Delle tre aree d’azione mappate dal rapporto Draghi, l’innovazione è certamente la più decisiva per consentire all’Europa di aumentare i propri tassi di crescita e ridurre gradualmente il gap con Stati Uniti e Cina. E una parte importante dell’innovazione viene dalle tecnologie digitali. Come si evince peraltro da tre delle tantissime evidenze empiriche presentate nel rapporto.
Il recupero della produttività del lavoro europea rispetto a quella americana arrivò al suo picco nel 1995, allorché toccò il 95% di quella del partner transatlantico. Eravamo allora proprio agli albori della rivoluzione di Internet che l’Europa, come noto, ha saputo cogliere da fruitrice passiva più che da protagonista. D’altronde, all’inizio del XXI secolo sia negli Stati Uniti che nella UE le prime tre imprese a investire in ricerca e innovazione erano ancora compagnie automobilistiche e farmaceutiche. Dopo venti anni, in Europa non è cambiato nulla mentre negli Stati Uniti a primeggiare sono già da tempo aziende IT nate con la rivoluzione di Internet o che come minimo sono state in grado di cavalcarla. Infine, il rapporto ci dice che qualora si eliminasse il settore IT dal conteggio, le performance della produttività sulle opposte sponde dell’Atlantico negli ultimi decenni diventerebbero quasi identiche.
Le tre cause principali del gap di innovazione dell’Europa
Oltre alla raccolta di una estesissima base dati, raramente presente in un un’unica pubblicazione, il rapporto Draghi ha il pregio di non risparmiare critiche alle policy, provando a tracciare un percorso di rottura con quanto è stato fatto finora. A livello di Stati membri ma anche delle stesse istituzioni europee che gli hanno commissionato il lavoro. Ecco dunque, per esempio, le critiche sferzanti al programma Horizon Europe che con un budget settennale di circa 100 miliardi di euro finanzia la ricerca made in Europe. Senza dare tuttavia ritorni adeguati, a causa, tra gli altri fattori, di una dispersione dei fondi tra troppe voci, barriere burocratiche troppo elevate e una scarsa inclinazione al rischio.
La frammentazione dei fondi e delle legislazioni frena l’innovazione
Sono effettivamente questi i tre leitmotiv principali evocati da Draghi lungo tutto il suo rapporto per giustificare il gap innovativo accumulato negli ultimi decenni rispetto a Stati Uniti e Cina. Innanzitutto, la frammentazione, che limita la capacità dell’Europa di raggiungere quella massa critica di cui avrebbe bisogno per giocare la sua partita alla pari. Come osserva il rapporto, il sistema universitario europeo si colloca su un livello in media buono ma tra le prime cinquanta istituzioni di ricerca al mondo solo 3 sono europee contro le 21 statunitensi e le 15 cinesi.
Questa aurea mediocritas si ripropone anche nel settore privato e non viene controbilanciata bensì assecondata dalle iniziative comunitarie. Tra le quali Draghi ne loda esplicitamente soprattutto due nel campo delle tecnologie avanzate: il Cern, costituito nel lontano 1954, e il più recente programma Euro-HPC, stabilito nel 2018 per aumentare la capacità computazionale continentale.
Due esempi di messa a fattor comune di risorse europee e nazionali che hanno reso l’Europa leader a livello mondiale rispettivamente nella fisica delle particelle (anche se Draghi avverte dei pericoli per la leadership europea derivanti dagli annunciati investimenti cinesi nel campo) e nei super-computer.
Per questo, molte delle proposte contenute nel rapporto partono dal presupposto che l’unione fa la forza. Come poi questo avvenga può assumere modalità diverse, in maniera piuttosto pragmatica. Molto si è discusso della proposta contenuta nel rapporto di ricorrere a strumenti di debito comune o alla classica alternativa di dotare l’UE di risorse proprie adeguate ma molte delle proposte più interessanti vanno anche in altre direzioni, da una revisione e rilancio dei progetti di interesse comune (gli IPCEI) a programmi congiunti sulla competitività che diano vita a programmi di partenariato pubblico privato, finanziati in gran parte dagli Stati membri, a una riformulazione del programma della ricerca nel prossimo budget multiannuale che consenta ai Paesi che lo vogliano di aggiungere risorse nazionali, avvicinando quella massa critica che altrimenti rimane spesso esclusiva di Stati Uniti e Cina.
Non è però solo una questione di budget. Se il 30% di startup va via dall’Europa nel loro percorso di sviluppo e molte rimangono al palo o comunque non riescono a reggere il confronto competitivo il motivo è spesso nella difficoltà di doversi confrontare con una pluralità di legislazioni nazionali differenti, che di fatto limitano di molto il funzionamento del mercato interno, come già rilevato dal rapporto Letta pubblicato lo scorso aprile.
Le critiche di Draghi alla legislazione Ue sul il digitale
Ma il rapporto Draghi va oltre, non risparmiando critiche feroci alla stessa legislazione europea riguardante il digitale, molta della quale approvata nel primo mandato della Commissione europea a guida von der Leyen.
