la polemica

Il Museo degli Uffizi e NFT, ora la paura non blocchi l’innovazione

Il Museo degli Uffizi di Firenze ha provato a vendere l’opera Tondo Doni in versione NFT ma ha subito uno stop dal ministero. Il problema è nel contratto che lega le parti. Ora però sarebbe un errore bloccare l’innovazione tecnologica in sé, per paure di retroguardia

Pubblicato il 31 Mag 2022

Riccardo Berti

Avvocato e DPO in Verona

Franco Zumerle

Avvocato Coordinatore Commissione Informatica Ordine Avv. Verona

nft uffizi tondo_doni_

Il Museo degli Uffizi di Firenze da qualche anno a questa parte si è distinto per una gestione che potremo definire “frizzante” sotto la guida di Eike Schmidt, specie a livello comunicativo; in questo contesto sperimentale, che passa per visite di influencer e personaggi dello spettacolo (l’ultima in ordine di tempo Dua Lipa), si inserisce un interessante esperimento di cessione di un’opera del museo sotto forma di NFT.

2022-05-25 FIRENZE - CAOS NFT UFFIZI, MIC FRENA SU ACCORDO PER 40 OPERE

2022-05-25 FIRENZE - CAOS NFT UFFIZI, MIC FRENA SU ACCORDO PER 40 OPERE

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Nft agli Uffizi di Firenze: in principio fu il Tondo Doni

L’opera scelta per dare avvio a questo mercato digitale dell’arte museale è stata il Tondo Doni, di Michelangelo, celebre opera del 1504-1506 che rappresenta la Sacra Famiglia.

La prima riproduzione digitale del Tondo Doni (prodotta in serie limitata) è stata venduta per € 240.000 ancora nel maggio scorso, consentendo al Museo degli Uffizi di incassare € 70.000 (il 50% del ricavo netto).

Gli Uffizi avevano un accordo con l’azienda che aveva digitalizzato il Tondo Doni (Cinello) per procedere alla vendita di queste serigrafie digitali di altre 40 opere, ed anche altri musei (tra cui ad esempio la Veneranda Biblioteca Ambrosiana) avevano aderito all’iniziativa.

Tondo Doni - Michelangelo

Tondo Doni - Michelangelo

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Cosa viene venduto come NFT agli uffizi

Sebbene moltissimi colleghino la vendita del Tondo Doni ad un NFT, va precisato che in realtà la “registrazione” della cessione dell’opera digitale su blockchain non è che una piccola parte dell’operazione proposta dall’azienda Cinello agli Uffizi (e ad altri musei italiani).

In buona sostanza la Cinello lavora in questo modo:

  • realizza una dettagliata riproduzione digitale dell’opera venduta (definita serigrafia digitale), in scala 1 a 1;
  • protegge questa riproduzione digitale con una tecnologia proprietaria (che sul loro sito viene definita DAW, ovvero Digital Art Works, sottoposta a brevetto in vari stati) che di fatto associa alla riproduzione un identificativo univoco e una chiave crittografica, impedisce la riproduzione bit a bit della digitalizzazione e consente la gestione dei certificati via app;
  • produce un supporto hardware per ospitare la riproduzione (una cornice digitale);
  • ottiene un certificato di autenticità della riproduzione da parte del Museo che ha in consegna l’opera;
  • certifica su blockchain (la blockchain di Ethereum con NFT) il passaggio di proprietà dell’opera sfruttando l’identificativo generato con il sistema DAW;
  • consegna al cliente finale il supporto contenente la riproduzione, i certificati e le varie chiavi per dimostrare il possesso della stessa.

La creazione di un token NFT è quindi solo un passaggio, nemmeno tanto centrale, della complessa procedura proposta dall’azienda Cinello, che si concentra piuttosto sull’offrire al compratore un qualcosa di tangibile che si interfaccia con un contenuto tecnologico teso a garantire l’unicità del prodotto.

Stando a quanto si apprende da fonti di stampa, la Cinello propone di dividere i ricavi netti con il Museo (che di fatto viene “pagato” per la concessione di una riproduzione e per il rilascio del certificato) al 50%.

Le spese per il procedimento di digitalizzazione però sono molto significative e nel caso del Tondo Doni ammontano ad € 100.000.

Quidi con l’opera venduta a 240.000 € sono 70.000 € ad arrivare nelle casse del museo.

