La politica commerciale di Trump colpisce paradossalmente prima l’economia americana che i paesi target, con multinazionali come Tesla che subiscono doppiamente le conseguenze dei dazi e delle ritorsioni
professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano
“L’indice di fiducia dei consumatori [statunitensi] è in forte discesa per le preoccupazioni sull’economia. Lo ”small business” [un sensore importante delle ricadute delle variazioni di tale indice] evidenzia come sia in corso un calo diffuso delle vendite ed esprime incertezza sul futuro”.
Così il 15 marzo The Wall Street Journal, giornale economico notoriamente di grande prestigio, molto vicino al mondo del business e non certo qualificabile come “liberal”, riassumeva i punti chiave del suo articolo “Consumers and Businesses Send Distress Signal as Economic Fear Sets In – Canceled trips, fewer dinner parties and falling sales: ‘We are cutting back on virtually everything’”. Con un punto aggiuntivo, per ricordare come le previsioni negative sul futuro dell’economia spesso si traducano in profezie che si autoavverano (“self-fulfilling prophecies”), perché spingono i consumatori e le imprese a ridurre prudenzialmente le spese correnti e gli investimenti.
La risposta cioè alla domanda che frequentemente in questi giorni ci si pone, su chi abbia (più) paura delle tariffe di Trump, è che “almeno al momento” non sono solo i Paesi destinatari dell’imposizione e/o incremento delle tariffe stesse a preoccuparsi per l’impatto sulle loro economie, ma anche – e forse in forma anche più immediata – il Paese che, per volontà del suo presidente, vuole imporre le tariffe per scoraggiare le importazioni da molti altri Paesi, soprattutto da quelli tradizionalmente amici.
Tempi lunghi e costi alti per l’economia americana
Anche perché, come la maggior parte degli economisti prevedeva e come è peraltro intuitivo, un eventuale successo nel farcrescere l’attività manifatturiera negli Stati Uniti richiede tempi non brevi per la sua attuazione e comunque non sembra a prima vista un fattore in grado di portare a quell’abbassamento del costo della vita che è stato uno dei “cavalli di battaglia” della campagna presidenziale di Trump.
Le multinazionali Usa a rischio ritorsioni
Non solo. Introdurre, oltretutto in una forma che almeno in questa fase iniziale appare fortemente erratica, barriere così elevate – tali da stravolgere il sistema di localizzazioni produttive e flussi commerciali progressivamente consolidatosi durante il processo di globalizzazione dell’economia mondiale nell’ultimo quarto di secolo – non rende la vita facile a diverse grandi imprese multinazionali statunitensi, per due ordini di motivazioni:
le ritorsioni dei Paesi colpiti dalle tariffe sono spesso selettive (lo stesso accade quando sono gli Stati Uniti a reagire alle ritorsioni), mirano cioè a colpire soggetti particolarmente influenti, come le grandi imprese piuttosto che i territori facenti capo ai collegi elettorali di politici importanti (Fig. 1);
i costi delle unità produttive delle grandi imprese statunitensi site nel Paese possono risentire delle tariffe all’import, quando materie prime e/o componenti importanti devono essere per forza acquistati dai Paesi colpiti dagli incrementi delle tariffe e/o quando esse si avvalgono come usuali fornitori di proprie sussidiarie decentrate in tali Paesi (come tipicamente avviene per una parte non piccola dell’import da Canada e Messico).
Gli impatti delle tariffe di Trump sull’economia globale
Perché ho premesso che queste mie considerazioni valgono “almeno al momento”? Perché una eventuale crisi nell’economia statunitense avrebbe ricadute quasi immediate sull’economia mondiale. Perché non mi è facile capire, e sembra sia un dubbio diffuso, quale sia il disegno che Trump intende perseguire in un orizzonte temporale più lungo, se le tariffe siano uno strumento per ottenere concessioni strutturali dai Paesi cui vengono applicate o se siano destinate (nella sua visione) a mantenersi nel tempo, “isolando” parti dell’economia statunitense dalla concorrenza mondiale.
Fig. 1 – I territori più a rischio di ritorsioni per la loro vicinanza a Trump (The New York Times “Trade War Retaliation Will Hit Trump Voters Hardest”, 15 marzo)
Anche Tesla ha paura delle tariffe di Trump
A metà ottobre del 2024 – prima delle elezioni presidenziali – Tesla capitalizzava 700 miliardi circa, a metà dicembre 1,4 trilioni, ora (metà marzo) 800 miliardi circa. Se il peso crescente di Elon Musk nella nuova amministrazione aveva sicuramente contribuito al raddoppio del valore in soli due mesi – in assenza di risultati economici tali da giustificare una crescita delle aspettative così rilevante – le tariffe di Trump sembrano ora essere diventate una delle grandi preoccupazioni di Tesla, anche se (come vedremo) non la sola.
