La guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina e, indirettamente, contro l’Europa, ha colpito le aziende Big Tech in modo diverso. La guerra non è lontana: la rete ce lo dimostra continuamente, e ce lo dimostrano i dati economici e finanziari. Ma in che modo il conflitto in corso sta avendo impatto sulle piattaforme Internet?
Guerra russo-ucraina: cosa ci insegna il conflitto sul futuro del digitale
Il ruolo della guerra nella scalata di Elon Musk a Twitter
Partiamo da Twitter. Il social è oggetto della ondivaga scalata da parte di Elon Musk[1], che ci ha abituato alle scorribande in cui si esibisce quando esprime interesse per qualche asset finanziario (il “tira e molla” su bitcoin insegna). Eppure, anche nel caso di Twitter, la guerra esercita un ruolo, sia pure indiretto.
Infatti, è Twitter come vettore di comunicazione, istituzionale e non, ciò che interessa a Musk, sia sotto il profilo politico, sia sotto il profilo del potenziale sviluppo pubblicitario che comporta. Un sito di comunicazione politico-istituzionale come è Twitter, che vola ancora in alto rispetto all’andamento del Nasdaq, potrebbe risultare più attraente durante una crisi internazionale, quale quella che stiamo attraversando, rispetto ai canali classici, come Google o Facebook, legati strettamente alla dimensione del mercato globale, che si sta restringendo.
Mentre l’interesse politico-istituzionale cresce, quello strettamente commerciale è in affanno, nonostante l’incremento delle attività online sia di vendita sia di advertising. Forse per questo motivo, al di là della schermaglia sulla valutazione economica dell’investimento influenzata dalla vera dimensione degli account non veri, l’interesse di Musk si è manifestato proprio durante la crisi ucraina.
Snapchat e il crollo della pubblicità
Al contrario, per Snapchat il problema della caduta del 40% del valore di mercato, nell’ultima decade di maggio, è legato al crollo degli utenti e quindi della pubblicità.
Un fatto che potrebbe trovare la sua spiegazione nella concorrenza serrata proveniente dal gruppo Meta (Facebook) e dal gruppo Alphabet (Google). Anche qui, il legame con la guerra è indiretto, ma presente.
Come vedremo, la raccolta pubblicitaria, stretta dall’incremento dei prezzi e dalla caduta del potere d’acquisto dei consumatori, sta registrando una contrazione dei margini, con effetti sulle quotazioni delle aziende Big Tech che possiamo vedere nella figura 1.
Dall’inizio della guerra, a parte Twitter, solo Meta e Microsoft hanno performance migliori del Nasdaq, l’indice delle società tecnologiche.
Apple è in linea con la perdita del Nasdaq, Alphabet (Google) perde qualche punto ulteriore, mentre Amazon segna una caduta significativa, dovuta alla crisi delle vendite determinata dall’insicurezza provocata dalla guerra.
La guerra, anche per la sua vicinanza dovuta al ruolo della rete, è percepita alle porte di casa sia dalle famiglie sia dalle imprese.
La dimensione informativa cresce, sia pure con le spaccature e le alterazioni introdotte dai regimi autoritari, che cercano di sezionarla e di balcanizzarla per creare reti “addomesticate”.
La rete commerciale patisce invece queste spaccature a causa di due effetti principali: l’impatto delle sanzioni, che ritaglia nuove divisioni tra aree geopolitiche, e la necessità di aderire alle prescrizioni, a volte scritte in apposti decreti e più spesso non scritte, dettate dai governi nel momento in cui lo scontro con l’avversario si fa generale.
Sanzioni e allineamento alle posizioni di governo riducono lo spazio globale della rete e il campo di raccolta della pubblicità: per la prima volta nella storia degli anni successivi alla crisi finanziaria, le Big Tech si trovano davanti ad un mercato che potenzialmente si restringe, subito dopo aver assistito all’esplosione “drogata” dalla pandemia.
L’impatto della guerra sulle iniziative antitrust
L’attenzione per la guerra degli utenti e dei politici potrebbe avere un effetto di diluizione dell’attenzione che, anche durante la pandemia, era invece vibrante nei confronti dei comportamenti anticompetitivi e delle violazioni della privacy attribuite a Big Tech.
In Europa, le iniziative legislative volte a limitare il potere di mercato delle piattaforme, hanno rallentato il passo: Margrethe Vestager ha annunciato che il Digital Markets Act, la legislazione volta a limitare il potere di mercato dei cosiddetti “gatekeeper”, ossia le piattaforme che abilitano di fatto l’accesso a internet e ai suoi servizi, verrà posticipata alla primavera del 2023 rispetto alla precedente scadenza dell’autunno 2022[2].
Negli Stati Uniti, invece, una nuova iniziativa legislativa, il Competition and Transparency in Digital Advertising Act, sembra andare in direzione di una decisa riduzione del potere di mercato dei massimi canalizzatori della pubblicità online, ossia Facebook e Google, e in particolare di quest’ultima.
