I procuratori generali di 36 stati USA (oltre al procuratore del Distretto della Columbia) lo scorso 7 luglio hanno accusato Google di comportamenti anticoncorrenziali nella gestione del Play Store di Android.
Sebbene infatti Android sia un progetto in sé open source, Google monetizza vendendo una versione del suo OS “arricchita” di una serie di servizi e del Play Store, vetrina virtuale per applicativi che viene gestita dal colosso di Mountain View sul modello di Apple, ovvero prevedendo commissioni sulle vendite e una canalizzazione obbligata degli acquisti in-app attraverso i “Processori di pagamento” autorizzati da Google.
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Proprio questi meccanismi vengono censurati nella causa proposta dai rappresentanti di molti stati USA, che riprendono in parte quanto già affermato da Epic Games, sviluppatore del popolare sparatutto Fortnite, che è stato bandito dagli store di Apple e Google quando ha iniziato a proporre un sistema di pagamento alternativo per gli acquisti in-app.
Il giardino recintato
Dopo la causa instaurata da Fortnite, sia Apple che Google hanno annunciato una riduzione delle loro tariffe (nel caso di Google le tariffe sono state dimezzate, ovvero portate dal 30% al 15% degli incassi, per tutti i proventi fino a un milione di dollari da parte di uno sviluppatore), questa mossa dei due colossi tech, se da un lato è stata accolta con favore dagli sviluppatori, ha anche reso manifesto l’ampio margine di manovra (e di profitto) dei due colossi tech nel gestire le commissioni di vendita. In un mercato davvero concorrenziale un dimezzamento delle commissioni sarebbe impensabile senza enormi sacrifici in termini di riduzioni di costi e di personale.
Proprio per questo motivo il contenzioso non si è fermato e anzi, paradossalmente, Google e Apple hanno peggiorato la loro condizione andando incontro alle richieste di Epic Games e di numerosi altri sviluppatori.
L’accusa mossa ad Apple e Google è quella di aver creato un proprio mercato privilegiato per le applicazioni sui loro sistemi operativi, un “giardino recintato” in cui possono fare il bello e il cattivo tempo a loro piacimento.
Mentre Apple è abituata a ricevere accuse di questo tipo, variamente giustificate dal colosso di Cupertino con la necessità di tutelare i propri utenti creando un marketplace virtuoso e sicuro, Google inizialmente è andata esente da queste critiche, in quanto Android era, almeno sulla carta, un sistema molto più aperto e consentiva da un lato la possibilità di installare app anche al di fuori del Play Store (attraverso appositi pacchetti di installazione, apk) e dall’altro lato ai propri concorrenti di sviluppare app store concorrenti.
L’esempio più importante di questa “concorrenza” è quello dell’Amazon App Store, che contiene numerose app che addirittura sono le uniche scaricabili sui dispositivi prodotti e venduti dall’azienda di Jeff Bezos (come i tablet Amazon Fire).
In realtà però questi marketplace alternativi coprono una fascia di mercato davvero poco significativa e il Play Store è il sistema in assoluto predominante attraverso cui gli utenti si procurano le loro applicazioni sui dispositivi Android e infatti ha raggiunto la quota di 108 miliardi di app scaricate nel 2020.
Tra l’altro Google ha annunciato che presto implementerà l’obbligo di effettuare attraverso i processori di pagamento autorizzati da Google anche i pagamenti in-app relativi ad applicativi che vendono beni digitali o piani di abbonamento, facendo così venir meno la deroga che escludeva dalle commissioni quelle app che vendevano beni o servizi fruibili all’esterno dell’applicativo (es. libri, canzoni o altro).
La mossa di Google, giustificata secondo un principio di uguaglianza fra gli sviluppatori e tesa a detta di Google a evitare strumentalizzazioni della deroga, finisce però per arricchire le casse del colosso di Mountain View, che trova così una nuova e ricca fonte di guadagno (giovando sempre della propria posizione di sostanziale monopolio).
Non è chiaro però come sia possibile implementare questo cambiamento, in particolare se si pensa ad app (pensiamo a Netflix) che consentono di acquistare abbonamenti sia via app che attraverso il proprio sito web e poi di fruirne sia via app che attraverso il proprio portale.
Le giustificazioni di Google si fanno poi più fragili mano a mano che si esaminano i casi specifici, come quello dell’azienda svizzera Proton Technologies, fondata dal fisico taiwanese Andy Yen, che ha in più occasioni lamentato la concorrenza sleale di prodotti free come Gmail rispetto alla sua soluzione mail privacy oriented e criptata Protonmail.
Secondo Proton Technologies è ingiusto che strumenti più tutelanti per la privacy degli utenti debbano trovarsi a pagare sostanziose commissioni alla stessa Google, che poi fa loro concorrenza sleale con un prodotto gratuito che si “nutre” dei dati degli utenti e inoltre incentiva altri prodotti basati sullo stesso modello facendogli proporre applicativi basati sulla medesima impostazione sul Play Store senza fargli pagare alcuna fee.
