regolamento Ue

Mediazione P2B, le piattaforme online se ne infischiano: ecco perché serve l’Agcom

Il Regolamento P2B mira a promuovere equità e trasparenza nel rapporto tra piattaforme online e imprese, ma le prime non si sono allineate alle procedure. Eppure, il tema dei contenziosi tra marketplace e aziende che li utilizzano per farsi trovare dai consumatori è sempre più attuale e non può essere sottovalutato

Pubblicato il 12 Nov 2021

Monia Donateo

Polimeni.Legal

Antonino Polimeni

Avvocato, Polimeni.Legal

ecommerce

A oltre un anno dall’entrata in vigore e due anni dalla promulgazione del Regolamento europeo Platform to Business (P2B), praticamente tutte le piattaforme non hanno messo in regola le loro procedure, e a pagare sono sempre le piccole aziende (parti deboli oggetto di tutela del Regolamento).

Sulla base, di questa constatazione, lo studio legale PolimeniLegal ha appena inoltrato all’Agcom una segnalazione formale perché vengano assunti i necessari provvedimenti nei confronti delle grandi piattaforme online, che siano un monito per tutte quelle ancora sprovviste di adeguamento alla normativa.

Facciamo intanto il punto su come si risolvono le controversie che nascono tra piattaforma e utente business e se davvero il Regolamento ha migliorato o accelerato la risoluzione delle stesse.

Nuove regole per gli utenti commerciali delle piattaforme: che cambia dal 12 luglio

Il Regolamento P2B

Il Regolamento n. 2019/1150, entrato in vigore il 12 luglio 2020, mira a promuovere equità e trasparenza nel rapporto tra piattaforme online e imprese (chiamate Utenti Business), che spesso sono piccoli e medi commercianti che utilizzano una piattaforma per raggiungere un pubblico più ampio di acquirenti-consumatori.

Tra coloro che ricadono nella definizione di fornitori di servizi di intermediazione online, ai sensi del Regolamento P2B, vanno annoverati i Marketplace, tra cui i food delivery, i servizi di promozione professionale, i motori di ricerca online, nonché gli assistenti vocali che offrono servizi di ricerca.

Le controversie sulle piattaforme

Tutte le controversie che nascono tra piattaforma e utente business devono, in primis, passare per la procedura interna di risoluzione delle dispute (art. 11 del Regolamento) e, in assenza di risoluzione, per la procedura di mediazione quale strumento reso obbligatorio per le piattaforme che superano un fatturato annuo di 10 milioni di euro (art. 12).

Ebbene, una volta esperita la procedura interna – e salvata la prova del relativo inoltro o ricevuta di invio del reclamo – le strade da intraprendere possono essere due: diffida redatta ed inviata da un avvocato o richiesta di accesso alla mediazione prevista dall’art. 12 del Regolamento in questione (che può essere richiesta anche senza previa diffida). Su quest’ultima poniamo la nostra attenzione nel presente articolo: la mediazione p2b funziona?

I risultati ottenuti dal nostro studio fino a questo punto cambiano in base alla piattaforma, in quanto è sì vero che il Regolamento introduce l’obbligatorietà della nomina di due mediatori da parte delle piattaforme ma, di fatto, non disciplina opportunamente il procedimento di mediazione, rimettendolo al totale arbitrio della piattaforma.

Lo stato dell’arte della mediazione p2b

Partiamo dal recente caso trattato dal nostro studio nei confronti di eBay.

Il caso eBay

L’account coinvolto era presente da circa 20 anni su eBay con migliaia di feedback positivi, attivo nella commercializzazione di prodotti originali e comprovati come tali da licenze e fatture emesse dai rivenditori autorizzati.

Tuttavia, ad un certo punto, l’account veniva “definitivamente sospeso” (quindi, sostanzialmente, chiuso). L’aspetto più grave è che veniva sospeso senza preavviso e, dunque, senza dimostrare un’eventuale violazione.

Dalla ricostruzione dei fatti e documenti nonché dal modus operandi di eBay osservato nel tempo, è emerso – con ragionevole probabilità – che il blocco derivava anche dall’inerzia della piattaforma nel recepimento delle chiusure delle contestazioni sui prodotti effettuate da altri venditori o produttori (quelle ordinarie, che tutti i business di eBay possono ricevere).