L’iniziativa bypartisan del senatore Mike Lee (Repubblicano dello Utah) intende ridurre il potere delle grandi piattaforme digitali nella raccolta pubblicitaria[3]. La nuova proposta introduce una modifica legislativa del Clayton Act, una delle leggi antitrust più antiche degli Stati Uniti, risalente al 1921, aggiungendo un articolo dedicato specificamente alla pubblicità online.
In questo modo, la legislazione americana si avvicinerebbe a quella in discussione nell’Unione Europea e nel Regno Unito, segnando una tendenza che dovrà trovare attuazione nella collaborazione delle autorità antitrust sulle due sponde dell’Atlantico.
Secondo la nuova proposta, le piattaforme con ricavi pubblicitari superiori ai 20 miliardi di dollari non potranno possedere l’intero ecosistema della pubblicità online, ma dovranno venderne alcune linee per accrescere la competizione. “Società come Google e Facebook sono state in grado di sfruttare il loro tesoro di dati dettagliati degli utenti, che non ha precedenti nella storia, per ottenere un controllo stringente sulla pubblicità online” ha dichiarato il senatore Lee[4].
Questa imposizione di uno “spacchettamento” delle attività di advertising richiama le azioni dell’antitrust contro la concentrazione telefonica di AT&T all’inizio degli anni ‘80, quando serviva il 90% delle telefonate del paese e il 100% di quelle a distanza.
Secondo molti osservatori, la rottura del monopolio AT&T fu la necessaria premessa per la crescita innovativa del settore telefonico nei decenni successivi, anche se ciò non impedì ad AT&T di riacquistare alcune delle società scorporate.
Le implicazioni della nuova normativa sulla trasparenza della pubblicità online sono importanti anche per la possibilità di “svelare” e impedire le pratiche lesive della concorrenza che consentono oggi alle piattaforme, da Amazon in giù, di indirizzare l’accesso dell’utente online in modo che sia favorita l’offerta sponsorizzata o gestita dalla piattaforma stessa. Un tema, come noto, molto caro anche a Vestager.
La battaglia negli USA contro l’automoderazione dei social
Un fronte divenuto assai conflittuale dopo l’assalto trumpiano a Capitol Hill è quello della moderazione dei contenuti sui social network. Fronte più caldo negli Stati Uniti, la terra del primo emendamento alla Costituzione sulla libertà di espressione.
La Corte Suprema, con un verdetto a maggioranza, ha impedito l’entrata in vigore della legge del Texas tesa ad impedire la moderazione dei contenuti da parte delle piattaforme[5].
È assai probabile che, nella contrastata decisione della Corte, abbiano prevalso le ragioni che spingono, in particolare in questa fase di fortissime tensioni e contrapposizioni internazionali, la volontà di mantenere all’erta le piattaforme sul tema della moderazione dei contenuti. Ma la minoranza della Corte ha voluto esprimersi in senso contrario: questo fatto dimostra che la battaglia potrebbe ripresentarsi, magari per altre legislazioni statali, o in altra fase delle tensioni internazionali.
La legge del Texas era stata varata per contrastare gli interventi censori dei social network contro i messaggi di Trump durante l’assalto a Capitol Hill. Tra i giudici più conservatori, che si sono schierati contro la maggioranza, il giudice Samuel Alito sostiene che “non è affatto ovvio che debba estendersi alle aziende che gestiscono social media la discrezionalità editoriale che protegge, con il Primo Emendamento, la stampa e gli altri editori tradizionali”[6].
La crescente applicazione dell’intelligenza artificiale nella navigazione in rete, la diffusione di contenuti esterni sempre più integrati e mediati dalle app offerte dalle piattaforme, non fanno che rendere sempre più permeabile il confine tra contenuto esterno alla piattaforma e spazio editoriale concesso dalla piattaforma. Spazio che tende a configurarsi come parte del contenuto stesso, difficilmente separabile con il regolo della carta stampata.
Le urgenze della guerra hanno prevalso nell’attuale valutazione di opportunità della Corte Suprema, ma la questione del moderatore e della responsabilità della piattaforma si affaccerà, presto, con nuovi casi giudiziari che potrebbero riaprire il dibattito e proporre nuove soluzioni, influenzate dalla gravità della crisi internazionale.
________________________________________________________-
Note
- Olivia Nemec, Havovi Cooper, Samara Abramson, “What happens when Elon Musk moves markets with a tweet”, Businessinsider, May 30, 2022. ↑
- Emma Roth, “The EU could start enforcing rules to regulate Big Tech in spring 2023”, The Verge, May 8 2022. ↑
- Makenzie Holland, “Digital Advertising Act aims to break up big tech ad platform,” Techtarget, May 26, 2022. ↑
- Ivi. ↑
- Cristiano Lima, “Tech won a key battle against Texas’s social media law. The war is far from over”, The Washington Post-202 The Technology, May 31, 2022. ↑
- Adam Liptak, “Supreme Court Blocks Texas Law Regulating Social Media Platforms,” May 31, 2022. ↑