l'analisi

Licenziamenti big tech, la rivoluzione digitale entra in una nuova fase: cosa aspettarsi ora

Le big tech sono in prima fila nei licenziamenti, ma non è una sorpresa. Il trend riflette la necessità di agilità per tutte le organizzazioni che devono sapersi adattare a questa nuova fase dell’economia, caratterizzata da un contesto competitivo ondivago e ambiguo, in cui ogni imprevedibile crisi

Pubblicato il 31 Gen 2023

Laura Cavallaro

Partner P4I

Marco Planzi

Partner, P4I

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In questi giorni basta inserire la parola “licenziamenti” nella sezione news del motore di ricerca Google per scoprire che il 2023 rappresenta l’anno dei tagli di personale nel mondo della tecnologia.

Amazon con 18.000 licenziamenti, Alphabet con 12.000, Meta con 11.000, Salesforce con quasi 8.000, Twitter con 4.000, IBM con altri 3.900, SAP con 3.000: questi sono solo alcuni dei ridimensionamenti annunciati. Persino una startup molto “cool” come Spotify ha annunciato 600 licenziamenti e l’elenco potrebbe continuare.

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L’industria tech in prima linea nei licenziamenti

Il Challenger Report, un’autorevole ricerca americana sul mondo del lavoro, ha definito l’industria Tech “the leading job-cutting industry” (il settore in prima linea nei licenziamenti), mentre al contrario i settori “fisici” come Industria ed Energia stanno assumendo. Non rimangono immuni nemmeno le sedi italiane di Meta e diAlphabet che hanno incontrato nelle scorse settimane i sindacati per condividere il piano di tagli del personale. Quanto è preoccupante questa situazione? Dobbiamo considerare questo crollo la fine dei risultati eccezionali delle imprese della Silicon Valley, che per molti anni hanno goduto di investimenti straordinariamente elevati rispetto al resto dei settori economici? È la vendetta dell’economia fisica nei confronti di quella digitale?

Dobbiamo deludere chi è rimasto sorpreso da queste notizie e anche chi, con un istinto revanscista, predica la “debacle” delle Big Tech. La risposta alle domande precedenti, infatti, è: “probabilmente no”. Piuttosto, dobbiamo capire che siamo in una nuova fase dell’economia e che le imprese – tutte – si stanno adattando. Per spiegarlo utilizzeremo tre luoghi comuni che, oggi più che mai, risultano veri nel mondo del lavoro.

Non ci sono più le mezze stagioni

È aumentato il ritmo al quale si succedono gli eventi economici e politici in grado di influire a livello globale.

La successione di shock uno dietro l’altro crea tempeste perfette che mettono in difficoltà chiunque, persino molte tra le imprese più invidiate del mondo, sia in senso negativo, sia positivo. La tripletta “pandemia, inflazione, guerra” ha reso evidente questa dinamica. Ecco perché “non esistono più le mezze stagioni”, da intendersi come passaggi graduali tra una crisi e l’altra, mentre governi, economisti e imprenditori non si chiedono più “quando arriverà la prossima tempesta?”, ma cercano di preparare l’economia a resistere in qualsiasi condizione.

Per questo le imprese cercano di essere sempre più flessibili e adattive a livello di scelte strategiche e a livello di forza lavoro, da acquisire quando si presentano opportunità (come accaduto per i servizi digitali durante i lockdown) e da ridurre in modo intelligente quando si materializzano rischi (come sta accadendo nei servizi digitali adesso, con una domanda che cresce a ritmi inferiori alle aspettative) o viceversa (come nel settore sanitario). Le Big Tech non fanno differenza e a ben vedere non sempre i licenziamenti riguardano figure appartenenti al settore tech nello specifico come Amazon, che ha annunciato il licenziamento di 18 mila dipendenti: la maggior parte fa parte del personale dei negozi come Amazon Fresh e Amazon Go, e delle funzioni di staff, che gestiscono ad esempio le risorse umane.

