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Italia: le politiche fiscali miopi che fanno scappare gli investitori



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L’Italia cerca di attrarre investimenti esteri in settori chiave come semiconduttori e moda, ma le politiche fiscali erratiche creano incertezza. La mancanza di coerenza politica e l’assenza di un robusto sistema di venture capital limitano lo sviluppo economico e l’innovazione, scoraggiando investitori internazionali

Pubblicato il 18 ott 2024

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione



made in italy (1)

Inseguiamo le grandi aziende perché investano in Italia, dai semiconduttori, alle compagnie aeree, all’auto, all’acciaio, alle telecom, alla moda, e allo stesso momento e con lo stesso governo scoraggiamo gli investimenti con politiche fiscali erratiche che creano incertezza.

I problemi della mancanza di coerenza politica

In questo momento dell’anno e quest’anno forse con più difficoltà, il governo fa i conti. Gli osservatori miopi accusano l’Europa dell’austerità, come se il nostro debito pubblico, affidato alle mani deboli dei nostri governanti (di qualunque colore politico) non avesse bisogno di binari a cui ancorarsi e come se la sanzione dei mercati, assai più severa di quella dei vituperati “burocrati di Bruxelles”, non fosse in agguato.

La favola dell’austerità, come la ha definita un acuto osservatore, ha portato nei 7 anni precedenti la pandemia 592 miliardi di debito aggiuntivo, ossia un quarto di tutto il debito cumulato a fine 2019.[1]

Come spesso accade, si cerca di raccogliere soldi da pochi soggetti con elevata capacità contributiva, come le banche, le aziende energetiche, quelle digitali. Le motivazioni: realizzano profitti elevati, spesso sono multinazionali con scarsa presenza territoriale, sono pochi soggetti e quindi comportano basso rischio elettorale.

Ma sono verisimili questi motivi? La domanda non è se sono giusti, questione complicata, ma se le ragioni della scelta si fondano su dati e su osservazioni dei comportamenti e della realtà. Sulla prima motivazione, ossia che le grandi imprese della finanza dell’energia e del digitale facciano grandi profitti, si può oggi dire che essa è realistica per tutti e tre i settori citati. Ma non è sempre così, non è stato così nella grande recessione, e non è stato così durante la pandemia, quando la divergenza dell’andamento dei profitti è stata massima, con le aziende digitali che scoppiavano di salute mentre le altre chiudevano i conti in rosso. Se poi si parla di tassazione degli extraprofitti o comunque di interventi una tantum, la connotazione di straordinarietà rende imprevedibile l’intero sistema di tassazione.

Forse chi ripiega su queste forme di tassazione straordinaria pensa che l’elettore dimentichi o che il mercato dimentichi. Si tratta di una illusione, poiché l’incertezza crea un alone di sospetto permanente negli investitori nei confronti del paese e di sfiducia negli elettori. Sulla seconda ragione, che sono multinazionali viene da sorridere essendo le multinazionali il cuore della nostra economia globalizzata. La terza ragione, che il rischio elettorale di colpire le grandi aziende sia basso, è avulsa dalla realtà, dal momento che la capacità di lobby e l’influenza sui media delle grandi aziende ha un impatto molto più elevato sull’elettorato di qualsiasi associazione di consumatori o associazione di piccole imprese.

La trappola della web tax

La politica non è capace di affrontare il problema del riequilibrio dei conti con misure ordinarie, con costanza nel tempo e senza scossoni, ma deve continuamente inseguire le necessità di cassa variando le aliquote della tassazione e introducendo tasse straordinarie.

Un esempio di questo comportamento ondivago destinato a penalizzare lo sviluppo di un settore decisivo per il nostro futuro[2], sono i provvedimenti recenti decisi per fare cassa. Per la web tax vengono eliminate le soglie di esenzione, mentre la tassa sulle plusvalenze derivanti dagli investimenti in criptovalute è portata al 46%.[3] Ma la web tax, se non viene adottata a livello internazionale, penalizza l’industria dei paesi che la introducono e noi siamo un paese arretrato, dal punto di vista digitale. Mentre l’aliquota del 46%, quasi espropriativa, non fa che contribuire a complicare ulteriormente la giungla della tassazione sui rendimenti degli investimenti che caratterizza il nostro Paese e che rende farraginoso e inefficiente il nostro mercato finanziario.

Gli strumenti per ridurre il disavanzo ci sono: riduzione dell’evasione, riduzione dei costi inutili della pubblica amministrazione, dove quelli derivanti dall’abnorme complessità delle procedure amministrative e dei controlli rappresentano non solo opportunità di riduzione della spesa, ma anche razionalizzazione e sveltimento dei processi amministrativi.

