L’Italia è il leader indiscusso della food experience mondiale. Il settore agroalimentare nazionale, nella sua più ampia articolazione, dalle campagne agli scaffali commerciali, genera un volume d’affari di circa mezzo trilione di euro (25% del PIL italiano. CREA, 2021).
Eppure, quando si parla di startup agrifood, il Paese rimane drammaticamente fanalino di coda. E non è cosa da poco. Il venture capital agrifood è in pieno boom mondiale (soprattutto in questo ultimo anno di pandemia). In altre parole, ci stiamo lasciando scappare un’opportunità unica di crescita per il Paese.
Ci penserà, dunque, il Piano Nazionale di Resilienza e Resistenza a metterci una toppa? Ricredetevi.
L’agrifood-tech nazionale e lo scenario globale
Ok, ma prima di guardare alle pecche del nostro piano (o, per lo meno, di quel poco che ne sappiamo), torniamo alle basi. Cominciamo a vedere come l’agrifood-tech nazionale si confronta con quello globale.
Rapidamente, per punti:
- L’anno della pandemia è stato un anno record. Nel 2020 le startup agrifood hanno visto investimenti per un totale di circa 30 miliardi di dollari a livello globale. Ciò rappresenta una crescita di oltre 30% sull’anno precedente (AgFunder, 2021)
- La crescita dell’agrifood va messa a confronto con una crescita media durante l’anno della pandemia di solo 4% degli investimenti globali nel venture capital (300 miliardi di dollari nel 2020) (Crunchbase, 2021).
- Gli investimenti di VC in agrifood rappresentano il 10% del totale degli investimenti venture capital globali. Questo ne fa uno dei settori più rilevanti, ormai comparabile con settori più consolidati come il biotech, il fintech ecc..
- Tuttavia, a fronte di questa enorme rilevanza del settore, nel 2019 l’Italia ha visto appena 21 milioni di dollari di investimenti (su un totale a livello globale pari a 20 miliardi). In pratica, le startup agrifood italiane, nel 2019, hanno raccolto appena lo 0.1% del capitale investito a livello globale nel settore (AgFunder, 2020).
- In Europa, nel 2019, l’Italia si collocava al numero 14 per capitale raccolto dalle startup agrifood. Per un confronto, la sola Spagna ha visto 20 volte il capitale investito (AgFunder, 2020).
Le colpe e i costi del ritardo italiano
Molti si domandano se questo ritardo sia colpa della scarsa qualità delle startup agrifood italiane. Nulla di più falso. Nonostante i limiti drammatici di accesso al capitale, l’Italia è già capace di produrre leader mondiali. A titolo indicativo, si prenda ad esempio la classifica globale FoodTech 500 fatta da Forward Fooding: le startup agrifood italiane nel 2020 rappresentavano il 6.8% del totale globale (da confrontare con appena lo 0.1% del capitale raccolto, di cui sopra).
In altre parole, il potenziale di capitale che potrebbe essere raccolto dalle startup agrifood nazionali è circa 50 volte superiore a quanto attualmente allocato dal mercato.
O se volete, già oggi, l’Italia presenta il potenziale per allocare circa 1 miliardo di dollari all’anno in venture capital destinato a startup agrifood (ripeto: solo startup agrifood!).
Cosa perde l’Italia per questa mancata allocazione? Il costo è enorme. Basti pensare che per ogni dollaro investito in venture capital (sano), il ritorno di lungo temine è superiore a 6 dollari di ricavi annui (source: IHS, 2011). Detto in soldoni, stiamo già perdendo quasi mezzo punto percentuale di PIL a lungo termine (20-30 anni). E ciò solo per via dei benefici diretti. Se poi considerassimo anche i benefici al sistema produttivo agroalimentare, dove le innovazioni agrifood-tech comportano incrementi di ricavi ed efficientamento dei costi superiori alle due cifre percentuali, il prezzo che rischiamo di pagare si fa molto più alto (quanto fa, ad esempio, il 10% di mezzo trilione di euro? Almeno tre punti percentuali di PIL).
E non finisce qui. L’Italia, che rappresenta il secondo o terzo produttore agrifood EU (a secondo dei metodi di calcolo), corre seri rischi di irrilevanza a fronte dei mutamenti strutturali a livello globale nei metodi produttivi e nella domanda.
L’agri-food tech nel PNRR
Ora, scorrendo il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il tema “agricoltura” appare con 30 parole, il tema “agroalimentare” con 11 parole e “ristorazione” con zero (nell’anno della pandemia, sic). In totale, dalle nostre stime, questi temi raccolgono stanziamenti Next Generation EU per meno di 4 miliardi di euro, cioè meno del 2% dell’intero piano nazionale. Un po’ poco per un settore che, in tutte le sue articolazioni dal campo fino alla ristorazione e al retail, cuba oltre mezzo trilione di euro l’anno.
E che dire dell’agrifood-tech? Zero carbonella, come si dice a Roma. Eppure, il Next Generation EU è un’occasione unica.
Cosa serve per il salto di qualità
Cosa serve? Occorrono azioni sistemiche capaci di consentire un jump-start dell’ecosistema nazionale, tali da proiettare immediatamente il Paese in testa ai paesi leader. In primo luogo, occorre atterrare maggiori risorse di capitale alle startup agrifood italiane (sul modello di quanto fatto attraverso i fondi di fondi CDP Venture Capital). Ma occorrono anche iniziative di ecosistema che puntino ad una immediata leadership, come la creazione di centri di eccellenza con la massa critica per competere a livello globale (sul modello, ad esempio, di Wageningen nei Paesi Bassi), o come l’introduzione su vasta scala di voucher e incentivi per l’adozione nel mercato professionale delle soluzioni esistenti di precision farming, food delivery, D2C, online grochery ecc., dove le startup italiane sono già in grado di esprimere significative posizioni di eccellenza.
Tali azioni consentirebbero non solo di rendere l’Italia un player di primo rango nello sviluppo di nuove tecnologie e modelli, ma anche di apportare benefici a due cifre percentuali in termini di produttività all’intero comparto agroalimentare, oltreché consentire al Paese di affrontare con maggiore robustezza le sfide economiche ed ecologiche che si faranno pressanti nei prossimi decenni.