C’è un’ovvietà, della rete, che ha effetti tutt’altro che ovvi.
Gli utenti sono ormai abituati a fruire di alcuni servizi senza sostenere costi diretti, come per i social network, motori di ricerca, browser e client di posta, di messaggistica e di archiviazione e per il software open source e shareware.
Ciononostante, molti dei proprietari delle aziende che forniscono questi servizi “gratuiti” compaiono regolarmente nella lista delle persone più ricche del mondo e la loro influenza è tale da permettersi di censurare giornali e capi di stato.
Il modello di business di questi servizi pone dunque parecchie sfide alla teoria economica e al senso comune.
Modello di business tradizionale vs distribuzione di servizi gratuiti
Nel modello tradizionale di business, infatti, un venditore cede beni e servizi ai clienti in cambio di denaro, eventualmente servendosi della rete per raccogliere gli ordini e per riscuotere il pagamento. In questo schema, il mercato è in grado di premiare le imprese più produttive e innovative, perché un miglioramento della qualità dei prodotti, a parità di prezzo, consente di aumentare le vendite, mentre un aumento dei prezzi, a parità di qualità, le riduce.
Nel caso della distribuzione di beni e servizi gratuiti questo meccanismo di selezione si inceppa: l’attività produttiva è finanziata da sponsor o donatori che generalmente non usufruiscono dei servizi prodotti, mentre gli utenti non pagano direttamente alcun costo. Questo significa che i ricavi del produttore dipendono da quanto raccoglie dai finanziatori e non da ciò che riesce a vendere, e in particolare dalla qualità dei prodotti. Tutto ciò impedisce al mercato di regolare gli scambi in funzione delle caratteristiche dei prodotti, premiando le imprese migliori.
Il modello tradizionale | Il mercato dei servizi gratuiti |
I servizi online che ancora prevedono un pagamento
In realtà molte imprese offrono ancora beni e servizi su internet secondo modalità sostanzialmente tradizionali, che prevedono varie forme di pagamento da parte dei clienti.[1] E’ il caso dell’e-commerce; dei marketplace come eBay, Amazon ed Airbnb e dei mezzi di pagamento elettronici come PayPal, che prevedono una remunerazione per l’intermediazione tra le parti; del “Software as a service” (SAAS) di Netflix e altri, che comporta una iscrizione e canoni periodici; del “Pay As You Go” (PAYG) che consiste nel far pagare al cliente il servizio in base all’utilizzo che ne fa, come nel caso del car e bike sharing e di alcuni servizi in cloud; delle community che prevedono una quota di partecipazione forfettaria per usufruire dei servizi forniti dagli altri partecipanti; dei prodotti freemium, che offrono una versione gratuita con limitazioni che possono essere rimosse solo pagando un canone, come per Spotify, Skype, molte app e il software shareware; del “Free to use, pay for related service”, tipico delle aziende che producono software open source, in cui il software in sé è gratuito e perfino modificabile, mentre si pagano servizi aggiuntivi come l’assistenza, la personalizzazione, la formazione e la consulenza.
Alcuni servizi “Free to use” sono diventati veri e propri standard di fatto come Linux e WordPress. Per tutti questi prodotti l’economia fornisce strumenti di analisi ben collaudati, mutuati dal mercato fisico dei beni e servizi, in cui il successo di una impresa è determinato dalle caratteristiche intrinseche dei prodotti che offre.