Lo stop del Ministero agli Uffizi per gli NFT

Di fronte a questa prima cessione non si è fatta attendere la reazione del Ministero della Cultura, che infatti risale ancora all’anno scorso, con il direttore generale dei Musei del Ministero della Cultura, Massimo Osanna, che ha diramato una circolare chiedendo di non stipulare né rinnovare contratti con la società partner degli Uffizi per la digitalizzazione di opere museali che costituiscono beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica.

Il Direttore, nella circolare, avrebbe anche anticipato la creazione di una commissione per individuare linee guida in materia.

Alla base della decisione del Ministero vi sono due ordini di critiche nei confronti del hanno coinvolto l’operazione del Museo degli Uffizi, ovvero:

  • l’aspetto economico e di procedura: l’azienda che ha venduto il Tondo Doni, infatti, non è dovuta passare per una procedura pubblica, divide giusto mezzo i ricavi netti e “alleggerisce” il corrispettivo da retrocedere al museo presentando spese molto ingenti (per il Tondo Doni si parla appunto di € 100.000 quale corrispettivo per la digitalizzazione dell’opera);
  • l’aspetto della tutela dei diritti sul bene e il pericolo di una loro cessione, pur limitata al mondo digitale.

Ad oggi quindi i vari musei italiani si sono astenuti dallo stipulare/rinnovare l’accordo con quest’azienda, la Cinello (quello con gli Uffizi ad esempio è scaduto a dicembre 2021), raffreddando così di fatto l’entusiasmo istituzionale per la digitalizzazione dell’arte museale, forse per sempre visto il generale raffreddamento dell’interesse per il settore degli NFT (sintomatico in questo senso il tentativo di rivendere l’NFT legato al primo tweet di Twitter, pagato originariamente 2,9 milioni di dollari e che nell’aprile 2022 ha faticato a raccogliere offerte per 25.000 dollari).

Serve uno studio migliore per i musei che si avventurano sugli NFT

Se il Ministero ha probabilmente fatto bene a intervenire per bloccare una centralizzazione verso un unico soggetto della digitalizzazione del patrimonio museale italiano, per di più con tratti contrattuali in chiaroscuro, è anche vero che quello ministeriale avrebbe dovuto essere uno stop seguito da una più ponderata (ma rapida) ripartenza, con uno studio agile della materia e direttive da emanare in breve tempo per non perdere l’onda di un fenomeno di sicuro interesse economico per la produzione culturale italiano oltre che di marketing positivo specie verso le fasce di popolazione più giovani.

La Commissione istituita da Osanna non ha però ancora individuato le linee guida promesse e il fenomeno tecnologico ormai si è raffreddato (quando e se risorgerà, verosimilmente, lo farà reinventandosi in certa misura, rendendo necessaria una nuova commissione, un nuovo studio e un nuovo blocco delle iniziative fino alla, programmaticamente tardiva, studiata e sicura soluzione del Ministero).

Se poi dal punto di vista economico le preoccupazioni del Ministero sembrano legittime (sebbene la Cinello proponesse un percorso difficilmente replicabile e oggettivamente interessante proprio perché oggetto di brevetto), e sono condivisibili le proposte di sottoporre ad evidenza pubblica le procedure per l’affidamento di questi servizi nonché i dubbi circa la concorrenzialità del prezzo offerto dalla Cinello, risultano invece più difficili da giustificare le preoccupazioni del Ministero con riguardo al rischio di perdere il controllo del patrimonio artistico italiano.

I “pericoli” degli NFT

La tecnologia NFT (nonché quella proprietaria proposta da Cinello) non comportano infatti di per sé alcun rischio quanto al trasferimento di diritti relativi alle opere o alla loro riproduzione.

Così come l’ente che ha in gestione un’opera può consentirne (dietro corrispettivo) la riproduzione per fini commerciali, lo stesso ente deve poter concedere la riproduzione digitale del bene ai medesimi fini.

Gli NFT sono infatti una tecnologia sostanzialmente neutrale rispetto alla proprietà e al diritto d’autore, trasferendo un semplice riferimento univoco ad un file proveniente da un account affidabile (di solito riferibile all’autore dell’opera) e a sua volta trasferibile consentendo sempre di risalire (attraverso la blockchain) all’account di origine permettendo così di essere certi della provenienza del token.

La tecnologia DAW allo stesso modo pare concentrarsi esclusivamente sulla riproduzione creata (come se si trattasse delle stampe delle opere che vengono vendute, su licenza, nei negozi adiacenti ai musei), senza intaccare i diritti sull’opera.

