Il mercato dei servizi audiovisivi online, che stava già conoscendo una fase di sensibile diffusione, ha visto un’ulteriore, perentoria accelerazione per via della crisi generata dal Covid-19. Questa dinamica ha ulteriormente intensificato quella che oltreoceano viene definita la streaming war, con dinamiche che vedono operatori vecchi e nuovi impegnati in un incontro/scontro in cui convivono strategie di competizione e cooperazione, generalmente improntate alla massimizzazione del ricavo medio per utente.
Anche in Italia, questa “competizione cooperativa” sembra continuare a diffondersi, in attesa che il mercato raggiunga un’ulteriore maturità in termini di utenza e di servizi. Gli sforzi degli incumbent, nel frattempo, sembrano orientati da un lato a rafforzare l’offerta di servizi complementari a quelli più innovativi, così da preservare il più a lungo possibile i margini nel loro business tradizionale, e dall’altro a garantirsi una buona posizione anche nei nuovi segmenti di mercato.
Il mercato italiano dello streaming e l’effetto Covid-19
Il settore dei servizi audiovisivi in Italia è stato caratterizzato negli ultimi anni da un elevato grado di dinamismo.
Tuttavia, i tre principali incumbent (Sky/Comcast, Rai e Fininvest/Mediaset) generano ancora circa l’85% dei ricavi complessivi del settore (dati Agcom per il 2019). Se nella distinzione tra tv in chiaro e pay, a quest’ultimo segmento afferisce il 41% dei ricavi totali, (3,3 miliardi nel 2019), i servizi a pagamento sul web costituiscono ancora meno del 20% delle offerte di pay tv. Un valore che, d’altro canto, inizia ad assumere dimensioni importanti in termini assoluti e che lo scorso anno, quindi prima del lock down, aveva fatto registrare una crescita del 50%.
A livello di utenti, a fine 2019 Netflix aveva raggiunto quota 2 milioni di abbonati, mentre DAZN a giugno 2019 era accreditata di circa 1,3 milioni di abbonati (Fonte: Ovum). Now-TV (Sky) risultava a quota 550.000 a dicembre 2018, mentre la piattaforma Infinity (Mediaset) veniva accreditata da fonti interne di circa 750.000 abbonati. Per Tim Vision, che viene offerta a tutti gli utenti Tim, si stimava un numero di utilizzatori effettivi intorno alle 700.000 unità (cresciuti durante il lock down del 20%), mentre il servizio Prime Video di Amazon, che avrebbe circa 300.000 utenti attivi (Ovum), ne ha verosimilmente molti di più. Sono comunque numeri che vanno presi con le pinze: lo stesso Reed Hastings ha sottolineato che quelli riferiti alle registrazioni, in particolare, possono facilmente condurre a cifre distorte.
In piena pandemia è stata lanciata anche la versione italiana di Disney+, che ha ottenuto incredibili risultati a livello mondiale (55 milioni di abbonati in poco più di 8 mesi) e verosimilmente anche in Italia, stimati in oltre 500.000 unità dopo appena un paio di mesi dal kick-off. In generale, la pandemia ha impresso una robusta accelerazione alle trasformazioni già in atto nell’intero settore: in base ai dati GfK Sinottica, il tempo dedicato alla fruizione di video on demand è aumentato del 73% rispetto al periodo pre-Covid. Inoltre, come riportano Bva-Doxa e l’Osservatorio del PoliMi, nei primi mesi del 2020 ben 26 milioni di italiani hanno avuto accesso ad almeno un servizio SVOD (acronimo di Subscription Video on Demand, cioè i servizi su abbonamento con canone periodico). Non a caso, il comparto dei contenuti online a pagamento è stato l’unico segmento del mercato audiovisivo non interessato dalla generale flessione economica.
Il vento del Nord (America) e l’innovator’s dilemma
Allargando lo sguardo oltreoceano, si osserva come il mercato dei servizi audiovisivi stesse affrontando già prima del Covid dinamiche piuttosto complesse. In un contesto già in fermento si sono mossi i due maggiori player “tradizionali”: Disney e NBCUniversal. Disney ha lanciato il proprio servizio a novembre, facendo segnare una serie di record in termini di abbonati raggiunti, con un servizio particolarmente attraente per il prezzo, più basso dei competitor, e per il catalogo.
