L’indagine dell’Antitrust europea su Amazon ha il merito di portare a galla il problema delle condizioni spesso inique che i negozianti terze parti devono subire su un marketplace.
Tutto questo, in realtà, ha un’origine molto lontana e ha una strettissima correlazione con il recentissimo Regolamento UE 2019/1150 che, in parte e in qualche modo, tenta di combattere il fenomeno dell’abuso di posizione dominante dei grandi marketplace.
Ma i nodi principali restano irrisolti, soprattutto in fatto di tutela dei merchant, dato che il regolamento Ue non prevede divieti di alcun genere per arginare eventuali posizioni dominanti. In particolare molto va fatto ancora sul fronte della risoluzione delle dispute, la “mediazione b2b”.
Marketplace ecommerce: i nodi irrisolti
Il tema dei marketplace e dello sfruttamento dei dati aggregati relativi alle vendite di terzi veniva aperto per la prima volta, in seno alla Commissione europea, nell’aprile 2018.
Si ammise chiaramente una dipendenza delle piccole imprese da alcuni servizi online e si iniziò a parlare di pratiche commerciali potenzialmente dannose attuate dai marketplace verso dette imprese, tese a limitare le vendite di queste ultime (che con fiducia si affidavano alle grandi piattaforme) a vantaggio degli stessi marketplace.
Abbiamo già raccontato su Agenda Digitale di un nostro cliente vendor che, un bel giorno si vide spuntare un agente di un grande marketplace che acquistò tutti i gonfiabili a forma di “fenicottero rosa” che aveva in magazzino. Con buona pace degli amanti dei libri e dei viaggi, quell’anno gli europei spendevano molto per i fenicotteri rosa che risultavano ai primi posti delle classifiche di vendita.
Le motivazioni furono chiare: il grande marketplace presumibilmente studiava i dati di vendita degli altri per creare il monopolio sui principali trend di vendita, in un meccanismo commerciale praticamente perfetto e “diabolico”. Con rimpianto vi dico che avrei dovuto acquistare le azioni di quella società, quell’anno.
Trasparenza e concorrenza: i due problemi da affrontare
Ma tornando all’aprile 2018, in aula, si disse chiaramente che i problemi da affrontare erano principalmente due. Da una parte era necessario intervenire sulla la mancata trasparenza in relazione all’accesso e all’utilizzo da parte dei titolari delle piattaforme dei dati delle vendite effettuate dai merchant sulle piattaforme stesse. Dall’altra si evidenziò il problema della concorrenza tra il titolare del marketplace e il merchant stesso: molto spesso anche il titolare della piattaforma vendeva gli stessi prodotti del merchant con evidenti agevolazioni (anche grafiche, visive e di posizionamento), senza condizioni e termini seri e trasparenti.
Da qui nacque l’idea di una nuova categoria “debole” da tutelare, ovverosia i merchant nel rapporto con i colossi fornitori di servizi di marketplace.
L’azione dell’Antitrust Ue per arginare il potere dei marketplace
In quest’ottica oggi arriva la formalizzazione dell’accusa dell’Antitrust europeo nei confronti di Amazon, di cui si è già parlato e scritto abbastanza.
Tutto questo si incrocia con il regolamento UE 2019/1055 che, seppur ad oggi con impatto limitato, tratta il tema e lo fa molto esplicitamente, prima nell’articolo 7 denominato “trattamento differenziato” e poi nell’articolo 9, denominato proprio “accesso ai dati”.
Lo scopo del regolamento è però prettamente informativo (nei confronti dei merchant) e non agisce su eventuali divieti di attuare eventuali azioni dominanti.
In sostanza viene sancito l’obbligo per le piattaforme online di informare l’utente commerciale (cioè il merchant) su vari aspetti relativi alla possibile concorrenza della stessa piattaforma con i venditori.
Per esempio, secondo il regolamento, i marketplace sarebbero adesso costretti a rivelare qualsiasi tipo di trattamento differenziato e di favore applicato ai prodotti venduti direttamente dal titolare del marketplace, nonché i criteri di posizionamento all’interno delle serp interne alla piattaforma (i gestori dei marketplace sarebbero avvantaggiati dall’essere gli unici a conoscere detti criteri).
O ancora, ritornando ai temi che hanno costretto l’Antitrust ad intervenire, le piattaforme dovrebbero adesso dichiarare in che modo utilizzano i dati delle vendite dei merchant e a quali finalità, in modo da non sfruttare la posizione dominante in termini di analisi di dati aggregati, proprio al fine di evitare una concorrenza sleale.
Il Regolamento europeo si limita, tuttavia, all’obbligo di informazione. Non esistono al momento condotte vietate, se non quelle previste, appunto, dalle separate normative antimonopolistiche.
Mediazione P2B su un marketplace come negozi terze parti: le esperienze
La norma europea, però, nel disciplinare il rapporto tra merchant (negozi terze parti) e piattaforme, impone l’obbligo di attivare uno strumento di risoluzione alternativa delle dispute, la cosiddetta Mediazione P2B.
Si tratta di un arbitrato, il cui arbitro viene scelto dalla piattaforma.