Ai sensi dell’art. 4 del Regolamento europeo P2B n. 2019/1150, eBay avrebbe dovuto informare almeno 30 giorni prima della chiusura dell’attività adducendo le motivazioni su un supporto durevole. eBay ha violato la normativa provocando un danno economico ingente. Parimenti violata è la prescrizione relativa ai reclami interni (art. 4, comma 3, del citato regolamento), in quanto il merchant, nonostante l’invio di più reclami, non è mai riuscito ad avere un confronto diretto con la piattaforma.

L’esposizione delle motivazioni della chiusura, da parte di eBay, avrebbe dovuto identificare le ragioni della decisione e fare riferimento alle relative circostanze, incluse le segnalazioni di terze parti, che hanno condotto a tale decisione.

Ebbene sembrerebbe che, quantomeno per la mediazione p2b, eBay sia compliant alla normativa perché effettivamente indica, nei termini e condizioni, l’organismo di mediazione a cui rivolgersi, che nella specie è il CEDR dando specifica indicazione del Regolamento.

Tuttavia, procedendo come scritto, nel caso di specie non venivano fornite le necessarie informazioni sulle modalità per intraprendere la mediazione.

In assenza di una email di contatto, esistente soltanto per gli utenti consumer, si procedeva, tramite raccomandata, all’invio di una diffida richiedendo l’adesione alla mediazione.

eBay si è rifiutata di intraprendere questo strumento, adducendo una generica violazione delle proprie policy senza giustificare l’assenza di preavviso di chiusura dell’account, e dichiarava che:

“…è a discrezione di eBay accettare o rifiutare questa richiesta. Avendo riesaminato la questione nella sua interezza, e non trovando fallacia nelle azioni da noi intraprese, non abbiamo motivo di impegnarci in una mediazione con il CEDR. Pertanto, rifiutiamo la richiesta di mediazione e non riceverete il modulo CEDR compilato da parte nostra”.

Avrà agito conformemente al Regolamento?

La risposta per noi, ad oggi, è negativa. La conformità al Regolamento è solo apparente, affatto intuitiva (manca un indirizzo email di contatto per rendere agevoli le richieste) e, ovviamente, non si può sospendere un business dall’oggi al domani senza un principio di prova della violazione.

Whatsapp

I termini e condizioni di Whatsapp Business da settembre 2021 sono adeguati alla normativa P2B, almeno apparentemente.

Infatti, sebbene sia apprezzata la presenza di una email per richiedere il tentativo di mediazione (con notevole abbattimento dei tempi di riscontro rispetto ad una raccomandata, come è accaduto nel caso eBay), il Regolamento non è rispettato in toto.

L’art. 12, infatti, richiede espressamente la pubblicazione dei nomi dei mediatori nei termini e condizioni (“I fornitori di servizi di intermediazione online indicano nei loro termini e nelle loro condizioni due o più mediatori disposti a impegnarsi nel tentativo di raggiungere un accordo con gli utenti commerciali”).

Ebbene, Whatsapp invita all’inoltro di un’ulteriore email per conoscere il nome dei mediatori.

Abbiamo provato a richiederli e abbiamo scoperto che, prima di conoscerli, Whatsapp richiede un report dettagliato sulla vicenda da trattare.

Ecco, infatti, cosa risponde:

Apple

Apple, invece sembrerebbe essersi adeguata. L’azienda di Cupertino inserisce tutti i dettagli in un’informativa seria e completa:

“Gli sviluppatori stabiliti in e che offrono beni o servizi a clienti situati in un Paese soggetto a un regolamento platform-to-business (“Regolamento P2B”), come il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sulla promozione dell’equità e della trasparenza per gli utenti business dei servizi di intermediazione online, possono presentare reclami ai sensi di tale Regolamento P2B relativi alle seguenti tematiche all’indirizzo https://developer.apple.com/contact/p2b/*: (a) la presunta non conformità di Apple a qualsiasi obbligo stabilito nel Regolamento P2B che ti riguarda nel paese in cui sei stabilito; (b) problemi tecnologici che riguardano l’Utente e sono direttamente correlati alla distribuzione dell’Applicazione con licenza sull’App Store nel paese in cui è stabilito; o (c) misure adottate o comportamenti di Apple che riguardano l’Utente e si riferiscono direttamente alla distribuzione dell’Applicazione con licenza sull’App Store nel paese in cui è stabilito. Apple valuterà ed elaborerà tali reclami per poi comunicare il responso all’Utente. […] Apple identifica il seguente gruppo di mediatori con i quali è disposta a collaborare per tentare di raggiungere un accordo. Centre for Effective Dispute Resolution P2B Panel of Mediators 70 Fleet Street London EC4Y 1EU Regno Unito https://www.cedr.com/p2bmediation/”.