Se, invece di affrontare con gli strumenti ordinari la razionalizzazione dell’amministrazione, si introducono nuovi balzelli e si alzano le tasse vigenti, si ottiene un rallentamento della crescita dell’economia e un allontanamento degli investitori, in particolare di quelli internazionali.

La gravità della perdita di investitori esteri

La gravità della perdita di investitori esteri, come dimostrano i casi di Italsider e di Stellantis, è enfatizzata dall’esiguità del nostro capitalismo domestico, che si esprime in un mercato finanziario lento, farraginoso e vecchio. Ma favorevole, secondo la scuola Mediobanca dei tempi di Enrico Cuccia, al “salotto buono” del capitalismo italiano, che oggi non esiste più, ma che ha lasciato una impronta indelebile nella struttura finanziaria del paese. La scomparsa di aziende come Olivetti, e poi il ridimensionamento drammatico di Telecom, Pirelli, Italsider, Fiat e i passaggi del controllo nel settore della moda, sono determinati dalla fragilità del nostro sistema finanziario asfittico, da una borsa controllata da pochi soggetti, dalla mancanza di fondi pensione importanti, da una scarsa “pubblicizzazione” in senso anglosassone del capitale di controllo dei gruppi di maggiore dimensione. L’azienda familiare raggiunge una dimensione critica e passa un travaglio drammatico nel passaggio generazionale, senza poter contare sul sostegno di un sistema finanziario e borsistico in grado di assorbire, gestire ed evitare gli scossoni delle crisi degli assetti familiari.

L’innovazione e il ruolo del venture capital: i casi scuola di Amazon e Google

Amazon e Google all’inizio della loro storia hanno penato per lunghi anni prima di capire come, e di riuscire a, fare un dollaro di profitto. Amazon praticava l’e-commerce nell’unico settore in cui all’epoca fosse diffuso l’accesso a internet, e cioè tra i professori universitari, i manager e i professionisti (per i quali unico prodotto di qualche valore, leggero e facile da recapitare, era il libro). Jeff Bezos dovette aspettare che internet si diffondesse per poter sviluppare pienamente la sua intuizione. Amazon fu tenuta in piedi da finanziatori che hanno retto e sostenuto quella start up per oltre dieci anni in perdita. Durante quel decennio essa aveva accumulato 3 miliardi di dollari di perdite.

Google ricevette 100.000 dollari nel 1998 come primo finanziamento quando ancora non era costituita come società, ma nel 1999 Brin e Page erano già così a corto di soldi, all’inizio della loro avventura, che volevano venderla a Vinod Khosia, uno dei più brillanti venture capitalist, per 750.000 dollari, senza – per loro fortuna – riuscirci. Ancora oggi, il 60% dei cosiddetti unicorni americani, le compagnie quotate che operano nelle tecnologie digitali, hanno perdite cumulate maggiori degli incassi dell’anno corrente, e quindi potranno ripianarle solo nel medio-lungo periodo.[4] Ma hanno un sistema robusto di finanziamento delle start up.

I problemi del nostro sistema di finanziamento delle startup

Il nostro, invece, è un sistema in cui solo le aziende familiari e pochissime aziende pubbliche e private quotate riescono a tenere il passo con la concorrenza internazionale. È un sistema dove manca il ricambio manageriale delle aziende private, che passano da una generazione, quella dei fondatori, alle successive, tra mille circonvoluzioni e peripezie, finendo, quando va bene, per diventare infine aziende quotate. Magari non alla Borsa italiana. E magari con il controllo nelle mani pubbliche o della Cassa Depositi e Prestiti che è divenuta negli ultimi anni protagonista perfino del venture capital all’italiana.

L’ossimoro è vivente: Cassa Depositi e Prestiti gestisce il risparmio postale, quanto di più diametralmente opposto al venture capital. La nostra struttura finanziaria è così primitiva, che la punta di diamante dell’innovazione è finanziata dia risparmi del pensionato che ha il libretto all’ufficio postale.

Il risultato è evidenziato nella figura 1 dove sono riportati gli andamenti comparati del numero di interventi di venture capital in diversi paesi europei.

La mobilitazione del ventura capital nel nostro Paese

Nel nostro Paese la mobilitazione del ventura capital, in termini di numero di interventi, è inferiore anche a quella della Spagna, lontanissima dalla realtà più avanzata rappresentata dal Regno Unito. Questo significa che l’intero settore ICT e dell’economia digitale patisce una drammatica mancanza di risorse finanziarie, dal momento che il 60% degli interventi di venture capital riguardano le imprese ICT e l’economia digitale.