L’aspetto tecnologico non dovrebbe quindi destare preoccupazione se non per un infondato pregiudizio nei confronti di quest’avanguardia artistico/informatica.

Il problema è nel contratto per gli NFT

È solo nel contratto che lega le parti che possono nascondersi delle insidie, ma si tratta, di fatto, di un contratto come un altro e se sono regolati con chiarezza i contorni e i limiti della cessione non possono crearsi dubbi circa una non voluta perdita di controllo del bene pubblico.

Da questo punto di vista alcune fonti di stampa riportano una clausola che desta effettivo allarme nel contratto fra Uffizi e Cinello, che fa riferimento all’impegno del museo a non pregiudicare il valore commerciale dell’opera digitalizzata, clausola che, sebbene non accompagnata da un’esclusiva, se fosse davvero formulata come riportato dalla stampa creerebbe non pochi problemi potendo aprire alla Cinello la strada per contestare future cessioni dell’opera (sia in formato digitale che in altro formato) perché pregiudizievoli per il suo business.

NFT e beni culturali, il quadro normativo da conoscere

È bene ricordare che gli enti che hanno in gestione i beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica italiani possono, a determinate condizioni, concederli in uso individuale o in uso strumentale, prevedendo dei corrispettivi salvo alcuni casi (ad esempio le riproduzioni effettuate senza scopo di lucro).

Secondo il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, inoltre, è consentita la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro (art. 108 D.Lgs. 42/2004).

Per questo motivo Cinello ha predisposto dei sistemi per evitare la riproduzione delle opere cedute, così da tutelare il cliente finale da utilizzi impropri dell’opera.

É appena il caso di precisare che la scelta italiana è molto diversa da quella, ad esempio, adottata in Francia dove la riproducibilità non “invasiva” (che comporta contatto con l’opera) entro certi limiti è libera per le opere di pubblico dominio (perché non coperte da diritto d’autore), con lo scopo di favorire la diffusione della cultura.

Nel caso degli NFT (se il Ministero avesse lavorato per consentire agli enti gestori di approfittare di questo trend tecnologico) è evidente che la scelta italiana, accentrando il controllo dei beni culturali, avrebbe premiato le amministrazioni creando quella scarsità (basata sulla necessità di chiedere autorizzazione e pagare un corrispettivo) necessaria per far fiorire il mercato degli NFT.

Il futuro (nebuloso) del connubio fra NFT e patrimonio culturale italiano

La forza del fenomeno cultural-tecnologico degli NFT è stata quella di creare valore dove prima non c’era, con molti soggetti in possesso di beni di fatto invendibili (pensiamo ancora al primo tweet della piattaforma Twitter) che d’un tratto acquistavano valore solo per la possibilità di certificarne provenienza ed unicità.

Cavalcare quest’hype per digitalizzare il patrimonio culturale italiano (e monetizzare di conseguenza) era una ghiotta occasione ed è davvero un peccato che se ne sia approfittato così timidamente.

Veder venduto un NFT del Colosseo non deve destare preoccupazioni di sorta circa la possibilità (assurda) che l’acquirente si presenti a Roma pretendendo di occupare il suo monumento simbolo, in quanto la tecnologia NFT è innocua specie se sono ben ribaditi contrattualmente i margini e i limiti della cessione.

Pare invece che la diffidenza della pubblica amministrazione verso il fenomeno NFT abbia nuovamente bloccato un interessante fenomeno in principio di sviluppo e dalle potenzialità davvero interessanti.

Basti pensare, a testimonianza delle potenzialità del connubio fra arte museale e blockchain, che su OpenSea (uno dei principali marketplace di NFT) sono molteplici le occorrenze e i tentativi (questi sì, illegali) di vendere opere del Museo degli Uffizi e digitalizzazioni varie di monumenti italiani.

NFT e beni culturali, ripartiamo con attenzione

Se era giusto ripensare le modalità di affidamento di questi servizi, rivedere gli aspetti patrimoniali e calibrare correttamente la contrattualizzazione, è sbagliato dormire sugli allori di un fenomeno tecnologico promettente lasciandolo sfiorire senza approfondire in maniera tempestiva e approfittarne.

Il legislatore italiano, così geloso (e a ragione) del proprio impareggiabile patrimonio culturale, finisce quindi per perdere occasioni per l’ennesima titubanza verso il mondo tecnologico che invece è davvero sensibile ad un connubio e ad una ibridazione fra arte, tradizione e tecnologia.

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