Fig. 2
La lettera di Tesla sul rischio dei dazi
Lo ha detto un po’ a sorpresa Tesla stessa, in una lettera ufficiale inviata al “US trade representative” Jamieson Greer, a fronte di una richiesta di commenti (anche sulle possibili ricadute delle tariffe) da parte dell’agenzia da lui diretta alle principali imprese statunitensi. Una lettera ufficiale ma non firmata, probabilmente perché nessuno voleva diventare il capro espiatorio di possibili vendette. Una lettera in cui – come racconta ad esempio il Financial Times (“Tesla warns Trump administration it is ‘exposed’ to retaliatory tariffs – Elon Musk’s electric-car maker says levies could make it costlier to produce vehicles in the US”, 13 marzo) – Tesla evidenzia il doppio rischio di rimanere vittima da un lato di possibili/ probabili ritorsioni da parte dei Paesi colpiti e di trovare dall’altro la sua produzione negli US aggravata dalle tariffe su prodotti che essa deve necessariamente importare (quali il litio e il cobalto indispensabili per le sue megafactory di batterie nel Nevada e nel Texas), annullando i vantaggi della rete di approvvigionamento che essa si è faticosamente costruita nel tempo.
Elon Musk: da “asset” a “liability” per Tesla?
“Vuoi davvero una nazi-car? Ondata di proteste contro Tesla – Dagli Usa, all’Europa e all’Australia concessionari incendiati e auto imbrattate”, Corriere della Sera, 17 marzo”. Se sino dal 2004, in occasione del primo round di finanziamenti, Elon Musk è stato sempre il vero punto di forza e il traino di Tesla,
le sue frequenti e indebite intromissioni dall’altro nella politica interna dei Paesi gravitanti nell’orbita statunitense (quale l’appoggio su X al partito di estrema destra tedesco AfD-Alternative für Deutschland),
hanno fatto di Tesla l’oggetto, prima ancora delle possibili ritorsioni dei Paesi colpiti dalle tariffe, delle proteste e degli sfoghi popolari e hanno provocato una contrazione (in termini assoluti e in quote di mercato) delle vendite delle sue auto elettriche. E l’offuscamento della sua immagine, strettamente interconnessa con quella di Musk, potrebbe rappresentare un handicap molto più difficile da recuperare che non il calo delle vendite.
Le tariffe di Trump e Musk non sono i soli problemi di Tesla
“Elon Musk’s antics are not the only problem for Tesla – The carmaker’s sales are sinking for other reasons too”, dice The Economist (12 marzo), evidenziando come il rallentamento delle vendite di Tesla non sia un fatto di quest’anno e come già lo scorso anno Tesla abbia abbandonato il suo obiettivo di lungo periodo di raggiungere la soglia dei 20 milioni di auto vendute all’anno nel 2030.
Cita ovviamente la crescente concorrenza cinese: con BYD che addirittura compete sul numero totale di auto elettriche vendute a livello globale e Xiaomi che sembra stia destando un interesse molto forte nel mercato con il suo salto dallo smartphone all’auto (cui viceversa Apple ha rinunciato dopo molti anni di investimenti). Ma sembra attribuire maggior peso alla riluttanza di Tesla (definito “a reluctant carmaker”) ad allargare la gamma di modelli, per coprire – come ad esempio fa Toyota – tutte le diverse fasce e segmenti in cui la domanda finale a livello globale si articola.
Tesla in Borsa: disconnessione dai fondamentali
Relativamente alla caduta in Borsa, The Economist fornisce una interpretazione complementare, se non alternativa. Sostiene che ormai da molto tempo la valutazione di Testa “has long lost any connection with fundamentals” (una osservazione che credo molti di noi abbiano fatto), che più che sui numeri della società essa è basata sulla scommessa che Elon Musk riesca a rivoluzionare il comparto dell’auto come ha fatto in ogni comparto in cui è entrato. Che questa fede sta però un po’ vacillando, non solo e non tanto per le ragioni che ho evidenziato al punto precedente, ma per l’apparente disimpegno di Musk: sempre più impegnato in attività diverse, da quelle in altre aree di business (i satelliti piuttosto che l’intelligenza artificiale) agli incarichi governativi.
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