È miope pensare che la politica finanziaria non abbia impatto sulle scelte industriali del mercato e che la politica industriale sia invece affidata a piccoli fondi istituiti presso la Cassa Depositi e Prestiti o agli “aiutini” destinati a tenere a galla STMicroelectronics o gettando fondi nel buco nero dell’Italsider o peggio ancora venendo incontro alle arroganti richieste di Stellantis. Si tratta di sostegno alle aziende in crisi sostitutivo di un intervento assistenziale sui lavoratori che rimarrebbero disoccupati. Non fornisce alcun contributo alla crescita dell’economia dell’innovazione.

L’ammontare degli investimenti effettuati conferma un quadro di arretratezza della finanza italiana per l’innovazione. Nella figura 2 abbiamo dovuto inserire le etichette dei dati relativi all’Italia, per poter apprezzare l’andamento che altrimenti appare adagiato sullo zero.

La distribuzione settoriale degli investimenti di venture capital

La distribuzione settoriale degli investimenti di venture capital nella prima metà del 2024 indica l’assoluta rilevanza delle tecnologie digitali. Infatti anche nell’ambito del primo settore, quello delle scienze della vita, il peso dei progetti basati sullo sviluppo delle tecnologie di intelligenza artificiale e machine learning è rilevante (figura 3).

Nella figura successiva, la 4, scopriamo come il venture capital sia poco diffuso in alcune delle aree più consolidate nel settore manifatturiero, come il Veneto.

Figura 4. Mappa degli interventi di VC nelle Regioni. 2022

La mappa degli interventi di venture capital indica come questa regione fondamentale per la manifattura, sia molto indietro nel ricorso a venture capital, con una evidente perdita di opportunità di sviluppo delle aziende più innovative.

Ciò è dovuto ad una insufficiente interrelazione tra industria e università, che invece è più diffusa in aree con più diffusa presenza di università, come Toscana, Lazio, Emilia Romagna oltre a Piemonte e Lombardia dove si trovano anche i più importanti Politecnici.

Favorire l’innovazione anche nella finanza

La politica di bilancio del governo (non di questo soltanto), anche se non lo dice, considera le banche come rentier, alla stregua dell’opinione dell’uomo della strada, ossia come resort privilegiati a cui bussare nei momenti di bisogno. La modernizzazione del sistema finanziario richiederebbe uno schieramento delle banche non sulla difensiva nei confronti dello Stato, ma nell’avanzamento della capacità di intervento e nella riduzione dei costi del finanziamento delle imprese.

La Consob ha segnalato che le banche italiane hanno una maggiore esposizione dell’attivo sui titoli di Stato e un maggior margine sull’interesse attivo praticato alle imprese: in una parola il credito alle imprese è più scarso e più costoso.[5]

Di fatto il paese è privo di una politica industriale intesa in senso proprio, ossia come ecosistema in cui l’innovazione e la competitività sono poste la centro dell’attenzione e promosse con logica di sistema.

Assistenza-consenso oppure innovazione-competitività?

Se guardiamo agli anni passati, troviamo una montagna di soldi elargiti alle imprese delle costruzioni, aziende che praticamente non esportano e non sono esposte alla concorrenza internazionale. Ma che hanno una dimensione piccola e costituiscono una riserva elettorale formidabile quando il loro interesse è coniugato a quello delle famiglie, come con il diluvio di bonus elargiti a danno del bilancio pubblico.

Non si è trattata di una politica industriale, perché il settore privilegiato non è stato posto in competizione, ma ha ricevuto elargizioni che consentivano semmai di alzare i prezzi invece che di migliorare la produttività. Inoltre, non si sono finalizzati gli interventi a proteggere il territorio e neppure a riqualificarlo per i rischi ambientali. Si è trattato di una politica finalizzata all’acquisto di consenso, ossia di voti, quella che è stata chiamata la politica delle “promesse impossibili nel Paese dei mille sussidi”.[6]

Investitori stranieri e semiconduttori

Se il rischio di perdere investitori esteri si concretizza, ecco che saltano anche tutti gli sforzi compiuti in nome del “recupero di competitività” del nostro sistema economico, con gli interventi costosi per attirare gli investimenti delle Big Tech (Apple, Microsoft e Amazon, ma anche Google e Meta) e dei loro subfornitori, i produttori dei semiconduttori come INTEL, Nvidia, TSMC, AMD etc.

