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Dopo le big tech, il deserto: così frenano l’innovazione

Dopo una prima fase di rapida crescita da parte delle nuove imprese tecnologiche, il boom delle big tech è stato in grado di fagocitare qualsivoglia azienda operante nel settore ICT, creando monopoli, discriminazioni e perdita di dinamismo imprenditoriale. L’analisi di MIT – Technology Review

Pubblicato il 24 Mar 2022

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

big tech

Le big tech stanno lasciando intorno a sé un deserto di imprenditorialità e di innovazione.

Sì, perché se si esclude l’incontrastato potere (de facto in regime monopolistico) dei “soliti” colossi, il tessuto aziendale collegato al settore ICT non sembra essere poi così roseo e florido rispetto a ciò che appare a prima vista.

Molte evidenze stanno andando in questa direzione.

Si registra, infatti, un decremento produttivo generalizzato, magari anche dopo un’iniziale impennata produttiva indotta dalla creazione di nuove società, destinate però – in una prospettiva di medio-lungo termine – a subire, in condizioni insostenibili, le perfomance di inafferrabili competitors sino all’inevitabile definitivo crollo con conseguente uscita dal mercato.

La teoria della complessità contro lo strapotere delle Big Tech

Lo rivela un approfondimento a cura del MIT – Technology Review, che sottolinea appunto, dopo una prima fase di rapida crescita da parte delle nuove imprese tecnologiche, un arresto complessivo di ricavi praticamente invariati tra il 2013 e il 2019, anche a causa del boom dei colossi del web, in grado di fagocitare qualsivoglia azienda operante nel settore ICT.

Gli ostacoli alle startup

In altre parole, tenuto conto delle dinamiche che caratterizzano tutti i principali settori industriali e tecnologici, sebbene stiano formalmente continuando a nascere nuove aziende innovative, le startup affrontano ostacoli senza precedenti al punto da rallentarne la crescita con effetti negativi complessivamente riscontrati: si tratterebbe di un’inevitabile conseguenza dell’impatto della tecnologia proprietaria sulle dinamiche del mercato, influenzate proprio dal dominio delle “Big-Tech”, che riducono i meccanismi di una sana ed effettiva competitività tra le imprese come fattore indispensabile per favorire lo sviluppo effettivo dell’innovazione digitale.

Le soluzioni originali sviluppate dalle nascenti startup, vengono infatti presto assorbite dai gruppi più importanti che, intravedendone durature prospettive di profitto, si “impadroniscono” delle relative idee innovative, anche nell’ambito di proficue acquisizioni societarie, grazie all’investimento di ingenti risorse finanziarie, unitamente al supporto di un capitale umano altamente qualificato che esprime, come formidabile vantaggio competitivo, un sofisticato know-how costruito nel tempo per perfezionare il funzionamento operativo dei sistemi incubati, di cui poi le big tech finiscono per appropriarsi.

Le barriere all’ingresso

Per tale ragione, a fronte di una ridotta intensità competitiva, risulta molto poco probabile la possibile affermazione di un nuovo gigante tecnologico rispetto alle attuali grandi aziende esistenti, che riescono a conservare il proprio potere di mercato grazie alla presenza di barriere all’ingresso volte ad incrementare il livello di staticità del settore piuttosto che a rafforzarne l’espansione evolutiva in condizioni aperte e distribuite.

Emblematico, in tal senso, l’embrionale sviluppo progettuale della tecnologia di riconoscimento vocale (riportato dall’articolo), originariamente sperimentata, con largo anticipo e notevole lungimiranza da una delle società emergenti del tempo in grado di ottenere una rapida crescita, tuttavia di breve durata, proprio perché tale intuizione è stata presto acquisita dai soliti noti, destinati a prevalere non solo per le notevoli risorse finanziarie di cui dispongono, ma soprattutto per l’ampia base clienti, peraltro targettizzati in specifiche nicchie di mercato, che fungono da inesauribile utenza di fruitori di servizi oggetto di costante miglioramento evolutivo grazie al costante apporto di feedback ottenuti dai consumatori finali.

In questo senso, non vi è dubbio che negli ultimi due decenni si sia consolidato il primato economico, commerciale (e politico) dei giganti della tecnologia grazie allo sfruttamento di innovazioni dirompenti (come l’iPhone o i social network) su cui si basa l’attuale ecosistema digitale, con il paradosso che, mentre i consumatori subiscono talvolta gli effetti dell’obsolescenza tecnologica programmata, le grandi aziende “high-tech”, per mantenere la propria egemonia, abusano delle loro posizioni dominanti anche a scapito dell’innovazione.

