La disputa recentemente insorta tra il social network Twitter e l’ormai ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha riportato all’attenzione del pubblico, e non soltanto dei giuristi, il tema dello statuto giuridico dei prestatori di servizi digitali.
La questione, lungamente dibattuta nel corso degli ultimi anni, è stata spesso al centro delle riflessioni dei commentatori e di numerose decisioni giurisprudenziali (in Italia come in Europa), senza che però lo stallo in cui si versava dal punto di vista normativo accennasse a venir meno.
L’Europa verso il Digital Services Act
Di recente, tuttavia, le istituzioni dell’Unione europea hanno manifestato l’intenzione di intervenire in via di regolazione con la proposta di regolamento nota come Digital Services Act.
Diciamo subito che l’atteggiamento di esitazione a compiere un passo che andasse esplicitamente nella direzione di una regolazione non deve destare sorpresa, soprattutto se si pone mente alle condizioni (giuridiche, economiche e culturali) che avevano fatto da sfondo all’adozione, tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa, delle prime norme in materia.
Non è nemmeno un caso, forse, secondo un ideale parallelismo, che prima che in Europa venisse formulata la proposta di regolamento sopra ricordata, anche negli Stati Uniti si sia timidamente tentato di riproporre una discussione sul tema, pur nel contesto di una contrapposizione fortemente personalistica tra Trump e alcuni social network, Twitter su tutti, nell’infuocato contesto preelettorale ed elettorale statunitense.
Guardiamo dunque al merito di questo “clima” anche giuridico.
La “Section 230” e l’immunità dei prestatori di servi negli Usa
Negli Stati Uniti, come noto, i prestatori di servizi hanno beneficiato di un regime di grande favore, imperniato sulla previsione della Section 230 del Communications Decency Act (CDA), il primo atto approvato dal Congresso nel 1996 con il quale si cercò di evitare che Internet potesse diventare una zona franca rispetto allo spazio reale. Questa previsione sancisce ancora oggi una immunità di ampio respiro rispetto alle attività di moderazione dei contenuti realizzate “in buona fede”, secondo la Good Samaritan clause, da questi operatori. Si tratta di una disposizione che ha rivestito vitale importanza per la nascita e l’espansione del web come lo conosciamo oggi (un recente volume di Jeff Kosseff non a caso ha ribattezzato questa previsione come “The Twenty-Six Words That Created the Internet”), consentendo di mantenere i prestatori di servizi indenni da possibili conseguenze sanzionatorie legate all’attività di moderazione dei contenuti da loro condotta, al di fuori di un novero limitato di casi.
I casi CompuServe e Prodigy: le differenze tra editori e prestatori di servizi
Questa previsione venne stabilita al precipuo scopo di evitare che per via pretoria si potesse addivenire a una equiparazione tra i prestatori di servizi e il ruolo degli editori; un’equiparazione a cui dopo la prima sentenza in materia, risalente al 1991 nel caso CompuServe (che l’aveva esclusa, ritenendo invece preferibile la figura del distributor), la Corte suprema dello Stato di New York era giunta nel 1995 nel caso Prodigy. In quest’ultima sentenza i giudici avevano argomentato che la presenza di un team di moderatori e di alcune linee guida destinate agli utenti della piattaforma consentissero di qualificare l’operatore alla stregua di un editore e non di un mero distributore, come tale soggetto di uno standard di responsabilità più rigoroso (e così, di condannarlo per non aver tempestivamente agito su alcuni contenuti).
L’intervento del Congresso nel 1996
L’intervento del Congresso nel 1996 volle sgombrare il terreno da questo possibile equivoco, evitando che attività virtuose volte a garantire un maggior “ordine” come la moderazione dei contenuti potessero essere causa di una responsabilità editoriale. Naturalmente questa disposizione risale a un’epoca in cui Internet non era ancora popolata, come lo è oggi, dai cosiddetti “giganti del web”, e dove dunque l’assenza di concentrazioni di potere in capo a pochi soggetti lasciava presumere che potesse realizzarsi e coronarsi l’ambizione di un libero mercato delle idee, ossia la declinazione digitale di quel “marketplace” teorizzato da Justice Holmes nel 1919 nella sua celeberrima dissenting opinion nel caso Abrams v. United States. Non è un caso che questa disposizione sia stata al centro di numerosi dibattiti tra i commentatori statunitensi, alcuni dei quali non hanno mancato di sottolineare come proprio l’atteggiamento di grande apertura coltivato dal legislatore alle origini abbia finito per immettere nelle mani di pochi soggetti un potere di mercato molto importante.
Le “esenzioni” del Digital Millennium Copyright Act
Nemmeno è un caso che per alcune tipologie di infrazioni la regola della esenzione di responsabilità sia stata temperata con la previsione di meccanismi di notice and take down, come in ipotesi di violazione del diritto d’autore, che ricadono sotto le previsioni del Digital Millennium Copyright Act.
Queste regole erano parse all’epoca quelle più adatte a dare corpo allo spirito del costituzionalismo statunitense sul Primo emendamento, magistralmente affrescato nella sua declinazione digitale dalla sentenza nel caso Reno del 1997 dalla Corte suprema.
Le prime misure messe in campo dall’Europa
L’Europa, caratterizzata da un sentire costituzionale più mite rispetto alla tutela di questa libertà, non a caso scelse di guardare a questo secondo modello, fondato sul meccanismo di notice and take down, e non al primo, imperniato sulla Good Samaritan clause, introducendo nel 2000 la Direttiva sul commercio elettronico.
