È di fine agosto l’annuncio, apparso sul Sole 24 Ore e che conferma una prima indiscrezione di pochi mesi fa, che il Governo starebbe lavorando a un fondo da 200 milioni di euro gestito da CDP Ventures per finanziare l’ecosistema delle startup nel settore dell’intelligenza artificiale (IA). Cifra che dovrebbe poi complessivamente arrivare a 600 milioni di euro, grazie agli investimenti privati. Dopo anni di disattenzione nei confronti di questi temi, la notizia certamente rappresenta una nota di speranza, tanto più che nelle intenzioni dovrebbe essere accompagnata da una revisione del piano strategico 2022-2024.
Una accoppiata che avevamo già auspicato appena si era diffusa l’indiscrezione iniziale, per evitare che i soldi in assenza di una cornice di riferimento non fossero utilizzati oppure portassero a sprechi. Ora però, oltre a far presto occorre fare bene. E perché questo accada bisogna partire da alcuni dati di fatto e far tesoro delle esperienze (e soprattutto degli errori) del recente passato.
Quanto investe l’Italia nell’IA
L’annuncio di un fondo dotato di 200 milioni di euro di fondi pubblici ai quali si spera possano sommarsi fondi privati per una cifra all’incirca doppia rappresenta certamente un passo avanti rispetto alla scala di finanziamento finora dedicato all’IA, pari ad almeno un ordine di grandezza inferiore. Negli ultimi anni, il principale veicolo dedicato all’IA è stato il Fondo per lo sviluppo delle tecnologie e delle applicazioni di intelligenza artificiale, blockchain e internet of things, istituito presso l’attuale Ministero delle imprese e del Made in Italy, con una dotazione di 45 milioni di euro in totale (dunque 15 milioni di euro in media per tecnologia con un range di applicazione in 9 settori diversi, da industria e manifatturiero a sistema educativo, da cultura e turismo a salute e via dicendo).
Italia indietro nello sviluppo dell’IA
Nonostante la crescita del mercato e molte eccellenze del settore, le imprese italiane sono indietro rispetto alla media europea sia nello sviluppo che nell’adozione di IA. Per la prima, ci supera stabilmente da diversi anni negli investimenti anche la Spagna. Come certificano i dati OCSE sul venture capital, infatti, l’Italia ha superato quota un miliardo di dollari di investimenti cumulati dal 2012 nell’IA solo nel 2023 contro i 3,7 miliardi della Spagna, per non parlare di Germania (16,3 miliardi di dollari) e Francia (11,7 miliardi di dollari). Ma a batterci sono anche economie molto più piccole come Svezia (6,4 miliardi di dollari) e Olanda (1,5 miliardi di dollari).
L’adozione dell’IA nelle aziende
Passando all’adozione, secondo i dati Eurostat, nel 2021 solo il 6% delle aziende italiane impiegava almeno una tecnologia AI contro una media UE già bassa dell’8% (tranne la Danimarca con il 24%, nessuno Stato membro varcava la soglia del 20% e solo 10 raggiungevano almeno il 10%). A pesare sulla performance italiana soprattutto la presenza maggiore che altrove di piccole e spesso micro imprese. Quell’8% di media UE certificato da Eurostat è un po’ come il pollo di Trilussa: per le piccole aziende scende al 6%, per quelle medie risale al 13% e per quelle grandi raggiunge il 28%. Dunque, la dimensione aziendale, prima ancora della nazionalità, appare il principale predittore dell’adozione di intelligenza artificiale.
Dunque, occorre intervenire sia nello sviluppo che nell’adozione. Il fondo di venture capital chiaramente andrebbe a lavorare soprattutto sulla prima direttrice (quello dello sviluppo) ma la seconda è almeno altrettanto importante (considerato che riguarda la totalità delle imprese e delle altre organizzazioni). Sulla prima poi bisogna ricordare che purtroppo gli investimenti europei sono a loro volta molto più bassi di quelli americani. Secondo quegli stessi dati OCSE prima citati, nel 2023 i Paesi dell’Unione europea complessivamente considerati investiranno meno di un decimo rispetto agli Stati Uniti (6,1 vs. 67,3 miliardi di dollari).
