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Media e telco: la miopia regolatoria Ue mette a rischio il futuro



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L’approccio europeo alla regolamentazione di media e telecomunicazioni privilegia la tutela degli operatori tradizionali invece di stimolare l’innovazione, rischiando di aumentare il divario competitivo con USA e Cina

Pubblicato il 20 feb 2025

Augusto Preta

Founder e CEO ITMedia Consulting – Direttore International Institute of Communications



New media

L’attuale Amministrazione Trump ha mostrato, fin dall’inizio, di voler cambiare il modo in cui gli Stati Uniti intendono affrontare la trasformazione digitale, a partire dalla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, e, come ulteriore conseguenza, abbandonare, anche in questo ambito, il tentativo, perseguito in passato, di un approccio comune con l’Europa.

D’altro canto, nella stessa Europa, la regolazione del digitale ha dovuto fare i conti, nel corso degli anni, con incertezze e contraddizioni, che, a parere di chi scrive, la nuova Commissione, dovrà superate, soprattutto se vorrà affrontare, da una posizione paritaria, il confronto con gli Stati Uniti, sia in termini di IA (come emerso dal recente summit di Parigi), che di regolazione delle piattaforme.

La regolamentazione digitale europea

Vi sono infatti due prospettive, due visioni di fondo, alla base degli interventi europei nel settore. Uno, di politica industriale, che ha l’obiettivo di accrescere la competitività dell’Europa e di ridurre in questo modo il gap esistente con i grando leader mondiali: Usa e Cina.

L’altro, di natura etica e sociale, ispirato ai grandi valori della tradizione democratica europea, volto alla tutela dei principi costituzionali – quali ad esempio i diritti della persona, il diritto all’informazione, la tutela dei minori, i diritti di proprietà intellettuale / copyright  -, messi a rischio dall’affermarsi delle nuove tecnologie (IA in primis) e di nuove forme di distribuzione e diffusione delle informazioni da parte di soggetti (le grandi piattaforme digitali), non sottoposti per molto tempo a regole, e che hanno prodotto effetti, certamente non soltanto collaterali, nel modo in cui i cittadini/consumatori accedono alle informazioni (disinformazione, fake news).

Le criticità della regolamentazione europea

La prima criticità nasce proprio da questa duplice prospettiva: è evidente come non tutte le regole che funzionano per l’una, poi possano necessariamente funzionare anche per l’altra, rischiando di frenare e rendere ancor più problematica la loro applicazione.

La seconda ha a che fare con la legacy che il precedente modello di policy, in particolare la loro vigenza e compresenza anche ai nostri giorni, ha determinato nell’armonizzazione delle regole.

Percorrendo infatti a ritroso il percorso, il tentativo dell’Europa, convintamente perseguito dalla precedente Commissione, è stato di passare da una regolazione verticale di settore, come ad es. quella dell’audiovisivo (AVMS) e delle comunicazioni elettroniche (EEC Code), che ha caratterizzato storicamente l’approccio europeo, a una orizzontale e convergente, avente al centro l’economia e i servizi digitali e le piattaforme d’intermediazione che ne sono il fulcro.

I limiti della regolamentazione verticale erano infatti evidenti, perché separava mercati sempre più convergenti e, nel tentativo di adattarsi alla nuova realtà, tentava di creare un level playing field in un campo di gioco che nel frattempo era cambiato. Il suo fallimento è provato in primo luogo dal mancato raggiungimento degli obiettivi: dov’è la competitività dell’industria europea? Dove sono gli operatori europei globali?

La regolamentazione dei media audiovisivi e la prominence

Una regolazione “adattativa” che nel caso dell’AVMS partiva addirittura dagli anni ’80 del secolo scorso e veniva di volta in volta adeguata alla realtà del broadcasting che ormai era sempre più piccolo e destinato a diventare solo un segmento – in Europa e non solo – del ben più ampio ecosistema (video) digitale. Si voleva dunque trasferire la regolazione delle tv tradizionali, poi definite lineari, ai cosiddetti servizi non lineari (streaming VOD) e addirittura ai social media (video sharing platform – YouTube). Un’impresa titanica, sbagliata e con scarsissime possibilità di riuscita rispetto agli obiettivi, piena di obblighi e vincoli che distoglievano energie dallo svolgimento dell’attività imprenditoriale da parte dei soggetti regolati o che si volevano regolare.

Il cambio di paradigma con l’EU Digital Package

Si passa così al cambio di paradigma con l’EU Digital Package, che intende definire nuove regole nel mercato unico dei servizi digitali. Di questi, il DSA è un’iniziativa orizzontale che ha come focus principale la responsabilità in capo agli intermediari online rispetto ai contenuti di terzi, e la sicurezza degli utenti online. Il DMA riguarda, invece, gli squilibri economici e, nello specifico, tratta delle pratiche commerciali scorrette che possono essere poste in essere dalle piattaforme gatekeeper.

Tanto il DMA quanto il DSA pongono al loro centro i servizi di intermediazione digitale ed è importante chiarire come i presupposti per i quali si può ritenere necessario un intervento regolatorio possono essere giustificati, in quanto insiti negli ecosistemi delle piattaforme digitali, comprendendo forti effetti di rete, alte barriere all’ingresso o all’uscita, economie di scala e di scopo, controllo dei dati, eccetera.

Condividendo dunque gli obiettivi, emergono però limiti anche in questi pezzi di legislazione, sia in chiave di armonizzazione con le precedenti Direttive (AVMS, EEC Code ed E-commerce), sia in rapporto tra loro e con i più recenti interventi, quali l’European Media Freedom Act (EMFA) e l’AI Act.

