Ogni giorno miliardi di persone usano uno smartphone per scambiarsi messaggi di testo, immagini, messaggi vocali, link tramite app come Whatsapp, Telegram e Snapchat. Ogni utente di smartphone finisce prima o poi per installarsele tutte, perché ognuna comunica soltanto con i propri utenti; se ho un amico su Telegram, ho bisogno di Telegram e non posso scrivergli con Whatsapp. Sembrerebbe un’ovvietà, ma lo è davvero?
In realtà, le chat non hanno sempre funzionato così. Chi usa Internet da più tempo ricorderà i tempi in cui erano in uso sistemi di messaggistica aperti. IRC e Jabber, per esempio, potevano essere usati con molti diversi applicativi e molti diversi server; ognuno poteva scegliere quello che preferiva. Anche sistemi proprietari di singole aziende, come ICQ o AIM, ammettevano comunque la possibilità di altri client; esistevano programmi terzi che permettevano di usare un unico programma per tanti diversi sistemi di messaggistica in parallelo. Perché, dunque, oggi non è così?
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Il problema non è tecnico, ma economico
Non si tratta certo di un problema tecnico, e nemmeno di una incompatibilità di prodotti: tra Whatsapp e Telegram, probabilmente la differenza più significativa è il colore delle icone. Sarebbe senz’altro possibile introdurre un protocollo comune o un server “gateway” di traduzione che permettesse all’app di Whatsapp di parlare col server di Telegram e viceversa, in modo da poter inviare messaggi da un sistema all’altro, almeno per le funzionalità più comuni. Questa possibilità, però, dipende dalla singola app; alcune pubblicano il proprio protocollo e permettono lo sviluppo di client alternativi, mentre altre rifiutano qualsiasi interazione con il resto della rete.
Il motivo di fondo è economico, ed è legato al cambiamento nell’economia e nella cultura della rete che si è sviluppato a partire dalla prima bolla delle “dot com”, alla fine degli anni ‘90. Prima di allora, Internet non era un servizio di massa ed era sviluppata da una comunità tecnica relativamente ristretta, che poneva alla base il principio dell’interoperabilità tramite standard aperti. Secondo i padri di Internet, infatti, la possibilità di cooperare e di scambiare informazioni tra servizi diversi creava valore per tutti, più che se ognuno si fosse chiuso nel proprio angolo di rete da solo.
Nacquero così negli anni ‘80 e ‘90 servizi come l’email e il web, che tuttora sono aperti e interoperabili, pur con la crescita di grandi operatori dominanti che tendono a prendere il controllo della loro evoluzione. Tuttavia, chiunque oggi può offrire un servizio di posta elettronica o scrivere un programma di mail, e l’utente finale ha una scelta molto ampia sia di applicativi che di fornitori. Lo stesso per il web: grazie agli standard comuni, chiunque può sviluppare un sito web, o ospitare siti web, o scrivere un programma che acceda ai siti web.
Se oggi ci venisse detto che per accedere a un determinato sito si può utilizzare soltanto il browser del proprietario del sito e non altri, o che bisogna avere tanti browser diversi ognuno dei quali accede soltanto a un sottoinsieme diverso del web, ci sentiremmo defraudati; sarebbe chiaramente una scomodità inutile, funzionale soltanto alla difesa delle posizioni dominanti e degli interessi economici del proprietario di ogni fetta del web.
Eppure, questo è ciò che accettiamo per la messaggistica da smartphone e per i social media. Negli anni zero, infatti, le nuove startup della rete capirono che se fossero riuscite a creare un servizio innovativo e poi a chiuderlo alla concorrenza, bloccando gli utenti all’interno del loro giardinetto, avrebbero potuto creare posizioni di rendita di enorme valore, più di quello che avrebbero potuto fare cooperando con i loro potenziali concorrenti.
Gli svantaggi per gli utenti
In questo modo, inoltre, avrebbero costruito un rapporto di forza con i loro stessi utenti, che non avrebbero potuto passare a un servizio concorrente senza perdere i propri contatti e le proprie conversazioni; questo è un freno molto elevato. È senz’altro possibile, anche oggi, lanciare sul mercato una nuova app di messaggistica, ma – anche se l’app fosse migliore delle precedenti – è molto più difficile convincere gli utenti a provarla; e anche se un utente lo fa, se tutti i suoi contatti restano sulle app dominanti non ci sarà nessuno con cui parlare. Per lanciare sul mercato con successo una nuova app è dunque necessario convincere molti utenti ad adottarla in un breve lasso di tempo, cosa che è molto difficile a meno che non si possieda già una grande base di utenti in un altro servizio, o non si abbiano molti soldi da investire in promozione.
Grazie a queste posizioni di forza, le aziende di questo settore sono quasi sempre riuscite anche a far accettare agli utenti condizioni contrattuali che vanno a loro danno, come ad esempio la profilazione ossessiva delle loro attività online e l’uso dei loro dati a fini pubblicitari. Così sono nati gli ecosistemi chiusi di Facebook, Whatsapp e molti altri, ognuno dei quali impegnato a costruire un proprio silos in cui mantenere ben chiusi gli utenti.