Il nuovo servizio streaming di NBCUniversal, Peacock, è stato invece lanciato soltanto questo mese al grande pubblico statunitense, con 3 opzioni: una versione gratuita con la pubblicità e con un numero ristretto di contenuti, un pacchetto a 5$/mese con meno pubblicità e un terzo pacchetto senza pubblicità e con l’accesso all’intero catalogo di contenuti, offerto allo stesso prezzo del servizio via cavo (10$). Peacock è inoltre concesso gratuitamente ai titolari di abbonamenti via cavo di Comcast (controllante di NBCUniversal e, da fine 2018, anche di Sky Italia). La corrispondenza di prezzo tra piattaforma via cavo e online sembra indicare la volontà di presidiare il nuovo mercato con un proprio servizio, mantenendo nel contempo i propri clienti attuali. Secondo Brian Hindo, partner di Innosight (società co-fondata da Clayton Christensen, autore del libro “The Innovator’s Dilemma”), tale strategia è collocabile nel framework della disruptive innovation, secondo cui ogni innovazione porta con sé vantaggi e svantaggi.
Per quanto riguarda i video online, tra i primi vanno elencati il prezzo, i nuovi contenuti e la possibilità di fruirne in movimento. Tra gli svantaggi, minore qualità, specialmente nello sport (salvo gli accordi diretti con gli operatori di rete) e una pletora di offerte nella quale il consumatore medio non riesce a districarsi agevolmente. Secondo la teoria contenuta nel libro, poiché il ritorno sull’investimento nella nuova tecnologia viene percepito dagli incumbent come più basso, o i ritorni economici risultano inferiori, il salto tecnologico non avviene finché i vantaggi non superano gli svantaggi, e si crea una massa critica di adozione della nuova tecnologia. A quel punto il contesto muove rapidamente a vantaggio dei nuovi entranti i quali, avendo potuto sperimentare i nuovi modelli su nicchie di mercato cresciute progressivamente, sono più abili nel padroneggiare la nuova tecnologia. Consci di tale rischio, gli incumbent tendono quindi a presidiare il nuovo segmento attraverso la creazione di offerte complementari al proprio business (talvolta con società distinte), valutando bene il target e gestendo sapientemente le proprie risorse per evitare la “cannibalizzazione”.
Operatori ibridi e cross piattaforma
Nella streaming war, operatori con business differenti stanno adottando approcci differenti. A&T ha messo tutti i contenuti top nel pacchetto HBO Max, quindi posizionandolo come un possibile replacement della pay-TV tradizionale. Tuttavia, il prezzo è più alto dei competitor ($14,99/mese) e il core business aziendale è più variegato e focalizzato primariamente sulle tlc.
Amazon ha introdotto l’abbonamento a Prime Video nel costo di Prime, il servizio di spedizione. Negli Usa quest’ultimo contava 112 milioni di abbonati (dicembre ’19), mentre gli utilizzatori di Prime Video erano 26 milioni nel 2018, che potrebbero arrivare a 56 milioni entro il 2022. Questo modello di business, che considera il servizio video come un add-on rispetto alle spedizioni, potrebbe portare dei cospicui vantaggi. Il bouquet prevede anche la possibilità di abbonarsi a canali premium (quali HBO, Showtime, Starz, CBS All Access e Cinemax) e di acquistare o affittare contenuti specifici, candidando quindi Amazon a possibile piattaforma unica “di fatto”, capace progressivamente di attrarre i pacchetti di contenuti offerti dai vari operatori.
Anche la strategia di YouTube, versione pay, tende all’accorpamento: dopo gli accordi prima con Discovery e con CBS-Viacom, il servizio è stato focalizzato su un target di fascia alta ($65/mese). Il servizio può vantare oltre 2 milioni di utenti, vicini ai risultati dei suoi più diretti competitor Hulu Plus Live TV (3,3 milioni di abbonati, 55$/mese) e SlingTV (2,3 milioni, 45$/mese). Apple TV+ dovrebbe aver raggiunto una quota tra i 2,6 e i 2,9 milioni di utenti (Fonte: Digital TV Research). Apple non sembra considerare il proprio servizio una macchina da profitti, piuttosto un complemento per chi acquista i prodotti Apple.