I servizi semi-gratuiti
Altre imprese hanno scelto di puntare sulla fornitura di servizi semi-gratuiti. Nella forma più convenzionale si tratta di prodotti quasi interamente finanziati da sponsor e inserzionisti, come nel caso delle TV commerciali, di gran parte della stampa, di molte app funestate da spot più o meno invasivi. Altre volte i costi sono coperti da donazioni volontarie, come nel caso di Wikipedia e dei prodotti rilasciati con la licenza Creative Commons. Mentre per le donazioni esiste ancora qualche legame tra apprezzamento degli utilizzatori e ricavi dei fornitori, nel caso dei servizi interamente finanziati dalla pubblicità questo legame è estremamente labile e al massimo passa attraverso l’audience, che determina la diffusione e l’impatto delle inserzioni. Per i servizi semi-gratuiti la teoria economica fornisce solo strumenti per analizzare le elargizioni spontanee e il mercato della pubblicità, ma non quello dei servizi in sé che, non avendo un prezzo, non possono neanche essere definiti veri e propri beni economici.[2]
Servizi gratuiti in cambio di dati personali
Tuttavia il modello più difficile da spiegare in base alla teoria economica è quello dei servizi web che si presentano come totalmente gratuiti per l’utente, senza neanche l’obbligo di accettare interruzioni pubblicitarie. Parliamo di prodotti messi a disposizione da colossi come Google, dei servizi della scuderia di Zuckerberg (Facebook, WhatsApp, Instagram), di Twitter, Youtube, WeChat, ecc.
La caratteristica principale di questi prodotti è quella di raccogliere una massa immensa di dati personali, richiesti esplicitamente agli utenti per accedere ai servizi, oppure rilasciati più o meno volontariamente attraverso messaggi, ricerche sul web, spostamenti e pagamenti. Il valore di queste informazioni è immenso per imprese commerciali, gruppi di pressione e organizzazioni politiche. Quindi, nonostante tutte le restrizioni poste dalle leggi nazionali e internazionali, vi è il fondato sospetto che i fornitori di questi servizi coprano gran parte dei propri costi (e facciano lauti profitti) proprio sfruttando questo patrimonio di Big data.
In effetti, alcuni impieghi dei dati personali sono relativamente innocenti, perché sono finalizzati a personalizzare i servizi per gli utenti in base alle loro preferenze e alla loro posizione geografica. Solo così, grazie ad applicazioni di intelligenza artificiale, i servizi web evitano di restituire risultati di ricerche troppo generici o irrilevanti, eventualmente in lingue sconosciute. Altre forme di sfruttamento dei big data sono più discutibili, come gli spot che compaiono sui vari devices, personalizzati in base alla profilazione dell’utente, che costituiscono un servizio offerto comunemente agli inserzionisti. Inoltre i colossi dei social media usano gli stessi dati e le stesse tecniche anche per filtrare messaggi giudicati contrari alle leggi o inappropriati per la sensibilità e la cultura degli utenti, come è avvenuto per gli incitamenti alla violenza e le fake news diffuse da Trump e perfino per alcune testate giornalistiche italiane. Alcuni casi, per fortuna isolati, fanno sospettare invece che dati personali e big data siano stati utilizzati per manipolare l’opinione pubblica ricorrendo anche tecniche di ingegneria sociale eticamente criticabili.
Tutto questo sarebbe ancora tollerabile se questi servizi “gratuiti” fossero forniti da una pluralità di fornitori in concorrenza tra loro, poiché gli utenti potrebbero ancora penalizzare le imprese meno scrupolose nell’uso dei propri dati e premiare quelle più rigorose. Questo meccanismo, anche in assenza di prezzi che garantiscano un equilibrio stabile al “mercato”, rientrerebbe ancora tra i fenomeni spiegati dalla teoria economica tradizionale. Tuttavia i servizi “gratuiti” sono generalmente caratterizzati anche da elevati costi fissi per l’infrastruttura fisica (server, software, ecc.) e per l’avviamento (marchio, diffusione, ecc.) e costi variabili sostanzialmente nulli rispetto all’espansione del volume dei servizi.