Sono molti gli inconvenienti che questa situazione crea agli utenti, non solo in termini di impossibilità di scelta e di obbligo di accettare condizioni di servizio sconvenienti. Il semplice fatto di dovere riempire il proprio cellulare di molti applicativi sostanzialmente identici invece di uno solo implica un consumo inutile di energia e di risorse di calcolo, e accelera l’obsolescenza dei dispositivi. La dispersione delle conversazioni tra molte app fa perdere tempo e informazioni: a chi non è capitato di cercare disperatamente un vecchio messaggio di una determinata persona non riuscendo più a ricostruire in quale app e in quale gruppo era transitato? E se il client ufficiale non piace, o non è disponibile nella propria lingua o sul proprio dispositivo, o funziona male, non esiste la possibilità di sceglierne uno migliore, come purtroppo sa chi si trovi a usare Facebook su un portatile non di ultimissima generazione.
Le mosse della Ue
Dal punto di vista europeo, questa situazione ha inoltre un altro grosso problema: tutte le aziende dominanti in questi settori sono americane o al massimo cinesi. L’enorme fatturato pubblicitario di Facebook in Europa genera dalle nostre parti ben poche entrate fiscali, e viene quasi interamente portato in nazioni dalla tassazione molto più leggera e nella sede centrale in California. Per certi versi, il dominio americano e cinese in questi e altri settori dei servizi Internet e ICT è la causa di un’enorme perdita di ricchezza che lascia l’Europa per andare altrove: strategicamente, vi è un interesse pubblico europeo nel promuovere lo sviluppo di concorrenti basati nell’Unione, che possano creare qui i posti di lavoro e le ricadute economiche. Ma se i consumatori hanno scarse possibilità di cambiare app di messaggistica o di social networking, sarà molto difficile che nuove app europee possano prendere piede.
Per questo motivo, la Commissione Europea di von der Leyen sta lavorando su nuove regolamentazioni che limitino le posizioni dominanti delle grandi piattaforme Internet. Sul punto dell’interoperabilità, tuttavia, il dibattito è aperto: la prima bozza del nuovo Digital Markets Act pubblicata dalla Commissione lo scorso dicembre prevede un obbligo di interoperare solo per servizi collaterali come i pagamenti o l’autenticazione degli utenti, ma non per i servizi di messaggistica veri e propri.
Da più parti – sia europarlamentari di vari partiti, sia le rappresentanze dell’industria Internet europea, sia le associazioni per i diritti digitali – si è dunque chiesto di estendere l’obbligo di interoperabilità a chi, fornendo un servizio di messaggistica o più in generale un servizio di piattaforma su Internet, si trovi in una posizione dominante, definita in base al numero di utenti in Europa. L’industria stessa, in collaborazione con le agenzie di regolazione delle telecomunicazioni, potrebbe poi definire gli standard aperti da usare allo scopo, inserendo anche le eventuali salvaguardie sulla sicurezza e sulla protezione dei dati.
Il (semplice) principio dell’interoperabilità
Va infatti riconosciuto che il principio dell’interoperabilità è molto semplice, ma la sua realizzazione pratica richiede un impegno in termini di standardizzazione di protocolli, di terminologia, di funzionalità; un impegno che, nella tradizione di Internet, non dovrebbe essere assunto “top-down” ai governi, ma derivare dalla cooperazione dal basso delle aziende e degli sviluppatori, inclusi quelli di software open source e senza scopo di lucro.
Organizzazioni come IETF e W3C hanno una tradizione in tal senso, anche se nella pratica sono poi spesso dominate dalle stesse aziende che dominano il mercato dei servizi online, ed è quindi necessario anche garantire un accesso più forte a queste organizzazioni da parte delle comunità e delle aziende Internet europee. Tuttavia, l’esperienza già citata di servizi come email, web, o degli stessi protocolli di basso livello che trasportano i bit sulla rete, dimostra che tutto questo è ampiamente possibile.
L’Europa sconta un ritardo generazionale nello sviluppo di grandi aziende Internet, probabilmente dovuto a un insieme di fattori economici e culturali. Del resto, invece che un unico grande mercato nazionale come quello americano o cinese, l’Europa è un arcipelago di 27 nazioni con lingue e culture diverse, che produce molto più facilmente costellazioni di aziende nazionali di dimensioni più piccole, unite da alleanze e collaborazioni orizzontali, che grandi mega-corporation monolitiche. In questo scenario, l’idea di adottare standard aperti che permettono a una moltitudine di diversi operatori di interoperare senza problemi è molto più calzante che il sogno, spesso citato a sproposito, di competere con gli americani per rifare la Silicon Valley meglio della Silicon Valley.
Per vincere le forze dei monopoli di mercato è tuttavia necessario che l’interoperabilità sia imposta anche a chi, avendo già una posizione dominante, ha un forte incentivo economico a impedirla a ogni costo, e non la realizzerà mai se non costretto. Questa è la missione che si spera il Parlamento Europeo voglia cogliere, in modo che – come è già stato fatto con il GDPR – l’Europa, perso il treno di determinati servizi, assuma almeno la leadership nella definizione di regole migliori per difendere l’apertura e la concorrenza nella rete.