Al momento, seppur documentalmente Apple sembrerebbe perfettamente compliant con la normativa, non abbiamo casi in studio che ci abbiano consentito di testare il servizio di mediazione.

Google

In caso di sospensioni o chiusure, i clienti Business del nostro studio Polimeni.Legal hanno sempre ricevuto riscontro nei ticket aperti con Google, pur tuttavia rimanendo oscure le motivazioni sottostanti ai provvedimenti. In sostanza Google ha sempre risposto, rimanendo però vaga sulle ragioni delle sospensioni.

Occorre poi rilevare che Google ha spesso dissimulato un’azione di vera e propria cancellazione (per cui, come detto è necessario un preavviso di 30 giorni) con quella di sospensione per cui può non essere previsto alcun preavviso (esprimendo proprio la dicitura “sospensione dell’account” nella comunicazione all’utente), stante comunque l’obbligo di motivazione che, come detto, è del tutto mancante. Tuttavia, nelle fattispecie occorse, si è trattata di una cessazione de plano del servizio avvenuta senza preavviso, con evidente violazione dell’art 4 del Regolamento P2B.

Abbiamo quindi scelto di richiedere la mediazione tramite form Google.

Il primo problema risulta l’assenza di una richiesta di mediazione in lingua italiana (prevista dalla normativa).

Il secondo problema è che non vi è traccia dell’avvenuta compilazione ed inoltro del form e né è mai pervenuta una comunicazione di adesione o rifiuto a procedere alla mediazione dinanzi all’organismo CEDR (quello prescelto da Google).

Facebook

Facebook risulta il caso più frequente ed anche rognoso.

Sono moltissime le aziende che si son viste chiudere o limitare un account, con conseguenti enormi danni. Si pensi anche che il Business Manager di Facebook ha un sistema che premia la storicità degli investimenti (più hai speso negli anni, più puoi investire in campagne) e che le pagine Facebook delle aziende contengono anche centinaia di migliaia di euro di investimenti in contenuti e copy, nonché numerosissimi contatti. Se un account aziendale viene chiuso, questo può provocare una vera e propria crisi aziendale.

Cosa accade quindi in caso di sospensione definitiva?

Innanzitutto, anche in questi casi i provvedimenti risultano assolutamente privi di motivazioni.

Inoltre, sebbene la procedura di gestione interna dei reclami sia già presente, in caso di rigetto e conseguente necessità di ricorrere alla mediazione Facebook si è limitata alla sola creazione di una pagina di “Avviso Platform to Business” in cui avvertono che “Se non riusciamo a risolvere il problema tramite il nostro sistema di gestione dei reclami, il venditore può sottoporre il problema ai nostri mediatori nominati. Il venditore può tornare qui per avere informazioni aggiornate sui nostri mediatori”.

Eppure, seppure Facebook inviti alla mediazione, non vi è ancora traccia della nomina dei due mediatori. Di fatto manca un vero e proprio aggiornamento, “Il venditore può tornare qui per avere informazioni aggiornate sui mediatori” che ancora, a distanza di oltre un anno, non sono state pubblicate.

Pertanto, attualmente, se Facebook limita in qualsiasi modo un account Business, l’unico strumento disponibile a seguito di un infruttuoso reclamo interno, rimane il giudizio.

Amazon

Amazon è compliant con la normativa ed indica regolarmente i mediatori.

Secondo la nostra esperienza, però, Amazon tenta di risolvere la controversia prima di arrivare alla mediazione.

Infatti, nei casi in cui Amazon ha fornito riscontro negativo nell’ambito del reclamo interno esperito direttamente dall’utente business, abbiamo richiedere il consenso a demandare la decisione all’organo di mediazione, completando il form.

Prima ancora che Amazon potesse comunicare il suo eventuale consenso (ovvero un codice per adire l’organo di mediazione) ha risolto la questione del cliente Business (dunque, nelle fattispecie affrontate, sblocco account, sblocco delle somme, etc).

