Membri dell’amministrazione Kennedy, nei primi anni ’60, erano soliti definire l’Europa occidentale “il nostro protettorato”: così raccontava Fabio Luca Cavazza, all’epoca direttore de Il Sole 24 Ore, che aveva avuto un ruolo importante (con il gruppo del Mulino) nei contatti con Washington per il “placet” alla nascita del centro-sinistra in Italia.
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Ue, da protettorato a colonia Usa?
È un ricordo che mi è tornato alla mente in questi giorni, riflettendo sul fatto che – a differenza di Kennedy – Trump sembra considerarci più come una “colonia” che non come un “protettorato” degli Stati Uniti.
E non siamo i soli, fra i Paesi storicamente amici, a ricevere questo trattamento privo di qualunque rispetto. Ce lo meritiamo? Sicuramente no per quanto riguarda le nostre “azioni”, ma forse un po’ sì per le nostre “inazioni”:
- per non aver fatto quasi nulla, negli ottant’anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, per dotarci di una nostra deterrenza e per impedire che la sola minaccia dell’abbandono della NATO da parte degli Stati Uniti ci faccia sentire completamente in balia di eventuali attaccanti: è bello (e comodo) dichiararsi “pacifisti” quando c’è qualcuno che sicuramente ti protegge e crearsi una deterrenza costa vari punti del PIL (l’amministrazione Trump in questi giorni ha chiesto che l’UE alzi la spesa militare al 5%);
- per essere ancora, a sessantotto anni dalla firma dei Trattati di Roma, un “coacervo” di Paesi dotati del diritto di veto, poco disposti a prendere le decisioni strategiche insieme e a lanciare grandi progetti realmente comuni: lo ha messo bene in luce Draghi, nel suo recente rapporto sulla competitività della UE stessa commissionato da Ursula von der Leyen, mostrando come l’assenza di coesione, insieme con l’eccesso di burocrazia, ci sia costata – nel primo quarto di questo secolo – un distacco di una ventina di punti rispetto all’economia statunitense.
Le tariffe di Trump e il loro impatto iniziale sui mercati globali
Che cosa sono le “tariffe” di Trump? Se ne è parlato tantissimo in questi giorni, per cui mi limiterò a richiamarne qualche punto essenziale. Il presupposto alla base dell’imposizione delle “tariffe” (preferisco non parlare di logica per un’operazione che crea sconvolgimento nell’economia e nella società mondiale con benefici perlomeno dubbi per Stati Uniti) è più o meno il seguente:
- tutti i Paesi del mondo, gli “amici” più ancora dei “nemici”, sfruttano la “bontà” degli Stati Uniti vendendo ad essi – spesso con pratiche commerciali scorrette – più beni “fisici” di quelli che acquistano, contribuendo in questo modo tutti insieme a creare un deficit della bilancia commerciale statunitense che nel 2024 è ammontato a 1,2 trilioni di dollari,
- questa situazione deve essere modificata, arginando con barriere tariffarie le importazioni di beni “fisici” e obbligando così chi vuole evitare le tariffe a spostare le attività manifatturiere negli Stati Uniti,
- sono gli Stati Uniti che devono stabilire le tariffe da “imporre” ai diversi Paesi – o ad aggregati di Paesi quali la UE – sulla base di una loro valutazione sull’entità dello scompenso commerciale, nella larga maggioranza dei casi senza alcuna trattativa a priori.
Le tariffe – definite “reciproche” – annunciate da Trump nel cosiddetto “Liberation Day” sono basate, per tutti i Paesi che non sono stati gratificati della tariffa minima del 10%, su una curiosa formuletta (“It’s a basic formula, and it doesn’t include what countries charge the U.S.”, dice The Wall Street Journal) volta a punire lo squilibrio commerciale e non le decantate pratiche scorrette: il 20% che verrà applicato all’export UE negli US è pari (dopo l’arrotondamento) alla metà del rapporto – 39% – fra lo scompenso commerciale UE-US di 235,6 (605,8 – 370,2) miliardi di dollari e il totale import statunitense dall’UE di 605,8 miliardi. Nel gruppo dei Paesi considerati come “peggiori trasgressori” appaiono Paesi “amici” come il Giappone con il 24% e Taiwan con il 32%, appare la Cina con il 34% (cui si somma il 20% già in atto) che ha risposto immediatamente imponendo il 34% sull’import dagli Stati Uniti, nonché altri Paesi commercialmente importanti come Sudafrica (30%), Thailandia (36%), Vietnam (46%) e Cambogia (49%).
