ai e diritto d’autore

Il data mining minaccia la musica? Quali difese posso già essere attivate



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L’era digitale porta con sé nuove sfide per il diritto d’autore. Tra innovazione e rispetto dei diritti degli autori, la Direttiva UE sul Copyright nel Digital Single Market cerca di trovare un equilibrio in un contesto sempre più dominato dall’intelligenza artificiale e dal data mining

Pubblicato il 29 nov 2023

Simona Lavagnini

avvocato, partner LGV Avvocati



Le sfide della Smart Mobility nell'era del Data Act

In Europa è chiaro che l’estrazione di testo e di dati che comporta la riproduzione di opere protette rientra nei diritti esclusivi d’autore e connessi. Per questa ragione sono state introdotte recentemente alcune eccezioni a questi diritti esclusivi, che sono finalizzate a consentire il data mining per finalità di ricerca e – in misura più limitata – anche quello di tipo commerciale.

Si tratta in particolare degli artt. 3 e 4 della Direttiva UE 2019/790 sul Copyright nel Digital Single Market, implementati in Italia con l’introduzione dei nuovi artt. 70ter e 70 quater legge autore tramite il d.lgs. 177/2021.

I timori legati al data mining commerciale

È chiaramente il data mining commerciale quello che può generare maggiori preoccupazioni ai titolari di diritti d’autore e connessi, perché consente a chiunque di effettuare riproduzioni ed estrazioni da opere o da altri materiali contenuti in reti o in banche di dati cui si abbia legittimamente accesso, salvo che il titolare dei diritti non abbia espresso riserva tramite un meccanismo cd. di opt-out.

È quindi necessario concentrarsi su questo secondo tipo di data mining per comprendere quali possano essere le difese che già oggi potrebbero essere attivate nei confronti dell’AI generativa che utilizza come input opere protette per creare output sostanzialmente similari a queste ultime.

A mio parere è già oggi possibile osservare tre cose:

  • che forse l’eccezione di data mining di tipo commerciale non si può applicare all’AI generativa di questo tipo, perché altrimenti si potrebbe violare il cd. three-steps-test;
  • che la previsione di un meccanismo di opt-out, secondo cui il titolare dei diritti deve opporsi al data mining altrimenti questo è consentito, potrebbe essere in violazione del fondamentale principio per cui l’esercizio dei diritti d’autore non può essere soggetto a formalità costitutive;
  • che in ogni caso l’onere della prova di dimostrare che le opere oggetto di data mining da parte dell’AI sono state oggetto di un legittimo accesso grava sul produttore dell’AI.

L’eccezione di data mining commerciale e il three-steps-test

Partiamo dalla prima osservazione. È principio generale derivante dai trattati internazionali – come la Convenzione di Unione di Berna, e come peraltro ribadito dalla Direttiva 2019/790 sul Copyright nel Digital Single Market – che le eccezioni e le limitazioni ai diritti esclusivi si possono applicare solo quando si tratti di casi speciali, non vi sia contrasto con il normale sfruttamento delle opere e non si rechi indebitamente pregiudizio ai legittimi interessi dei titolari dei diritti (cd. three-step-test). A mio modo di vedere nel caso dell’AI che si basa sull’estrazione di pattern da precedenti opere dell’ingegno per realizzare nuove opere che siano sostanzialmente simili ma non identiche alle precedenti, l’eccezione si applicherebbe in modo generale, piuttosto che in casi speciali; vi sarebbe un evidente rischio di contrasto con il normale sfruttamento delle opere; contemporaneamente vi sarebbe anche un evidente pregiudizio indebito arrecato agli interessi dei titolari dei diritti.

Il meccanismo di opt-out e il principio dell’assenza di formalità costitutive nel diritto d’autore

Veniamo all’opt-out. Come chiarito dal considerando 19 della Direttiva 2019/790 l’eccezione di data mining non si applica se i titolari dei diritti hanno espresso il loro dissenso in maniera appropriata. Secondo questo stesso Considerando, nel caso di contenuti resi disponibili al pubblico online, dovrebbe essere ritenuto appropriato riservare tali diritti solo attraverso l’uso di strumenti che consentano una lettura automatizzata, inclusi i metadati, e i termini e le condizioni di un sito web o di un servizio. In altri casi può essere appropriato riservare i diritti con altri mezzi, quali accordi contrattuali o una dichiarazione unilaterale. Il tutto può (ma non deve) essere assistito da misure tecniche di protezione.