La necessità di un approccio europeo
Dunque, mentre sull’adozione è giusto che ogni Paese faccia da sé, nello sviluppo tecnologico, che è a più alta intensità di capitale e presenta soprattutto rischi più elevati, bisognerebbe lavorare soprattutto per creare una massa critica adeguata, promuovendo la costituzione di un fondo europeo, aperto non solo agli Stati membri UE ma anche a Paesi vicini extra-UE che attraggono investimenti e dispongono di risorse umane e finanziarie di ricerca importanti, come Regno Unito, Svizzera e Israele. Con lo scopo di finanziare startup ma soprattutto far scalare rapidamente innovazioni disruptive, che non mancano di certo da questo lato dell’Atlantico ma che troppo spesso non sono in grado di realizzarsi, almeno secondo le ambizioni iniziali, oppure per farlo sono costrette ad emigrare altrove insieme a chi le sviluppa.
Il possibile ruolo delle regulatory sandbox
In questo senso, uno strumento importante che non costa nulla è quello delle regulatory sandbox, cioè spazi controllati di sviluppo tecnologico sperimentale con oneri amministrativi e regolamentari abbattuti per un periodo di tempo limitato. In questo modo, soprattutto le startup potrebbero sviluppare più facilmente e rapidamente le proprie idee che, qualora la sperimentazione avesse successo, anche dal punto di vista della sicurezza dell’applicazione, potrebbero poi avere un’applicazione massiva.
L’AI Act europeo, attualmente alle battute finali a Bruxelles, dovrebbe rendere obbligatorio per ciascuno Stato membro costituirne almeno una, incoraggiando anche sandbox transnazionali, utili appunto a scalare rapidamente idee innovative a livello continentale superando uno dei limiti attuali del (non) mercato unico. La Spagna, che sull’IA ha puntato già da alcuni anni, con la costituzione di un ministero dedicato, è stato il primo Paese a proporne una e peraltro ha recentemente costituito un’agenzia per la supervisione dell’IA (chiamata AESIA), che tra i suoi compiti ha quello di gestire la regulatory sandbox.
Una strategia che impari dagli errori del passato
Dopo tentativi iniziati all’inizio del 2019, con il lavoro di un gruppo di esperti chiamati a redigere la strategia italiana, che originariamente avrebbe dovuto essere inviata a Bruxelles entro il giugno del 2019, i cambi di governo che di volta in volta cambiavano le persone ma anche le organizzazioni e le deleghe sembravano cadere a fagiolo per disfare la tela faticosamente elaborata e costringere chi avvicendava i predecessori a tessere i fili da capo. Fatto sta che, dopo i due esecutivi presieduti da Giuseppe Conte e l’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi nei primi mesi del 2021, arriva finalmente il programma strategico IA 2022-2024, frutto di una collaborazione tra i principali Ministeri competenti che certamente superava il principale difetto metodologico dei tentativi precedenti.
Il piano riprende ma anche sviluppa nuove idee rispetto alle precedenti stesure, il documento è, almeno sulla carta, molto forte e completo, soprattutto nello sviluppo delle tecnologie. Le 24 policy previste sono ampiamente condivisibili. Si va dalle 5 che riguardano i talenti e le competenze alle 8 della ricerca e alle ben 11 delle applicazioni.
Le perplessità riguardano semmai quello che non c’era e l’attuazione di quello che era previsto. Il piano strategico aveva infatti tre limiti evidenti: durata, assenza di qualsiasi cenno all’adozione di aziende e cittadini e fondi.
Un orizzonte temporale troppo limitato
L’orizzonte triennale (2022-2024) non ha consentito di valorizzare una visione strategica, che deve necessariamente essere di medio-lungo periodo. Si sarebbe potuto scegliere un intervallo di 5 anni come hanno fatto altri Paesi, il che peraltro nel nostro caso avrebbe permesso di traguardare il PNRR, che come noto scade nel 2026. Una soluzione alternativa sarebbe stata quella di prevedere una visione di più lungo termine, con delle linee di indirizzo sulle quali innestare un piano di più breve termine, di durata triennale.