Pertanto, fino ad oggi, sulla base della casistica trattata dal nostro studio, sembrerebbe che Amazon stia evitando di arrivare fino alla fase di mediazione, escludendo il rischio di dover sopportare il 100 % delle spese di questo strumento. Come detto ogni piattaforma ha il suo regolamento. Ebbene, secondo quello di Amazon, in caso di soccombenza della stessa, le spese inizialmente sostenute dall’utente vengono rifuse dalla piattaforma. Ma anche questo punto è rimesso al libero arbitrio o meglio allo spirito negoziale delle parti contrattuali (piattaforma e organo di mediazione prescelto). Il Regolamento europeo, al considerando 41, ci dice soltanto che “I fornitori di servizi di intermediazione online sostengono una parte ragionevole dei costi totali della mediazione in ogni singolo caso. La parte ragionevole dei costi totali della mediazione è determinata in base alla proposta del mediatore …”.

In sostanza, l’impressione è che Amazon prenda in considerazione le richieste degli utenti business solo al momento dell’istanza di mediazione, risolvendole sempre. Ad onor del vero, nei casi trattati dal nostro studio, i vendor avevano sempre ragione e ciò era lampante sin dalla sottomissione del caso ad Amazon nella procedura preliminare di reclamo interna. Tuttavia, come spesso accade con le grandi aziende, probabilmente queste (o gli algoritmi di queste) non analizzano bene la documentazione comprovante l’errato provvedimento di sospensione. Analisi che invece viene evidentemente fatta nel momento della richiesta di mediazione.

Regime sanzionatorio e implementazione italiana del regolamento P2B

Il Regolamento P2B non contiene alcun regime sanzionatorio, ma ha “delegato” a ciascun membro dell’UE la responsabilità di adottare gli strumenti giuridici che ritiene necessari per garantire il rispetto di tale regolamento. Difatti, l’art. 15, comma 2, dello stesso Regolamento P2B, ai sensi del quale “Gli Stati membri adottano le norme che stabiliscono le misure applicabili alle violazioni del presente regolamento e ne garantiscono l’attuazione. Le misure previste sono efficaci, proporzionate e dissuasive”.

Pertanto, il mancato adeguamento può avere gravi conseguenze, a seconda del paese specifico in cui si verifica la violazione.

Quindi, una piattaforma di servizi di intermediazione avente sede in un Paese UE o extra-UE sarà soggetta alle prescrizioni del Regolamento P2B e, per l’effetto, alle disposizioni e sanzioni del paese ove offre i propri servizi in favore di utenti commerciali e/o utenti di siti web aziendali, a condizione che questi ultimi offrano beni o servizi a consumatori situati nell’UE.

Il ruolo Agcom

L’Italia, dopo circa sei mesi dall’entrata in vigore del Regolamento, con la legge n. 178/2020, ha assegnato all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) il ruolo di garantire l’adeguata ed efficace applicazione del Regolamento UE.

L’Agcom, in qualità di Autorità preposta all’applicazione del Regolamento P2B, per l’effetto della predetta legge applicativa, ha il potere di emettere una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra il 2% e il 5% dell’ultimo fatturato annuo della società non compliant e, nei casi più gravi o di reiterata violazione delle prescrizioni (magari a seguito di diffida dell’AGCOM), ha il potere di disporre la sospensione dell’attività per un periodo massimo di sei mesi. Si veda, inoltre, la Delibera n. 200/21/CONS.

L’Autorità si propone di dar seguito alla piena applicazione del Regolamento con molteplici strumenti, tra cui l’avvio di un monitoraggio sul recepimento di alcuni requisiti, da parte delle principali piattaforme e motori

di ricerca attivi in Italia, nonché lo svolgimento di verifiche sull’attuazione dei criteri di trasparenza sul posizionamento degli utenti commerciali nei motori di ricerca, come previsto dalla Commissione europea.