Siamo di fronte a un evidente potere monopolistico delle grandi aziende tecnologiche che, per appropriarsi integralmente del surplus del consumatore trasformato in profitto, riescono a praticare politiche di discriminazione perfetta per fissare il prezzo a seconda della quantità acquistata da parte di gruppi omogenei di utenti segmentati sulla base di specifiche caratteristiche selezionate mediante l’impiego di sofisticati software innovativi che consentono di processare su larga scala le informazioni disponibili sul mercato, come vincente strategia di differenziazione dalle aziende rivali per non essere mai superati dai propri competitors.

Il circolo vizioso che deprime il settore

Si tende, quindi, a creare un circolo vizioso che comprime il settore industriale, determinando una rilevante perdita di dinamismo imprenditoriale, con conseguente calo dell’intensità competitiva aggravata dalla concentrazione delle quote di mercato, sino a provocare lo stallo dell’intera economia con preoccupanti implicazioni negative per il tasso di occupazione generale e per il livello dei redditi personali dei lavoratori.

In tale prospettiva, emergono i tratti della cosiddetta “distruzione creativa”, teorizzata dall’economista Joseph Schumpeter come peculiare caratteristica dell’attuale configurazione dei mercati, ove le imprese più produttive – che realizzano proficui modelli di business a costi inferiori – crescono più velocemente rispetto agli operatori storici meno produttivi, fino a raggiungere un livello di saturazione che comprime i margini ulteriori di crescita, a causa dello strapotere monopolistico dei “Colossi del web”, che detengono, in condizioni di controllo proprietario, la maggior parte delle tecnologie, attraverso licenze e restrizioni varie in grado di frenare le dinamiche competitive dei mercati.

L’abuso di posizione dominante risulta ancora più insidioso da accertare nel settore tecnologico, ove non circolano direttamente transazioni finanziarie o variazioni di prezzo monitorabili secondo le tradizioni nozioni di “quote” o “potere” di mercato: rispetto ai servizi forniti agli utenti gratuitamente, infatti, le entrate sono generate dal sistema di advertising utilizzato dagli inserzionisti per pubblicare annunci online.

Monopoli ed economia della condivisione

In tale inedito scenario, il consolidamento monopolistico delle grandi aziende tecnologiche sembra essere incentivato dalla cd. economia della condivisione, ove i gestori delle relative piattaforme sono in grado di accedere a rilevanti quantità di dati che riescono a processare per estrapolare le preferenze dei consumatori e definire le più ottimali strategie produttive al fine di prevalere rispetto agli altri competitors.

Sebbene il calo dell’intensità competitiva nel settore tecnologico strettamente connesso al crescente strapotere raggiunto dai colossi del web potrebbe/dovrebbe giustificare una revisione organica della regolamentazione antitrust vigente, sussiste allo stato attuale una debolezza endemica della politica, ancora ferma ad dibattito meramente teorico sugli interventi prioritari di riforma da realizzare (emblematica la stasi prolungata sulla modifica dell’attuale disciplina “iper-protettiva” prevista Sezione 230 del “Communications Decency Act” del 1996).

Il potere delle lobby sul settore politico

Il policy making del settore politico risulta altresì esposto all’influenza lobbistica esercitata dalle grandi aziende “high-tech” che, superando persino l’industria del tabacco, nel 2020 hanno speso una quota complessiva di 124 milioni per contributi elettorali, unitamente all’elaborazione di svariate strategie pianificate per influenzare la legislazione settoriale vigente in materia nel contesto statunitense, assicurandosi il reclutamento di ex membri dello staff del Congresso, funzionari della FTC e altri rappresentanti governativi, nell’ottica di intensificare la pressione sulle dinamiche istituzionali del circuito democratico, come rivela un report a cura di Public Citizen che, sulla base dei dati forniti dal  Center for Responsive Politics, sottolinea che, a fronte di un incremento dei cd. “lobbisti digitali” da 293 nel 2018 a 333 nel 2020 quasi tutti (94%) i membri del Congresso con competenze su questioni di privacy e antitrust hanno ricevuto contributi anche indiretti dalle “Big-Tech”.

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