La reazione di Wall Street e le analisi dei principali organi di stampa globali
Wall Street ha avuto una reazione immediata proseguita nei giorni successivi: “Trump’s Tariffs Wipe Out Over $6 Trillion on Wall Street in Epic Two-Day Rout – The selloff capped the worst week since 2020, as fears of a recession mount”, ha sintetizzato The Wall Street Journal il 5 aprile, dopo la chiusura settimanale delle Borse. E lo stesso giornale, alla ripresa dei mercati (in particolare quelli asiatici) il 7 mattina, ha evidenziato come il violento calo si stesse sempre più estendendo agli altri mercati: “Market Turmoil Deepens as Asia Suffers Historic Routs – U.S. stock futures, European equities, oil tumble after Trump stands firm on levies”. The Wall Street Journal, riflettendo le preoccupazioni del mondo imprenditoriale statunitense sui rischi di una forte recessione dell’economia mondiale, è intervenuta anche su una serie di altri temi:
- sulla correttezza delle nuove “tariffe”, che in molti casi eccederanno quelle applicate ai prodotti statunitensi dai Paesi colpiti: “Trump Says Tariffs Are Reciprocal. They Aren’t. – The president’s new levies mean that in many cases, the U.S. will be charging other countries more than what they charge America”
- sui loro riflessi sul commercio internazionale, che molto dipenderanno dalle ritorsioni dei Paesi colpiti (quali quelle immediate della Cina) e dalla propensione o meno di Trump a negoziare: “How Global Trade Could Survive Trump’s Tariffs – The tariffs are the steepest since the 1930s. Whether world trade collapses, like it did then, depends on whether other countries retaliate and Trump negotiates.”.
- sul rischio che il dollaro perda la sua posizione di preminenza nella scena mondiale: “How Investing Will Change if the Dollar No Longer Rules the World – Should the U.S. currency and stocks no longer rise together, Americans will need to broaden their portfolios”.
Particolarmente incisivi i titoli di The Economist:
- “Market carnage goes global – As stockmarkets plunge, Donald Trump seems untroubled. That is scary”
- “Trump’s trade war threatens a global recession”
- “Investors are worried. At least the economy is starting from a position of strength”
- “How worrying is the weakening dollar? In times of trouble, the greenback normally strengthens”
Fra I diversi temi affrontati dal Financial Times
- la caduta del prezzo del petrolio, chiaro indicatore della paura di una recessione incombente: “Oil drops further as fears of global recession rise – Trump’s signal to push ahead with sweeping tariffs hits crude”
- le preoccupazioni anche del primo banchiere del mondo non solo sul pericolo di recessione e crescita dei prezzi, ma anche sui danni geo-politici a lungo termine che le “tariffe” rischiano di provocare: “JPMorgan chief Jamie Dimon warns trade war risks recession and higher prices – Donald Trump’s tariffs could cause long-lasting damage to US alliances, Wall Street banker tells shareholders”
- la criticità delle decisioni che il capo della Federal Reserve Jay Powell assumerà nel tenere sotto controllo l’inflazione o – come vorrebbe Trump – stimolare la crescita: “The Fed shouldn’t try to save the world from Trump tariffs – Given its record, the risk is that the US central bank will do just that”
- l’impatto negative che le “tariffe” potrebbero avere sullo sviluppo delle rinnovabili: “Donald Trump’s tariff blitz sparks turmoil for green energy sector – Duties pose one-two punch for an industry already reeling from renewed embrace of fossil fuels”.
Infine Bloomberg
- evidenzia come anche la Borsa cinese presenti delle pesanti cadute: Tencent –13%, Meituan -15%, Alibaba -18%, Xiaomi -21%
- esprime stupore per il fatto che si tratta di imprese tutte focalizzate sui consumatori interni e che non dovrebbero quindi risentire delle difficoltà di export verso gli US
- si pone conseguentemente domande sulla fragilità della ripresa dell’economia cinese.
La Fig, 1 e la Fig. 2 mostrano l’andamento delle Borse nel periodo intercorrente fra l’inizio dell’anno e la chiusura del 4 aprile, due giorni dopo il “Liberation Day”.


La Fig. 3, con riferimento allo S&P 500, mostra come i diversi settori abbiano risentito in misura diversa dell’annuncio dell’applicazione delle “tariffe”: l’energetico e il tecnologico in testa alla graduatoria, l’assistenza sanitaria e i beni di consumo di prima necessità i meno colpiti.