In particolare, l’art. 1, commi 515 – 517 della legge di Bilancio 2021 ha previsto:

  • l’obbligo, per le società che forniscono servizi di intermediazione e motori di ricerca online di iscriversi al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC);
  • l’attribuzione ad AGCOM delle seguenti funzioni:
  1. garantire l’attuazione del Regolamento P2B attraverso l’adozione di linee guida, di codici di condotta e la raccolta di informazioni rilevanti;
  2. fatte salve le competenze dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM”) in materia di pratiche commerciali scorrette, verificare la corretta attuazione delle disposizioni di cui al Regolamento P2B e irrogare le relative sanzioni;
  3. l’obbligo di pagare un contributo ad AGCOM pari, in sede di prima attuazione, all’1.5 per mille dei ricavi realizzati in Italia, anche se contabilizzati nei bilanci di società con sede all’estero.

In particolare è l’Ufficio piattaforme, servizi digitali e platform to business a “curare i procedimenti e a svolgere le attività relative alle funzioni di regolamentazione, di vigilanza, anche attraverso attività ispettive e sanzionatorie finalizzate alla diffusione dei servizi digitali e dell’uso della piattaforma internet, monitorandone l’evoluzione tecnologica e di mercato […] Cura l’implementazione del Regolamento per l’enforcement del Regolamento (UE) 2019/1150 “Platform to business” e vigila sulla sua applicazione. Provvede all’elaborazione di metodologie e di strumenti finalizzati alla verifica della qualità dell’informazione sulle piattaforme digitali e della trasparenza dell’intermediazione algoritmica, anche attraverso tecniche di analisi di economia dei dati. Provvede all’attuazione e al monitoraggio degli Obiettivi digitali europei e cura i rapporti con i soggetti pubblici preposti alla loro realizzazione. Promuove e monitora lo sviluppo dei servizi e delle applicazioni digitali anche attraverso l’analisi dei nuovi scenari di consumo e di offerta per effetto dell’innovazione tecnologica”.

Come esercita il potere sanzionatorio l’Agcom?

  • D’ufficio, ove nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali venga a conoscenza di infrazioni;
  • Su denuncia dei soggetti interessati;
  • Su segnalazione della Polizia Postale e delle Telecomunicazioni, della Guardia di Finanza e degli Ispettorati Territoriali del Ministero delle Comunicazioni.

Al momento in cui si scrive, non risultano procedimenti sanzionatori nei confronti di intermediari di servizi online da parte dell’AGCOM in applicazione della normativa in questione.

Strategia legale

Posto che formalmente le sanzioni ora ci sono appare altamente consigliabile, lato piattaforma, un intervento di modifica effettivo ed efficace dei termini e condizioni secondo i requisiti del Regolamento P2B.

Lato utente business, ad oggi, in assenza di sanzioni da parte dell’Autorità Garante – che, di fatto, diventerebbero un impulso ad attuare in maniera seria lo strumento della mediazione – l’unica tutela è quella al livello di singolo rapporto contrattuale (Platform to Business), dunque un giudizio di tipo cautelare ex art. 700 c.p.c.

Questo può essere validamente intentato se sussistono i requisiti del fumus bonis iuris (ovvero ci sono tutti gli elementi fattuali e giuridici per ritenere che la piattaforma abbia violato il contratto con l’utente business e/o non stia rispettando il Regolamento europeo, quindi ad esempio non ha risposto ai relcami, ha sospeso l’account senza il preavviso di cui all’art. 4, etc. ) e il periculum in mora (ovvero un danno che continua ad aumentare e ad aggravarsi in attesa di un giudizio ordinario il quale, come noto, ha tempi incerti).

Il fatto di ricorrere a un giudice fa inevitabilmente perdere il senso delle mediazione di cui questa “riforma” si è fatta promotrice, in quanto è pur vero che le sanzioni sono state implementate (perlomeno formalmente) dai singoli Stati, ma – ad oltre un anno dall’entrata in vigore – sembrerebbe che solo poche piattaforme (tra le gate keeper) l’hanno veramente attuata, nel reale interesse di tutte le parti in gioco.

Conclusioni

Il tema dei contenziosi tra piattaforme ed aziende che utilizzano quest’ultime per farsi trovare dai consumatori è sempre più attuale e non può essere sottovalutato. Il fatto che il Parlamento Europeo si sia spinto fino alla redazione di un Regolamento ad hoc, fa intuire la portata del fenomeno e la reale necessità di tutela dei milioni di aziende europee che operano anche online.

Più volte, come Polimeni.Legal, ci siamo fatti promotori, anche tramite Agendadigitale.eu, di appelli alle autorità competenti perché sorveglino l’applicazione dello stesso.

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