ora occupa il primo posto). E Tim Cook ha proseguito nella sua strategia di distribuire agli azionisti – sotto forma di dividendi o buyback – una larghissima parte degli utili: nella fattispecie 27 miliardi circa, a fronte dei 6 destinati all’R&D.

Su Google e Microsoft l’effetto “benefico” della pandemia

L’effetto benefico della pandemia, con la ripresa del remote working e di forme varie di lockdown nell’ultima parte dell’anno, è proseguito sia per Alphabet-Google che per Microsoft: per la forte richiesta di utilizzo del digital advertising da parte delle imprese da un lato, che ha premiato Google (meno sensibile di Meta alle norme di privacy adottate da Apple); per la crescita del cloud, della vendita di PC (e quindi del relativo software) e dei giochi, ambiti tutti in cui Microsoft ha una posizione rilevante).

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Conclusioni

Per chiudere la domanda finale è: perché le Borse sono così nervose sul futuro di cinque imprese che – al di là dell’enorme capitalizzazione che potrebbe essere considerata come un fatto meramente speculativo – sono riuscite a generare negli ultimi quattro trimestri – messe assieme – oltre trecento miliardi di dollari di utili netti? Accenno solo ad alcuni dei possibili motivi, ricordando che alcuni di essi sono comuni alle big five e altri meno:

  • ci sono dubbi sul futuro post-pandemia del comparto tech, che ben difficilmente godrà di tassi di crescita così elevati (in alcuni comparti anzi si profila il rischio di una contrazione);
  • ci sono preoccupazioni su quelle che potranno essere le misure di contenimento del potere delle big tech da parte dei governi e delle authority – negli US e nella UE in primo luogo – anche senza arrivare agli estremi cinesi;
  • ci sono preoccupazioni di ordine macroeconomico, sulla crescita dell’inflazione e sul cambiamento in senso restrittivo delle politiche monetarie;
  • ci sono preoccupazioni, infine, ed è l’aspetto più inquietante, sui venti di guerra nel confronto fra le grandi potenze mondiali.

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