Tutte queste critiche stanno facendo breccia nel complicato sistema di gestione del Play Store implementato da Google, che è finita nell’occhio del ciclone non solo con riguardo a questo “giardino recintato” per app, ma anche con riguardo ad altri aspetti del proprio modello di business.
Le varie azioni contro Google
La causa recentemente promossa dai vari stati USA è infatti solo l’ultima di una serie di azioni che hanno recentemente coinvolto il gigante tech americano.
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Lo scorso ottobre infatti Google è stato chiamato in causa dal Dipartimento di Giustizia federale statunitense con riguardo al monopolio dell’azienda in tema di ricerca web e di mercato degli annunci pubblicitari.
A questo contenzioso, che verosimilmente non verrà discusso prima del 2023, se ne aggiunge un altro intentato lo scorso dicembre da una serie di stati USA e che riguarda non solo il monopolio di Google in tema di ricerca web, ma anche e nello specifico la concorrenza (che secondo i procuratori che hanno promosso l’azione sarebbe sleale) nei confronti dei motori di ricerca specializzati (ad esempio nella ricerca di voli o prodotti).
Parallelamente un altro gruppo di stati USA, con il Texas a fare da capofila, ha aperto un ulteriore fronte contestando a Google una posizione di monopolio nel settore del digital advertising, posizione che secondo i proponenti il colosso avrebbe consolidato con un accordo riservato con Facebook per stemperare la concorrenza diretta fra i due giganti del settore.
Tutte queste azioni, a cui si somma quella dei 36 stati USA e del Distretto della Columbia, stanno senz’altro facendo pressione a Google e probabilmente spingeranno il colosso a rivedere le proprie politiche per venire incontro alle richieste degli avversari, anche se, probabilmente, non sposteranno Google dalla posizione di assoluto predominio che si è conquistato.
La risposta di Google
Google ha reagito alla notizia con un comunicato in cui ribadisce i principi di libertà a cui è ispirato il sistema Android e il Play Store, affermando che sulla versione Open Source di Android, sviluppata da Google, i competitor stessi di Google possono sviluppare nuovi dispositivi e che se uno sviluppatore non vuole sviluppare un app per il Play Store può benissimo rivolgersi ad altri store concorrenti (come appunto l’Amazon AppStore).
Secondo Google, inoltre, questa causa non aiuterà i piccoli sviluppatori, ma solamente alcuni grandi player che vogliono negoziare condizioni più vantaggiose e discriminatorie rispetto agli altri player (accusa che Google ha mosso anche ad Epic Games).
L’intervento di Biden
La sfida fra Google (e Apple) e i propri sviluppatori è ancora agli inizi e sicuramente ci saranno sviluppi interessanti che vedranno contrapporsi l’attività di lobbying di questi colossi del settore tecnologico, alle iniziative politiche e alle azioni giudiziarie.
Anche il Presidente Biden è (indirettamente) intervenuto nella questione, firmando venerdì 9 luglio un ordine esecutivo in cui afferma di voler promuovere la concorrenza nell’economia statunitense.
Chiaramente il provvedimento non menziona Google o altri player del settore tecnologico statunitense, ma è chiara la posizione dell’attuale Presidente sui problemi appena esposti e infatti l’Ordine afferma che:
“Il settore della tecnologia dell’informazione americana è stato a lungo un motore di innovazione e crescita, ma oggi un piccolo numero di piattaforme Internet dominanti usa il proprio potere per escludere gli operatori del mercato, per ottenere profitti monopolistici e per raccogliere informazioni personali intime che possono sfruttare per i propri vantaggi.
Troppe piccole imprese in tutta l’economia statunitense dipendono da quelle piattaforme e da alcuni mercati online per la loro sopravvivenza.
E troppi giornali locali hanno chiuso o ridimensionato, in parte a causa del dominio delle piattaforme Internet nei mercati pubblicitari.”
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Conclusioni
Le intenzioni del Presidente USA sono senz’altro positive, il problema è che all’orizzonte non vi è ancora una vera e propria soluzione che possa realmente porre fine a queste situazioni di monopolio de facto, la tecnologia premia la standardizzazione, la standardizzazione crea utilità di rete che a loro volta premiano i produttori che forniscono l’ecosistema migliore, rendendoli predominanti.
A quel punto nascono i problemi, con il “vincitore” che vive di rendita e può “scegliere” se comportarsi correttamente o se monetizzare questa rendita, in vari modi, alcuni più e altri meno evidenti.
Il controllo governativo, di fronte a questi fenomeni, è lento e inadeguato e fatica a individuare soluzioni efficienti e tempestive.