Nonostante le difficoltà che l’implementazione del trattato AfCFTA (African Continental Free Trade Area) sta incontrando e che di fatto lo vede ancora in una fase embrionale, a prescindere dagli annunci trionfalistici che spesso ne danno anche gli “africanisti” italiani, è un dato di fatto che il commercio interno del Continente stia crescendo e a percentuali di tutto rispetto.
Il panorama commerciale africano attuale
Si parla di una crescita del 32% rispetto al 2018 (da considerarsi anche alla luce di due anni di pandemia che hanno rallentato la crescita mondiale), mentre gli scambi fuori dall’Africa sono cresciuti nello stesso periodo del 18%.
Un’Africa in crescita e lo rappresentano anche il numero e dimensioni delle grandi aziende che hanno il proprio quartiere generale nel Continente: secondo McKinsey infatti ormai sono ben 345 le società che superano il miliardo di dollari USA di ricavi annui.
A testimoniare la crescita è stato anche il Forum dei CEO africani (Africa CEO Forum) che si tiene ogni anno a Kigali (Ruanda) nel mese di maggio, e dove si incontrano uomini di affari e politici per discutere sulle prospettive che riguardano il Continente.
Da quel che è emerso forti sono gli investimenti transfrontalieri che vanno dalla cosmesi alla raffinazione nello zucchero, alla creazione di raffinerie petrolifere come ad esempio in Nigeria (che esporta il greggio per poi importare i carburanti raffinati).
L’aumento degli scambi interni nel Continente
L’aumento degli scambi interni è un dato importante se si pensa che spesso anche all’interno di comunità economiche quali l’East Africa Community, le guerre commerciali, i divieti d’importazione e i dazi la fanno da padroni, basti ricordare le continue contrapposizioni tra Kenya e Uganda che pure confinano insieme. Di questi giorni è l’annuncio della nuova composizione tra i due stati sugli scambi interni, scambi che – deve essere rilevato – spesso sono ostacolati dall’utilizzazione di diversi standard, quali quelli alimentari, che portano a sospendere – ad esempio – l’importazione da parte del Kenya di cereali prodotti dall’Uganda a causa della contaminazione da aflatossine per poi riprendere ad aprire le dogane quando la fame prevale sulle esigenze sanitarie.
Buy Local: una nuova affermazione dell’orgoglio africano
Buy Local: una nuova affermazione dell’orgoglio africano e che non si riferisce, come spesso si pensa al mero folklore africano dei prodotti tradizionali, ma anche a quelli ad alta tecnologia.
Partito come slogan dal Sud Africa si è diffuso a tanti settori e ai vari stati.
E così solo pochi giorni fa Safaricom Ethiopia (detenuta dalla keniota Safaricom) ha annunciato con orgoglio l’acquisto di 13 torri di telecomunicazione interamente costruite in Etiopia da una società cino-giapponese (si Cinesi e Giapponesi insieme a dimostrare che negli affari le contrapposizioni geopolitiche spesso sono annullate dallo spirito pragmatico degli uomini d’affari).
La notizia merita rilievo anche in considerazione del fatto che l’Etiopia è un mercato ancora protetto e sottoposto a direzione statale, dove sino a poco tempo fa a dominare il settore delle telecomunicazioni in un regime di monopolio era la società Ethio Telecom, detenuta dallo stato.
L’apertura alla società keniota in un tale mercato è sintomatica di un nuovo clima delle relazioni tra gli stati africani.
Il calo degli investimenti esteri diretti (FDI)
Essi rimangono importanti, ma sono in decrescita. Se nel 2021 essi ammontavano a circa 80 miliardi di dollari USA, essi sono scesi a 48 miliardi nel 2023.
Tra le varie cause sicuramente hanno inciso le difficoltà economiche interne dei paesi occidentali, ma anche probabilmente l’instabilità politica a causa di colpi di stato (ben 6 colpi di stato in due anni) che in Stati quali il Niger sono state seguite da un generale clima di crescente avversione nei confronti delle nazioni occidentali, la crescente volatilità dei cambi e l’alta inflazione.
Non a caso Société Générale sta dismettendo le sue partecipazioni in Marocco ed è uscita da nazioni quali il Ciad e la Mauritania.
La stessa Cina sembra avere già rallentato la sua attività d’investimento in Africa negli ultimi anni, considerando anche le difficoltà dei paesi finanziati a rimborsare i finanziamenti ricevuti nonché le criticità proprie interne alla Cina stessa legate un modello economico che sembra mostrare le prime crepe.
La crescita del settore digitale in Africa
La crescita degli scambi commerciali si evidenzia anche in aspetti che possono sembrare non immediatamente legati, ma che sono sintomi di un’economia in crescita su solide basi di sviluppo.
E così mentre l’asiatica Radysys Corporation annuncia di sostenere lo sviluppo del 5G in Ghana, Orange e Amazon implementano l’AWS Wavelenght, un software mirato alla gestione e l’archiviazione dei dati per il Marocco e il Senegal.
Nel contempo l’autorità regolatoria nigeriana ha rilasciato diciotto nuove licenze per la concessione di prestiti in via digitale, così portando gli operatori fintech di prestiti a ben 284 unità, forse nel tentativo di supplire con la leva dell’indebitamento privato la crescente crisi economica che sta affliggendo gli strati più poveri di un paese in transizione da un’economia sussidiata dallo Stato a un’economia a investimenti statali diretti ai settori che dovrebbero assicurare la crescita (educazione, salute, infrastrutture).
Il Piano Mattei e il digitale
Guardando a noi, un’effervescenza tale di iniziative concrete lascia un poco perplessi sui timidi passi del Piano Mattei sul tema del digitale che appaiono per il momento limitarsi a scambi di know how e non a costituire veri e propri investimenti, salvo che non si realizzi la connessione con cavi sottomarini che dovrebbe unire Tunisia e Italia per lo scambio dei dati annunciata di recente dal nostro governo.
L’impatto dell’inflazione e delle valute deboli
Se da un lato la crescita degli scambi interni lascia ben sperare sulla crescita del Continente, limitando la perdita della ricchezza legata ai vecchi scambi dove le materie prime uscivano dall’Africa per poi rientrare trasformate lasciando grande parte del valore aggiunto ai paesi trasformatori, di fatto l’Africa non sembra ancora gioirne.
Cresce infatti il malessere in vari stati africani legato alla perdita del valore di acquisto di salari già bassi ed è un fiorire di protesta dal Marocco alla Nigeria, con rigurgiti di nazionalismo come è avvenuto in Kenya con le proteste contro i commercianti cinesi, con un binomio rabbia e fame (Anger & Hunger) che imperversa tra gli strati più poveri delle popolazioni.
Prospettive future per il commercio africano
Ciò non esclude l’ottimismo, se l’orgoglio africano saprà superare i limiti che spesso si legano a piccoli egoismi, celati da proclami nazionalistici (si pensi ai visa ancora necessari per spostarsi tra i vari paesi e che sono stati superati solo in pochi stati ma anche ai tanti laccioli che spesso limitano gli scambi): il commercio interno potrebbe davvero costituire lo slancio necessario per uno sviluppo duraturo, dove il valore della trasformazione rimane all’interno se non dei singoli stati almeno del Continente. Un auspicio per gli africani e un monito per noi europei e in particolare per noi italiani che siamo a lungo vissuti sulla capacità di trasformazione e raffinazione della nostra industria. Un monito a noi stessi che dovrebbe spingerci a puntare sempre più sull’innovazione per assicurarci un ruolo primario in un mondo in rapido mutamento.