In questi mesi, come studio legale, abbiamo seguito alcune imprese che hanno attivato, proprio nei confronti di Amazon la mediazione P2B.
Vi racconto le nostre prime esperienze. Prima di tutto i nostri clienti dovevano aver attivato le procedure interne alla piattaforma (il classico form dei reclami già previsto da molti marketplace ma che ora diventa obbligatorio per le medie e grandi imprese come da raccomandazione 2003/361/CE). Se questo strumento non sortisce effetto in un tempo ragionevole (mancata risposta o rigetto della stessa) si può procedere per attivare questa nuova procedura di mediazione, ai sensi del regolamento EU 2019/1150 (precisamente prevista all’art. 12).
Occorre quindi firmare il contratto del mediatore (il CEDR) e, unitamente ai vari documenti comprovanti i reclami e i piani d’azione esperiti, è necessario chiedere il consenso alla piattaforma (che in caso di adesione fornisce un codice per accedere alla mediazione vera e propria che avviene sul sito del mediatore).
Tuttavia, in tutti i casi da noi direttamente trattati, prima di approdare alla procedura di mediazione, Amazon ha con ogni evidenza analizzato seriamente la posizione dei nostri clienti giungendo all’accoglimento integrale delle richieste da noi formulate. In sintesi, a seguito della presentazione della richiesta di mediazione, è bastato uno scambio di osservazioni e di chiarimenti direttamente con gli operatori del marketplace per ottenere, nei casi di specie, la riattivazione dei canali di vendita dei nostri clienti vendor.
Diversamente, Amazon avrebbe potuto declinare la richiesta di attivazione della mediazione costringendo probabilmente i nostri clienti ad adire l’autorità giudiziaria (magari intentando una procedura cautelare, ma comunque con tempi più lunghi rispetto quelli propri di questo strumento introdotto dal nuovo regolamento) oppure, in alternativa, aderire e demandare la questione al mediatore. Quest’ultimo, al termine della procedura cartolare, ha di regola 40 giorni per analizzare la fattispecie ed emettere la propria raccomandazione, che comunque non è vincolante per le parti. Ad ogni modo, se il mediatore dovesse decidere che la richiesta di mediazione dell’utente commerciale è fondata, i costi della procedura sono interamente addebitati ad Amazon.
Efficacia? Per dare un giudizio diretto e sintetico… “ni”, ma meglio di prima!
Nel senso che, nei casi da noi affrontati, abbiamo carpito che Amazon, ad oggi, si rileva seria e tempestiva nell’analizzare la posizione del merchant e prevenire un’eventuale “condanna” da parte del mediatore, così evitando di dover pagare integralmente le spese.
I problemi delle attuali regole sulla mediazione B2B
D’altro canto, però, non ci si può esimere dall’osservare che la nuova normativa – seppure abbia accresciuto gli strumenti stragiudiziali – lascia ampio arbitrio alle piattaforme sia lato scelta del mediatore (seppur obbligato ad essere terzo e imparziale) che lato attivazione della procedura di mediazione. Poi, sta alla “coscienza” della piattaforma – come nei casi appena raccontati – non rischiare di pagare quello e l’altro nelle opportune sedi giudiziarie, comunque rimesse alla libera scelta del cliente (seppur sicuramente extrema ratio sia sotto il profilo dei costi che sotto il profilo dei tempi per giungere a sentenza).
Mediatori B2b per marketplace: l’esperienza
Vista sotto il punto di vista opposto, quello del marketplace, voglio infine condividere la nostra esperienza da mediatori P2B.
Durante i primi mesi di attuazione della normativa siamo stati contattati da diverse aziende, anche molto note, fornitrici di servizi di intermediazione online, come i marketplace, interessate al nostro servizio in qualità di arbitri mediatori esperti in diritto del web.
In tutti i casi abbiamo rilevato un disinteresse alle tariffe delle singole mediazioni poiché l’adeguamento veniva percepito come “mera formalità”: quello che serviva era esclusivamente il nostro nominativo, da inserire nei termini e condizioni, per assolvere l’obbligo di legge a conferma del fatto che, presumibilmente, le mediazioni non sarebbero mai state espletate, come già visto sopra nella nostra esperienza Amazon.
L’intervento di legge necessario
Appare quindi evidente la necessità di un intervento di legge che, oltre all’obbligo di informazione e predisposizione di strumenti non funzionali, includa anche una serie di condotte vietate, al fine di tutelare sostanzialmente e non solo sulla carta i merchant.
Del resto, in quel famoso aprile 2018, fu la stessa Commissione europea a certificare la “dipendenza” di alcune aziende dai grandi marketplace. L’inserimento di alcune clausole all’interno dei termini e condizioni, pur rendendo noti eventuali e ipotetici favoritismi verso i prodotti venduti dalle piattaforme a discapito di quelli dei merchant, non consentono comunque alle piccole aziende che vendono tramite i marketplace di rinunciare all’iscrizione agli stessi. Qualsiasi siano le condizioni previste da Amazon, i merchant continueranno comunque a iscriversi e vendere tramite la piattaforma, anche alla luce delle presunte violazioni monopolistiche in corso di accertamento da parte dell’Antitrust. E di questo, non si può non tener conto.