Il settore è dunque caratterizzato da economie di scala fortemente crescenti, per cui le imprese più grandi hanno un vantaggio incolmabile e crescente su quelle più piccole in termini di costi per unità di prodotto e per addetto. Nel peggiore dei casi, i colossi già presenti sul mercato hanno tutte le risorse per inglobare e neutralizzare i concorrenti più agguerriti. In queste condizioni le barriere all’entrata di possibili concorrenti sono altissime e quindi il mercato collassa inevitabilmente dalla concorrenza tra pari al monopolio, come fu dimostrato quasi un secolo fa da Piero Sraffa per i mercati fisici.[3] Il risultato è che la qualità dei servizi web “gratuiti” non è moderato e spinto verso l’efficienza dalle leggi di mercato che, almeno in teoria, dovrebbero assicurare il migliore risultato possibile ed economicamente sostenibile per tutti gli attori (fornitori e clienti) allo stesso tempo.
Bundling e fidelizzazione
In queste condizioni l’utilizzatore ha sempre meno mezzi per influire sulle caratteristiche dei servizi, anche se affida ad essi funzioni fondamentali come le comunicazioni personali e professionali, l’archiviazione di documenti, ecc. Oltre tutto, una volta scelta una piattaforma, l’utente incorrerebbe in perdite rilevanti per migrare altrove, perché perderebbe tutto l’investimento fatto in know how e nella creazione di una rete di contatti. La situazione peggiora quando diversi servizi vengono integrati tra loro, moltiplicando le possibilità di incrocio tra i dati personali, come nel recentissimo caso di Facebook e WhatsApp. Simili problemi sono destinati a ripetersi sempre più di frequente perché l’integrazione tra dati di diverse piattaforme rientra in due tipiche pratiche di marketing, largamente diffuse e ammesse dalla legislazione vigente: il bundling e la fidelizzazione. Il primo consiste nell’offerta congiunta di diversi prodotti che non possono essere ottenuti separatamente tra loro.
La fidelizzazione tende a creare una forte dipendenza dell’utente dai servizi offerti da un singolo fornitore, rendendo estremamente rigida la domanda di ciascun singolo elemento del “pacchetto” anche di fronte a variazioni significative delle condizioni di fornitura. Per il fornitore è così possibile peggiorare un singolo servizio alla volta senza rischiare una caduta della domanda complessiva e dei profitti.
Bundling e fidelizzazione non sono prerogative dei mercati virtuali, ma si registrano, ad esempio, anche nel mercato dell’auto e degli elettrodomestici, dove è praticamente impossibile utilizzare ricambi, accessori e servizi forniti da una casa diversa da quella costruttrice, a meno di perdere la garanzia, e dove alcune componenti sono vendute solo assieme ad altre molto più costose.
Conclusioni
In questo quadro, non ci sono dubbi che i servizi web “gratuiti” rappresentino un tipico caso di “fallimento del mercato” (o addirittura di inesistenza del mercato) di cui uno Stato dovrebbe occuparsi.
In particolare, sarebbe indispensabile controbilanciare le economie di scala crescenti che di fatto fanno collassare il mercato verso il monopolio e sarebbe opportuno dare più potere agli utenti nel determinare le caratteristiche dei servizi, sottraendolo a finanziatori, inserzionisti e donatori più o meno disinteressati.
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- Per un approfondimento sui modelli di business adottato sul web si rimanda a Wirtz, B. W., Schilke, O., Ullrich, S. (2010). “Strategic development of business models: implications of the Web 2.0 for creating value on the internet.” Long range planning, 43(2-3), p. 272-290. ↑
- Per questo motivo, il valore creato da queste imprese non entra neanche nel famigerato Pil, come osservato recentemente anche da Barefoot, K., Curtis, D., Jolliff, W., Nicholson, J. R., Omohundro, R. (2018). “Defining and measuring the digital economy.” US Department of Commerce Bureau of Economic Analysis, Washington, DC, 15. ↑
- Vedi Piero Sraffa, “The laws of returns under competitive conditions.” su The economic journal, vol. 36, N. 144, 1926, pp.535-550. ↑