I freni dell’AI Act
Come quando afferma che “la posizione normativa dell’UE nei confronti delle aziende tecnologiche ostacola l’innovazione: attualmente l’UE ha circa 100 leggi focalizzate sulla tecnologia e oltre 270 enti regolatori attivi nelle reti digitali in tutti gli Stati membri. Molte leggi dell’UE adottano un approccio precauzionale, imponendo pratiche aziendali specifiche ex ante per evitare potenziali rischi ex post. Ad esempio, l’AI Act impone ulteriori requisiti normativi sui modelli di intelligenza artificiale a uso generale che superano una soglia predefinita di potenza computazionale, una soglia che alcuni modelli all’avanguardia già superano”.
Gli alti costi di compliance con il GDPR
Più avanti il rapporto attribuisce agli alti costi di compliance con il GDPR, il regolamento europeo della privacy, il minor uso medio di dati delle aziende europee rispetto alle controparti di altri continenti. Viene dunque proposta una revisione del quadro regolamentare che elimini eventuali sovrapposizioni tra GDPR e AI Act e chiarisca ambiguità esistenti. Più in generale, suggerisce l’istituzione di una nuova tipologia di impresa, ”l’impresa innovativa europea”, che consenta a quante abbiano i requisiti di accedere a un quadro giuridico armonizzato a livello UE e di poter aprire filiali in altri Stati membri senza dover costituire apposite entità giuridiche. Si propone poi l’istituzione di un brevetto unitario e un coordinamento europeo degli spazi controllati di sperimentazione (le cosiddette sandbox regolamentari previste ad esempio dallo stesso AI Act) riservati alle imprese innovative.
La scarsa propensione al rischio
Infine, sulla scarsa propensione al rischio dell’UE e dei suoi programmi Draghi fa un esempio numerico piuttosto evocativo. A fronte del budget di 4,1 miliardi di dollari dell’Agenzia statunitense per i progetti di ricerca avanzata nel campo della difesa (DARPA), ai quali si aggiungono 2 miliardi di dollari delle altre agenzie “ARPA”, il principale strumento messo in campo dalla UE per sostenere tecnologie radicalmente nuove a bassi livelli di maturità – lo strumento Pathfinder del Consiglio Europeo per l’Innovazione (EIC) – ha un budget annuale pari a 256 milioni di euro. Un po’ come giocare con il Real Madrid dei grandi campioni schierando i ragazzi della primavera. Tutt’al più si può sperare di perdere dignitosamente.
Le proposte settoriali sul digitale
Il rapporto approfondisce tra i 10 capitoli settoriali la digitalizzazione e le tecnologie avanzate, accanto a energia, materie prime critiche, settori energy-intensive, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, farmaceutica e trasporto. Anche se è significativo che, unico caso tra quelli considerati, nell’analisi dello stato dell’arte e nella presentazione degli obiettivi e delle proposte il settore venga poi spacchettato in tre: reti ad alta velocità/capacità, risorse computazionali e intelligenza artificiale e, infine, semiconduttori.
In premessa, il rapporto mette in luce la dipendenza dell’Europa dall’estero, che di fatto rende impossibile una declinazione accettabile della nozione di sovranità digitale. Prima di passare in rassegna i tre sotto-settori, viene presentato un solo grafico sufficientemente evocativo. La quota UE sul mercato globale ICT è diminuita dal 22% del 2013 al 18% del 2023. Nello stesso periodo, gli Stati Uniti sono passati dal 30% al 38%. Non si tratta solo di minore autonomia ma anche di mancati profitti. Il rapporto cita uno studio secondo il quale il 70% del nuovo valore creato nell’economia mondiale nei prossimi dieci anni sarà abilitato dal digitale. Il che vuol dire che le fette più grandi della torta spetteranno ai detentori delle tecnologie mentre gli altri si dovranno accontentare delle briciole.
La mancanza di scala frena sviluppo e investimenti nelle tlc
Una delle principali debolezze dei player tecnologici europei, secondo Draghi, sta nella mancanza di una scala adeguata per finanziare la ricerca e sviluppo ed effettuare gli investimenti necessari. D’altronde basti pensare alle decine di miliardi di euro spesi nell’ultimo anno e mezzo dalle big tech USA in data center e GPU per rimanere o diventare protagoniste nella corsa all’intelligenza artificiale.
Nel campo delle telecomunicazioni, la ricetta per raggiungere una maggiore scala e far recuperare margini agli operatori passa soprattutto attraverso tre strumenti: un alleggerimento della regolazione ex ante, un allentamento dei paletti antitrust (soprattutto per fusioni e acquisizioni cross-border e in cambio di impegni pluriennali finalizzati a maggiori investimenti e innovazione) e un’armonizzazione delle regole, in particolare per lo spettro frequenziale e la cybersecurity. Importanti anche le proposte volte a introdurre la possibilità per fornitori di servizi B2B di venderli liberamente in altri Paesi, con una speciale autorizzazione sulla base del criterio del Paese di origine, e a istituire scadenze temporali precise per il switch-off delle reti in rame in favore della fibra nel fisso e delle frequenze 2G nel mobile.