Questo provvedimento, se da un lato ha evitato in qualche modo che l’Europa fosse una facile terra di conquista per gli operatori di estrazione statunitense cresciuti nella Silicon Valley, per altro ha dimostrato in poco tempo la sua inadeguatezza al cospetto della complessità dei servizi e dei modelli di business sottostanti.
Questo primo spaccato sarebbe già di per sé sufficiente a spiegare le ragioni che hanno spinto il legislatore dell’Unione europea, complici anche i risultati non entusiastici dei tentativi di autoregolamentazione e co-regolamentazione finora percorsi, a progettare un intervento in materia, sulla base dalla consapevolezza della obsolescenza delle regole sulla responsabilità dei prestatori di servizi ma anche che queste ultime non bastano più a intercettare la complessità del ruolo dei prestatori di servizi nella sfera digitale.
C’è, infatti, negli accadimenti della recente attualità una chiave di lettura diversa e complementare di quella relativa alle regole sulla responsabilità per la moderazione dei contenuti. È qui che una interpretazione prettamente civilistica delle vicende inerenti ai prestatori di servizi digitali si associa e affianca, senza venire meno, a una matrice di carattere costituzionale.
Il rapporto tra democrazia e potere
I tentativi di riforma recentemente emersi mirano infatti a rispondere a domande che intercettano il rapporto intimo tra democrazia e potere; laddove per potere si intende non soltanto quello esercitato da autorità e attori pubblici (per sua natura “costituzionalizzato” e quindi in quanto tale assoggettato a una serie di limiti), ma anche e sempre più quello nelle mani di attori privati.
L’esempio citato in apertura documenta questa problematica giustapposizione tra dimensione pubblica e dimensione privata: se “sulla carta” quello tra Trump e Twitter, così come tra ogni utente e social network, è un rapporto prettamente civilistico, regolato da norme di diritto privato sulla base di un contratto in essere tra le parti, nei fatti questo rapporto assurge a una dimensione ulteriore.
La nuova natura di “potere” delle piattaforme digitali
È in questo frangente che si disvela la nuova natura di “potere” delle piattaforme digitali. Qui la rimozione di un post, la cancellazione di un commento o il blocco di un account, ancorché legittimati sulla base dei termini e delle condizioni d’uso del servizio, non rappresentano più, probabilmente, soltanto scelte compiute nell’alveo della propria autonomia negoziale da un soggetto privato ma diventano determinazioni dense di implicazioni costituzionali per la loro idoneità a incidere sulla sfera pubblica digitale.
L’equiparazione tra social e public forum
In termini strettamente giuridici la domanda riguarda la possibile equiparazione tra Internet (e i social network) e quello che nella giurisprudenza statunitense si è soliti definire un public forum, naturalmente deputato allo scambio di idee e opinioni tra individui e pertanto passibile solo di limitatissime restrizioni. Ammettere questa equiparazione condurrebbe ad assottigliare in misura assai significativa il margine di moderazione “privata” dei contenuti, allineando così di fatto lo statuto della libertà di espressione sulle piattaforme digitali a quello vigente al di fuori di questo ecosistema. Traducendo in altri termini, si tratterebbe di ammettere un’efficacia con effetti orizzontali della libertà di espressione.
La giurisprudenza in materia
Sono, questi, temi di cui vi è traccia anche nella giurisprudenza della Corte suprema, che proprio sul divieto generalizzato, previsto da una legge della North Carolina, di accedere a social network per soggetti che avessero riportato condanne per particolari reati si è pronunciata nel caso Packingham nel 2017, dichiarandolo contrario al Primo emendamento.
Anche la giurisprudenza di altre corti statunitensi ha avuto occasione di esprimersi su questo nodo, ma limitatamente a casi che avevano a che vedere con l’utilizzo di social network da parte di figure istituzionali (tra cui proprio Trump) e che dunque sono stati caratterizzati dalla qualificazione dell’account come un public forum utilizzato da uno state actor. In altri casi ancora in cui non erano in gioco figure pubbliche, come in PragerU v. YouTube, deciso dalla Corte d’appello del Ninth Circuit, si è invece affermato che un operatore come YouTube non svolge funzioni tradizionalmente riconducibili ad attori pubblici, escludendone così una possibile equiparazione.
Conclusioni
Fotografata da questo angolo visuale, la riforma che le istituzioni dell’Unione europea mirano ad attuare nel campo dei servizi (ma anche dei mercati) digitali rivela tutta la complessità delle trame che la percorrono.
Non è caso, come già ricordato, che anche negli Stati Uniti, con un Executive Order assai discusso, Trump avesse provato a emancipare il ruolo degli intermediari da quella veste (la Section 230 CDA) ormai divenuta troppo stretta probabilmente anche per loro stessi. Non è un caso neppure che prima di questo tentativo, i cui risultati concreti potranno essere valutati soltanto all’esito di un iter di discussione che si preannuncia complesso, le istituzioni dell’Unione europea avessero tentato di lavorare “ai fianchi” di questo quadro giuridico, procedendo con un approccio settoriale: prima con la riforma della disciplina sui servizi di media audiovisivi (la cosiddetta Direttiva SMAV 2010/13/UE), poi con la più recente e assai dibattuta Direttiva Copyright (Direttiva (UE) 790/2019).
Entrambe le mosse sono state accomunate dal tentativo di individuare un primo statuto giuridico delle piattaforme che andasse oltre l’eredità della Direttiva sul commercio elettronico, con regole particolari legate alla peculiarità del settore. I tempi per valutare la proficuità di questo approccio non sono ancora maturi, ma lo saranno forse più in là, a dibattito sul Digital Services Act in pieno corso.