Tutto il dibattito su come recuperare in Europa e nel nostro Paese in particolare, la capacità di progettare e produrre, non dico i processori per l’intelligenza artificiale, ma quelli più semplici per le automobili e gli elettrodomestici, ruota intorno alla capacità di attirare gli investitori in un contesto che gli imprenditori considerano svantaggiato rispetto ai paesi dell’Asia, come Cina, Corea, Giappone, Taiwan e ormai anche India e Indonesia. Ma se l’interesse degli investitori viene meno perché il Paese dimostra di essere volubile e instabile in termini di tassazione sulle imprese, le cose si complicano e i soldi che vengono elargiti a mala pena servono a trattenere chi vorrebbe andarsene.

Il mondo procede su una strada di crescente intensificazione della divisione internazionale del lavoro, con nuovi, giganteschi paesi che emergono, come la Cina oggi e l’India domani, solo per citare quelli che da soli fanno metà della popolazione mondiale. Queste nuove presenze sono nuovi centri di produzione che sostituiscono progressivamente quelli dei paesi industrializzati. Ma sono anche centri diricerca e di innovazione. La crisi tedesca dell’auto a combustione interna e la nostra che ne deriva, è il campanello d’allarme di chi si era cullato sui successi delle Mercedes, delle Volkswagen e delle BMW, e che non ha fatto i conti per tempo con l’innovazione dell’auto elettrica. Ora invoca barriere protezionistiche nei confronti dell’import cinese. Ma ha già perso la corsa per l’auto elettrica e sovvenzionando l’auto tradizionale si finirà per ritardare ulteriormente lo sviluppo del prodotto nuovo.

Restiamo sguarniti non solo di fabbriche, ma anche di imprenditori decisi ad investire nel nostro Paese: le fabbriche chiudono e diventano obsolete, mentre non nascono abbastanza nuove imprese, soprattutto innovative e non si consolida la dimensione di quelle medie.

Le rischiose contraddizioni delle politiche industriali italiane

Così, da un lato il governo, all’interno dello schema generale del Chips Act europeo, finanzia Microsystems, cerca di chiamare Intel, benedice gli investimenti di Amazon, di Google, di Apple etc. Dall’altro lato minaccia periodicamente di tassare il digitale, i sovrapprofitti, le transazioni etc. a differenza di quanto ha fatto con risultati straordinari l’Irlanda; l’Irlanda, che dal 2017 al 2019 ha accresciuto il fatturato dell’e-commerce del 32% all’anno, e del 159% nel 2020[7]. Mentre l’Irlanda si è trasformata, grazie alla sua politica di attrazione degli investimenti internazionali, con il raddoppio del prodotto interno lordo in 10 anni, noi ci dibattiamo sul rifinanziamento dei bonus per l’edilizia,[8] Risultato: oggi il reddito pro-capite in Irlanda è di 106 mila dollari, in Italia di 40 mila.

Il problema delle politiche sovraniste di destra e di quelle populiste di sinistra è che rincorrono un retrogrado sogno di autosufficienza o peggio di autarchia produttiva e assistenzialismo travestito da politica industriale, ammiccando ad un elettorato sempre più vecchio e sempre più sfiduciato. Il fatto che siano condivise da destra e da sinistra le rende più pericolose: non riusciremo a liberarcene facilmente.

Note

[1] Alberto Brambilla, Il consenso a tutti i costi, Guerini e Associati, goWare, 2022, par 1.6.

[2]Solo 15 giorni fa il senatore  Maurizio Gasparri nell’intervista a Radio Radicale di Lanfranco Palazzolo, invocava la web tax come strumento per perequare la pressione fiscale riducendo lo svantaggio delle PMI e aumentando il gettito dalle grandi aziende. Esattamente l’opposto di quanto avverrà con l’abolizione della soglia di accesso.

[3] Il Fisco fa cassa con i bitcoin: la ritenuta sulle plusvalenze passa dal 26 al 42%, Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2024.

[4] Jeffrey Lee Funk, Gary Smith, Opinion: Amazon didn’t make money for a decade, but those losses weren’t even close to what startup companies and their investors face now, MarketWatch,  March 25, 2023.

[5] Consob, Trends and risks of the Italian financial system in a comparative perspective, Capitolo 5, Banche  p. 78 e ss, luglio 2022.

[6] Alberto Brambilla, op cit, par. 2.1.

[7] Vanessa Boullet, Can e-commerce revive the Irish economy after Brexit and the Covid-19 pandemic? Revue Internationale des Langues Etrangères Appliquée, Année2033.

[8] Kevin Timotey, Demystifying Ireland’s national income: a bottom-up analysis of GNI* and productivity, Irish Fiscal Advisory Council, Working Paper n. 1, June 2023.

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