La regolazione dei media

In tal senso, focalizziamoci dapprima sulla regolazione dei media. Se in generale ci sono evidenti somiglianze con la definizione di servizi di media (audiovisivi) della direttiva AVMS che si basa principalmente su “attività professionale” e “responsabilità editoriale”, il che è importante nel contesto dell’armonizzazione, è un po’ più problematica la loro applicazione, alla luce del fatto che l’EMFA e la direttiva AVMS perseguono obiettivi diversi (proteggere attivamente la libertà dei media in contrasto con un’armonizzazione minima per alcuni settori della diffusione dei contenuti audiovisivi al fine di accompagnare il principio del paese d’origine).

In questo senso, non tutte le offerte potenzialmente rilevanti per la formazione dell’opinione sono quindi coperte. Ciò è particolarmente rilevante quando si tratta del cosiddetto user empowerment, cioè della questione dell’applicabilità dell’EMFA ai contenuti generati dagli utenti, quale ad esempio quelli degli influencer sulle piattaforme di condivisione video o sui social network.

A ciò si aggiunge l’aspetto forse più controverso, poiché pur ribadendo, anche nell’EMFA, in coerenza con quanto affermato da DMA e DSA, il diritto per gli utenti alla personalizzazione dell’offerta in linea con i loro interessi o le loro preferenze (vedi tabella sopra), di fatto l’EMFA apre la strada a una limitazione di tale principio riconosciuto dal diritto dell’Unione, sotto forma di eccezione, sottolineando l’importanza “di garantire rilievo ai contenuti di interesse generale in modo da poter contribuire alla parità di condizioni nel mercato interno e al rispetto del diritto fondamentale di ricevere informazioni”, affermando che ciò non pregiudica le misure nazionali di attuazione degli articoli 7 bis o 7 ter della direttiva 2010/13/UE (la direttiva AVMS, appunto).

Una conseguenza di ciò è anche la possibilità, concessa ai broadcaster, che diventano i beneficiari di questa “eccezione culturale”, di far valere il principio della cosiddetta prominence, che dovrebbe garantire alla TV gratuita generalista una sorta di “privilegio di telecomando”, da estendersi anche alle smart TV con accesso a internet.  

Se è vero, peraltro, che questo ruolo è nelle mani di un altro gatekeeper, il produttore di apparati (es. Samsung), che sarebbe obbligato a dare accesso prioritario ai tradizionali canali TV invece di disintermediarli, dietro compenso commerciale com’è attualmente, proponendo direttamente le app dei servizi di video on demand come Netflix, Disney e Amazon Prime Video, il rovesciamento di questo modello in favore di tutti i broadcaster in chiaro rischia però, oltre a creare un precedente nella non applicabilità del power empowerment alla regolamentazione europea dei servizi digitali, anche di risolvere il conflitto tra interessi contrapposti dei diversi attori in gioco in favore di una parte, più che nella tutela del diritto del cittadino alla personalizzazione dell’offerta, non essendo quest’ultimo coinvolto ad alcun titolo nel processo.

La regolamentazione delle comunicazioni elettroniche e le nuove prospettive di policy

Questa stessa filosofia sembra emergere anche in tema di servizi di comunicazioni elettroniche. Sempre sul finire dello scorso anno, al termine del precedente mandato, la Commissione europea ha pubblicato i rapporti Draghi e Letta, che sono intervenuti sulla questione della regolazione delle telecomunicazioni. Sottolineando entrambi la necessità di un’industria che deve recuperare la competitività rispetto agli Stati Uniti, la soluzione proposta è quella di favorire il consolidamento dell’industria e magari la creazione dei campioni europei.

Ora, se nel caso del rapporto Draghi questa proposta rappresenta solo una componente di un discorso ben più ampio e che va raccordato con molti altri aspetti e settori trattati nel rapporto, tale per cui certe raccomandazioni non rappresentano comunque il punto di partenza della possibile strategia europea, nel caso del rapporto Letta, tutto incentrato sulle comunicazioni elettroniche, ciò che lascia perplessi è la mancanza di un’analisi approfondita e convincente  sulle caratteristiche dell’industria nelle due sponde dell’Atlantico.

Quel che non emerge con chiarezza sono i vantaggi per i consumatori derivanti dalla concorrenza, a differenza di quanto accade negli Usa, dove il consolidamento c’è già stato e gli utenti dei servizi non se la passano certamente meglio (tariffe più alte, minore qualità dei servizi). Al fine di favorire la nascita di potenziali concorrenti globali (?) si otterrebbe con certezza solo il risultato di eliminare 20 anni di efficace regolazione, rimettendo eventualmente e momentaneamente solo a posto i conti di alcune aziende in difficoltà, piuttosto che investire in innovazione e competitività.

Come nel caso dei servizi media, anche qui l’obiettivo primario non appare dunque quello di accrescere la competitività europea, attraverso interventi volti favorire la creazione di nuovi entranti, così da meglio competere con le grandi piattaforme globali, ma prevalentemente di sostenere soggetti già esistenti, messi in crisi dalla trasformazione digitale.

Oltre agli evidenti limiti dell’approccio europeo, che andrebbe in ogni caso sottoposto a revisione, come abbiamo cercato di evidenziare in questo contributo, va considerato anche come la congiuntura politica che vede l’amministrazione Trump difendere strenuamente gli interessi delle imprese nazionali, di cui le grandi piattaforme rappresentano una componente fondamentale, rendono ancora più necessario un mutamento di prospettiva, così come sta già avvenendo in materia di intelligenza artificiale.

In altri termini, nel riaffermare i propri valori e la propria cultura, l’Europa deve continuare a guardare avanti, non rinunciando ad innovare, ma anzi facendolo nel rispetto di regole che favoriscano la crescita e come tali siano “neutre”, rispetto al terreno di gioco e agli attori che vi si confrontano.

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