La Tab. 1 dettaglia il crollo in Borsa delle “Magnificent Seven” (le 7 Big Tech di maggior valore), che complessivamente perdono 3.843 miliardi di $ di “market cap” rispetto alle ultime trimestrali e 3.645 miliardi rispetto ai giorni susseguenti all’elezione di Trump.

Il dilemma europeo di fronte alle tariffe di Trump
Una prima osservazione. A differenza di quanto accaduto più volte nel passato, anche se in conflitti commerciali di portata minore, le “tariffe” riguardano solo in parte categorie specifiche di prodotti (acciaio, alluminio, auto e loro componenti), mentre sono del tutto indifferenziate (sul 20% per quanto concerne l’UE) quelle – da Trump definite “reciproche” – che vanno a colpire tutti gli altri prodotti “fisici”.
Non c’è stata cioè, o perlomeno non c’è stata finora, una differenziazione volta a colpire selettivamente i diversi Paesi UE, sulla base della composizione del loro export verso gli US.
Il totale allineamento delle “tariffe reciproche” non significa che tutti i settori, e tutti i Paesi, siano penalizzati nella stessa misura, per differenti e intuibili ordini di ragioni, quali:
- la diversa sensitività al prezzo che i differenti prodotti possono avere sul mercato statunitense;
- i diversi riassestamenti competitivi che le “tariffe” possono originare nei differenti settori (la sostanziale chiusura del mercato US alle auto cinesi costringe ad esempio i produttori europei a dover difendere il mercato interno dalle maggiori pressioni cinesi oltre che cercare di non perdere quote su quello US)
- le diverse caratteristiche delle filiere, quali la loro lunghezza e il numero di frontiere che i vari componenti attraversano, che comportano impatti più o meno rilevanti – non facili da valutare a prima vista – del complesso delle “tariffe”.
Il diverso grado di penalizzazione percepito, come possiamo vedere dalle dichiarazioni in questi giorni degli esponenti dei vari comparti, induce alcuni a chiedere all’UE e al nostro governo di scegliere la seconda opzione, quella di subire in silenzio (“meglio gestire un danno che si ritiene assorbibile che non rischiare una serie di ritorsioni a cascata) e altri a chiedere viceversa di reagire con vigore, non tanto rialzando le nostre tariffe quanto creando condizioni di maggior favore nel mercato interno per le imprese europee.
Una seconda osservazione importante, in linea con le dichiarazioni fatte in questi giorni da Ursula von der Leyen, è che vero che gli europei sono esportatori netti di beni “fisici” negli US, ma è anche vero che nei servizi (digitali, finanziari, etc.) sono le imprese statunitensi a predominare (Fig. 4), per cui la risposta più adeguata – se l’UE trovasse l’accordo per una risposta – non riguarderebbe l’introduzione di barriere all’entrata di prodotti “fisici” statunitensi, quanto l’introduzione di vincoli e/o di maggiori costi per le imprese statunitensi (a partire dalle Big Tech) leader nei servizi.

L’Anti-Coercion Instrument come risposta alle tariffe di Trump
Ursula von der Leyen, che su questo punto ha l’appoggio di molti Paesi UE fra cui Francia e Germania, ha già minacciato prima ancora del “Liberation Day” una risposta forte alle “tariffe” di Trump, con il possibile ricorso all’Anti-Coercion Instrument (ACI), uno strumento giuridico messo a punto a fine 2023 (all’epoca in chiave anti-cinese), che – se approvato a maggioranza qualificata – permette il varo di misure molto forti quali la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale e l’inibizione alle imprese del Paese che sta esercitando una “coercion” a partecipare a tutte le gare pubbliche, dell’UE o dei suoi 27 Paesi.
Pur non essendone in ogni caso ipotizzata una concretizzazione immediata, alcuni Paesi – e a quanto sembra anche il nostro – ritengono che la sola approvazione del ricorso all’ACI possa allontanare la possibilità di aprire una trattativa.
Le Big Tech, in particolare, si vedono come le vittime sacrificali di questo scontro e (dopo le espressioni di amicizia iniziali) stanno premendo su Trump perché prenda un atteggiamento più moderato nei riguardi di un’area che rappresenta un mercato di primaria importanza: senza successo, almeno per il momento.
La posizione del governo italiano è particolarmente difficile, perché da un lato l’Italia – con il suo grande debito – ha bisogno della UE e dall’altro perché il mercato US è di notevole rilevanza per molti settori del Made in Italy che vivono in larga misura sull’export.