Netflix resta il leader
Presente in 190 paesi, nel secondo trimestre del 2020 Netflix ha raggiunto l’impressionante quota di 192,95 milioni di utenti (+ 15,8 milioni nel 1Q e +10,09 milioni nel 2Q). La fetta più grande arriva dai mercati esteri, in particolare dal segmento EMEA, passato da 23,1 milioni del 2017 ai 61,48 milioni attuali. Stati Uniti e Canada, in cui la società vanta circa 72,9 milioni di abbonati, rappresentano ancora le aree che fruttano gli ARPU (acronimo di Average Revenue Per User, che indica i ricavi medi per utenti) mensili maggiori: a fine giugno erano $13,25, a fronte dei $10,5 raccolti nell’area EMEA, dei $8,96 nella regione Asia-Pacifico e dei $7,44 in America Latina. Valori che, alla luce di quanto detto sopra, possono costituire una base di riferimento per le strategie di contenimento degli incumbent.
La coopetition italiana
In Italia la diffusione del video online sembra evolversi nell’ottica di una competizione cooperativa. Sul terreno della pay-TV classica, già prima del lockdown l’uscita di Premium e l’accordo tra Mediaset e Sky avevano fatto convergere l’offerta verso un unico operatore che, parallelamente, era stato sfidato da operatori “disruptive” sia sul fronte di film e serie (Netflix), sia su quello dello sport (DAZN). In questo caso, la strategia di risposta dell’incumbent è avvenuta su 3 livelli. In primo luogo, Sky ha puntato sull’integrazione della propria offerta tradizionale con il servizio online Sky Go, brandizzato e apertamente improntato alla complementarietà con il servizio satellitare. In secondo luogo, ha lanciato una propria offerta “disruptive”, Now TV, separata anche nel brand, con pacchetti di Sky a prezzi molto più vicini a quelli dell’abbonamento satellitare e cataloghi simili ma non equivalenti. In terzo luogo, ha stretto accordi diretti con gli “innovatori” per integrarne i contenuti nella propria piattaforma o nel proprio bouquet: a tal fine ha lanciato la piattaforma Sky Q, inglobato l’offerta di Netflix, DAZN, Infinity e Disney+ (da marzo 2021), e stretto un accordo con DAZN per un canale sulla propria piattaforma satellitare.
Più recentemente, Sky Italia ha aggiunto un quarto livello, diventando anche operatore di rete tramite partnership con l’operatore wholesale Open Fiber e mantenendo attiva anche la precedente collaborazione con Fastweb (al netto degli sviluppi futuri sulla scorta della nascente società della rete).
Se da un lato questa espansione pone Sky in maggiore competizione con TIM, dall’altro si osserva una nuova collaborazione tra i due operatori, con l’offerta di un pacchetto Sport di TIM a 29,90 euro al mese che include l’accesso ai canali di Now TV e all’app di DAZN, ad ulteriore conferma dei molteplici accordi in chiave di “coopetition” che stanno prendendo corpo nel mercato audiovisivo italiano. Lo stesso accordo tra Sky e DAZN può essere letto in questa cornice. Parafrasando nuovamente Clayton Christensen e il dilemma dell’innovatore, la coopetition determina benefici sia per gli operatori disruptive, che si affacciano alla più ampia platea offerta dagli incumbent, sia per questi ultimi, che limitano l’effetto sostituzione. Il tutto continua finché entrambi massimizzano il proprio ARPU.
Integrazione o sostituzione?
Benché la crisi della tv via tradizionale sia paventata ormai da anni, gli incumbent continuano a mostrare di saper reagire all’ingresso delle imprese disruptive con soluzioni eterogenee, come presidiare i nuovi segmenti con un’offerta complementare e minimizzando al contempo l’effetto di cannibalizzazione ed emorragia dei propri utenti.
Abbonati TV agli operatori multichannel e a Netflix negli USA (fonte: Variety)
Pur tenendo presente che il mercato audiovisivo italiano è solo parzialmente comparabile a quello statunitense (la penetrazione della pay-tv tradizionale è molto più elevata negli Usa), è verosimile che una dinamica analoga si manifesti anche in Italia, grazie a strategie sempre più raffinate di complementarietà.