Oggi come oggi, non ti regala niente nessuno

Gli azionisti vogliono ritorni economici qualsiasi sia la loro provenienza, sotto forma di crescita del valore azionario o sotto forma di dividendi. Prendiamo il caso delle Big Tech: per anni la Borsa ha sostenuto le imprese tech che generavano utili bassi (in larga parte non distribuiti come dividendi e reinvestiti) o addirittura perdite, con la promessa di una crescita perenne del volume di affari. Nel 2021, in corrispondenza del boom digitale legato alla pandemia, l’indice NASDAQ – il listino per eccellenza dei titoli tecnologici – era cresciuto di oltre il 25% e il ritorno per gli investitori era garantito proprio dalla crescita delle quotazioni. Per la maggior parte di queste imprese, il 2022 ha significato un minore investimento e minore sostegno da parte della Borsa (la stessa borsa che le aveva sostenute quasi incondizionatamente) con il NASDAQ che ha perso oltre il 30% a fronte dei risultati deludenti in termini di crescita non solo degli utili, ma anche del volume di affari. Promesse tradite che si sono tradotte in un riallineamento tra la valutazione di borsa e l’effettiva capacità delle imprese tech di generare utili. È, quindi, una questione fisiologica: anche le imprese tech rispondono agli azionisti e, se non assicurano loro l’aumento del valore del titolo grazie alla crescita delle attività, si trovano a dover garantire il ritorno degli investimenti facendo delle scelte sul budget per salvaguardare gli utili. Ecco perché, oggi come oggi, non regala niente nessuno, a maggior ragione gli azionisti.

Le organizzazioni, quindi, devono essere agili e flessibili anche in questo senso: la necessità primaria è quella di essere sostenibili e allineati con le esigenze di mercati che cambiano e si evolvono molto velocemente, con lo stesso ritmo delle crisi che si succedono.

Sono sempre i migliori che se ne vanno

Il magazine americano Fortune riporta che chi ha cambiato lavoro negli Stati Uniti nel corso del 2022 ha ottenuto un aumento salariale medio del 16%. E il collegamento con fenomeni come la Great Resignation (o Grandi Dimissioni) e il Quiet Quitting – che danno un nome al disingaggio, al distacco e dalla delusione dei dipendenti nei confronti della propria organizzazione – è immediato. Quello che è interessante osservare è che solitamente le persone che si dimettono trovano lavoro velocemente e, nella maggior parte dei casi, guadagnano più soldi e ricoprono posizioni più elevate.

Nel caso delle Big Tech, assistiamo a opportunità nuove per gli ex dipendenti: le campagne di licenziamento si accompagnano a quelle di dimissioni volontarie, molto spesso da parte di chi sa di avere le competenze per trovare velocemente nuove occupazioni, proprio perché ha lavorato nelle più dinamiche imprese al mondo: i migliori che se ne vanno. Questa dinamica ha riversato in Silicon Valley una certa quantità di talenti per cui è facile trovare nuovi ottimi impieghi e nuove opportunità. Mentre Twitter licenzia, la banca JP Morgan annuncia una campagna di assunzioni di migliaia di ingegneri del software a livello globale e persino una pubblica amministrazione come l’US Department for Veterans Affairs ne approfitta e lancia la propria campagna di assunzione di 1.500 profili tech. Mentre Alphabet taglia, Day One Ventures, un fondo di investimento per startup in fase di seed, ha lanciato a San Francisco una iniziativa per finanziare le startup fondate da persone licenziate dalle grandi società tecnologiche.

Cosa ci insegna questo terzo luogo comune? Per chi ha le competenze giuste, in particolare digitali, questo è un mercato del lavoro denso di opportunità. In seconda battuta, è evidente che per un’organizzazione essere flessibili è importante, ma bisogna essere anche capaci di trattenere le persone chiave, anche quando il contesto richiede di diminuire la forza lavoro.

Non è il momento per fare revisionismo storico: siamo in una nuova fase

La rivoluzione digitale entra in una nuova fase, forse meno dipendente dallo sviluppo delle imprese Big Tech. Non è il momento per fare revisionismo storico sull’importanza e centralità del digitale nelle nostre economie e c’è almeno un buon motivo: è controproducente rispetto alle sfide che tutte le organizzazioni dovranno affrontare. Mentre le Big Tech fanno i loro conti con la loro organizzazione disegnata a partire dall’ipotesi irreale di una crescita infinita, le imprese dei settori tradizionali, soprattutto nelle economie sviluppate, per trovare nuova competitività devono ricorrere senza indugi alla leva digitale.

L’unica chiarezza che per ora ci è concessa, invece, è la necessità di agilità per tutte le organizzazioni che devono sapersi adattare a questa nuova fase dell’economia, caratterizzata da un contesto competitivo ondivago e ambiguo, in cui ogni imprevedibile crisi rappresenta un problema per alcuni (oggi tocca alle Big Tech) e un’opportunità per altri (oggi per le imprese tradizionali). Paradossalmente, se il trend americano dei licenziamenti da parte delle imprese tecnologiche si riverberasse anche in Europa, una maggior disponibilità sul mercato di professionalità specifiche provenienti dal mondo tech potrebbe essere di aiuto per accelerare la trasformazione di tutta l’economia.

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