Corsa ai supercomputer: rafforzare il programma Euro-HPC
Rispetto alla capacità computazionale dell’Europa, in un raro scatto di apprezzamento verso politiche europee recenti, il rapporto come già detto elogia il programma Euro-HPC e propone di costruire sul suo successo per rafforzarlo, in particolare in due direzioni. Da un lato, occorre renderlo il più possibile funzionale all’addestramento e più in generale allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Dall’altro, le risorse computazionali vanno messe a disposizione del settore privato e in particolare delle startup innovative (con accordi finanziari che in cambio di future royalties, azioni o dividendi permettano il raggiungimento della sostenibilità finanziaria).
Il Piano per le priorità AI in dieci settori
Se sui supercomputer c’è qualche successo di cui andare fieri, il giudizio sulla competitività europea nell’intelligenza artificiale è decisamente sferzante, sia rispetto allo sviluppo che all’adozione delle tecnologie. Qui la proposta forse più nuova e ambiziosa contenuta nel rapporto è il lancio di un Piano per le priorità AI verticali europee per 10 differenti settori (automotive, manifatturiero avanzato e robotica, energia, reti di telecomunicazione, agricoltura, aerospazio, difesa, previsioni ambientali, farmaceutica, sanità). Il Piano prevede call e challenge nei diversi gradi di maturità tecnologica, sul modello del DARPA statunitense, all’origine di molti successi nel campo dell’intelligenza artificiale (per esempio nella guida autonoma). Alla base la condivisione di dati e di altre risorse tra differenti player, in deroga anche alla disciplina antitrust, con un sistema di governance che assicuri l’indipendenza da singoli interessi particolari. Il Rapporto punta molto anche sulle sandbox regolamentari, già previste dall’AI Act, chiedendo un’armonizzazione dei regimi nazionali che saranno introdotti, e più in generale una semplificazione delle regole, ad esempio derivanti dal GDPR, per imprimere una spinta decisiva all’innovazione made in Europe.
Cloud, la battaglia con gli Usa è persa
Sul cloud, il rapporto dà sostanzialmente per persa la sfida rispetto agli hyperscaler statunitensi e si immagina una collaborazione tra questi ultimi e, in particolare per i dati e le applicazioni più sensibili, soggetti europei che contribuiscano alla sovranità digitale europea. In questo senso, oltre a norme omogenee e obbligatorie a livello UE, si immagina una collaborazione rafforzata con gli Stati Uniti per la definizione di standard comuni che garantiscano un level playing field. Per quanto i semiconduttori, invece, le parole d’ordine sono soprattutto soldi, soldi e ancora soldi, sulla base di una nuova strategia UE in grado di finanziare l’innovazione, incentivi fiscali o grant per la ricerca e sviluppo e sostegno ai segmenti della filiera cruciali per raggiungere un grado adeguato di autonomia strategica.
Conclusioni
Come detto, il rapporto ha due pregi fondamentali. Innanzitutto, dà il giusto risalto al ruolo dell’innovazione, e delle tecnologie digitali in particolare, nel promuovere la competitività europea. Ne è un ulteriore esempio l’ampio cenno che si fa alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale nel capitolo sulla governance per ridurre gli oneri burocratici e aumentare l’efficienza amministrativa. In secondo luogo, non usa alcuna remora per criticare le politiche passate o anche attuali, come ad esempio Horizon Europe e la strategia per le competenze.
Dunque, è vero che dovrebbero essere messe in campo risorse straordinarie, fino a 800 miliardi l’anno tra fondi pubblici e privati, per invertire il declino degli ultimi trenta anni in tutte le aree toccate dal rapporto ma, aspetto meno eclatante ma altrettanto se non forse più significativo in vista della definizione del prossimo budget pluriennale UE, molto si può fare a bilancio invariato, orientandolo verso priorità più impattanti (come per esempio l’innovazione) ed evitando di disperdere i fondi verso mille rivoli. Le eventuali risorse aggiuntive, oltre che dal settore privato, possono peraltro venire direttamente dagli Stati membri, come nell’esempio degli IPCEI e dei Joint Undertakings, peraltro alla base dei principali successi di politica industriale UE degli ultimi anni, come per l’appunto l’Euro-HPC. Dunque, al di là delle polemiche e del fuoco di fila di alcuni, Draghi e il suo rapporto non danno scuse per evitare di immergersi in una quantità elevatissima di filoni sui quali lavorare a geometrie variabili nei prossimi anni, in ogni condizione possibile. Non farlo, di fronte all’evidenza dei numeri espressa, sarebbe il delitto più grande.