Secondo alcuni interpreti, ed io mi trovo d’accordo, questo sistema basato sull’opt-out rischia di violare uno dei principi fondamentali del diritto d’autore, riconosciuto in molte Convenzioni internazionali (fra cui di nuovo la Convenzione di Unione di Berna), secondo cui per l’esercizio del diritto non sono previste formalità costitutive. In altre parole, nel diritto d’autore, diversamente da quello che avviene per i brevetti, i diritti nascono in virtù della creazione, e non vi è alcuna necessità di richiedere un titolo amministrativo e di pagare tasse.

La ratio è quella di rendere il sistema più inclusivo e aperto a tutti, indipendentemente dalle risorse finanziarie a disposizione o dalla conoscenza dei principi legali. Dunque, prevedere l’obbligo per i titolari dei diritti di esprimere il proprio preventivo dissenso, in assenza del quale essi non si possono opporre al data mining, mi sembra introdurre un onere formale in contrasto con i principi generali. Detto questo, è evidente in ogni caso che – ove mai questo obbligo fosse considerato legittimo – esso dovrebbe essere interpretato sempre nel modo più leggero possibile per i titolari dei diritti d’autore e connessi, e quindi anche come una semplice dicitura in linguaggio naturale, senza alcun bisogno di adottare soluzioni tecnologiche costose.

L’onere della prova e l’importanza della trasparenza nell’uso delle opere protette nell’AI generativa

Terzo punto. Le norme sono chiare nello stabilire che il data mining sia vietato quando chi lo svolge non ha legittimo accesso all’opera, perché non vi è alcuna regolare licenza di uso, oppure quando vi sia stato l’opt-out. Ne deriva che vi sia automaticamente una violazione quando l’AI abbia utilizzato per il data mining opere senza licenza, magari reperite indistintamente da fonti in internet, che possono a loro volta essere illegali, come i servizi che nascono ogni giorno in rete e mettono a disposizione contenuti abusivi. È chiaro però che un principio di questo genere non può ricevere alcuna efficace applicazione, se i titolari dei diritti incontrano difficoltà insormontabili per provare che la loro opera è stata effettivamente utilizzata e quindi violata. Questo avviene tipicamente nel caso dell’intelligenza artificiale generativa, che è spesso qualificata come “black box”, ossia come sistema che fornisce risposte ma non dadà spiegazioni relativamente al modo attraverso il quale le risposte sono state elaborate. È anche noto che a livello attuale non vi sono strumenti tecnologici adeguati ad individuare la violazione di opere protette (salvo in casi particolari, come per esempio quando l’output conservi un elemento identificativo che fa parte dell’opera utilizzata).

È per tale motivo che è necessario ritenere la sussistenza di un obbligo per l’AI di dichiarare quali opere siano effettivamente state “ingerite” e dimostrarne la legittimità d’uso. Peraltro, questo corrisponde al principio della cd. “vicinanza della prova”, secondo cui una determinata circostanza deve essere provata dal soggetto che ha più facilità ad accedere alla stessa.

Si tratta di un principio ben noto e sviluppato dalla giurisprudenza, con particolare riguardo ad opere ad alto livello tecnologico, in situazioni simili a quella qui considerata.  

Il caso Business Competence vs Facebook

Si può in particolare fare riferimento alla nota controversia fra una società italiana, Business Competence, e Facebook, in relazione all’allegata violazione di una app sviluppata da Business Competence da parte di Facebook, che ne aveva sviluppata una simile. Il Tribunale di Milano ha condannato Facebook e nel caso è stato decisivo che da una parte Facebook avesse avuto accesso alla app in questione e dall’altra parte non avesse dimostrato di aver sviluppato la propria opera in modo indipendente.

Peraltro, se non si fa così si condannano anche quegli sviluppatori di AI che si comportano in modo etico sul mercato, utilizzando solo banche dati di opere per i quali abbiano licenza. Evidentemente i costi che questi soggetti dovrebbero sopportare li metterebbero fuori mercato, così finendo per incentivare i comportamenti di quegli operatori più irrispettosi dei diritti di proprietà altrui.

Conclusioni

Vorrei, infine, sottolineare, che anche questa soluzione non sarebbe la panacea, visto che ad oggi non esistono tecnologie adeguate a capire quali opere siano state effettivamente utilizzate dall’AI, e quindi si potrebbe dare il caso di sistemi di AI che dichiarano solo un certo numero di opere effettivamente acquisite legittimamente, mascherando poi una serie di altre che siano state oggetto di scraping abusivo. Al momento però questa soluzione sarebbe già molto, ed è peraltro quanto mi pare sia sostanzialmente in discussione nella proposta di regolamento europea, nel contesto dell’introduzione del principio di trasparenza in base al quale i sistemi di intelligenza artificiale dovrebbero documentare e rendere disponibile al pubblico una sintesi dell’uso dei dati di training utilizzati dall’intelligenza artificiale che siano protetti dal diritto d’autore.

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