Le lacune sull’adozione delle tecnologie
Ma è nell’adozione delle tecnologie IA che il programma strategico, pur prevedendo alcune misure, presentava forse i difetti maggiori, in particolare trascurando del tutto due tasselli fondamentali: la formazione delle imprese e l’informazione dei cittadini.
Sul primo aspetto, accennava genericamente a campagne di comunicazione rivolte alle imprese, ma ricordando i precedenti (i pur encomiabili road show del Piano Industria 4.0) evocava tutt’al più a iniziative una tantum o comunque non sufficienti a colmare il gap di competenze delle Pmi, a cominciare dal management. Mancava invece del tutto la dimensione dell’informazione e del coinvolgimento attivo dei cittadini, componente molto presente nelle precedenti versioni (e anche nella prospettiva europea). Con rischi di tech backlash (o più banalmente di difficoltà di comprensione delle nuove tecnologie) ben evidenti sullo sfondo. Che sembrano peraltro confermati da alcuni recenti sondaggi, come quello svolto nel maggio 2023 da You Trend per la Fondazione Pensiero Solido su un campione rappresentativo della popolazione italiana adulta. La maggioranza dei rispondenti (il 54%) si sente per nulla o poco preparata sul tema IA, con solo il 6% che si dichiara molto preparato.
L’incertezza sui fondi stanziati
Infine, l’attuazione di qualsiasi strategia passa attraverso le maglie delle somme effettivamente stanziabili. Nel piano strategico 2022-2024, si citano risorse molto importanti (facendo opportunamente riferimento per ogni singola azione alle corrispondenti “possibili fonti di investimento”), in gran parte già ricomprese nel PNRR, ma senza alcun impegno certo che riguardi i singoli progetti IA. Quasi sempre si tratta infatti di importi già postati per una missione più ampia e dunque fin dall’inizio era poco chiaro quali risorse potessero effettivamente essere allocate alle azioni comprese nella strategia. Forse sarebbe stato più utile immaginare una cifra, magari più bassa, ma impegnabile con certezza sulle misure previste. Il rischio era infatti quello di obbligare le amministrazioni competenti per le singole iniziative a mettersi alla ricerca dei rispettivi finanziamenti, dovendosi accontentare di quello che sarebbero riuscite a trovare ma facendo venir meno il legame tra i diversi tasselli della strategia. Come puntualmente avvenuto, nonostante tutto questo fosse ampiamente prevedibile.
Un’occasione da non sprecare
Dunque, oltre a fondi dedicati (che per coprire i diversi aspetti prima citati dovrebbe andare di molto al di là dei 200 milioni di euro annunciati), serve una strategia che possa costruire tutte le premesse per impiegarli al meglio (e magari attrarne degli altri). Altrimenti, si rischia di fare come per altre esperienze precedenti, francamente poco edificanti, come per l’incredibile vicenda di ENEA Tech, oggi ENEA Tech e Biomedical con spostamento di fondi per centinaia di milioni di euro e di relative risorse umane senza alcuna reale strategia e soprattutto a colpi di emendamenti di bilancio, in base alle idee improvvisate del momento o a lotte di potere.
Dunque, qualora il Governo attuale volesse affrontare seriamente il problema, farebbe assolutamente bene a promuovere un aggiornamento del piano strategico 2022-2024, allungandone la prospettiva temporale ma anche il campo di gioco. Provando a tornare alla visione olistica che muoveva il primo tentativo di strategia che, cercando una via italiana rispetto a quelle già formulate nel 2018 da Paesi come Francia e Germania, guardava agli impatti complessivi dell’IA sulla società. Dunque, non solo alla ricerca & sviluppo ma anche all’adozione nelle imprese, anche quelle più piccole, e presso i consumatori. Prevedendo interventi coerenti in un orizzonte temporale adeguato e secondo una governance attuativa prestabilita. La strada è dunque in buona parte già tracciata e, imparando dagli errori del passato e tenendo conto degli sviluppi più recenti (tra i quali l’IA generativa, che ha impresso una significativa accelerazione a un’applicazione tecnologica di massa e che senz’altro pone delle sfide aggiuntive), non rimane altro che percorrerla a passo certo e con traiettorie coerenti.