pubblicità illegale

Meta smetta di lavarsi le mani sulla pubblicità illecita: la decisione Agcom-Tar

Il Tar Lazio ha smontato l’istanza cautelare presentata da Meta contro la delibera Agcom che la sanzionava e chiedeva di rimuovere attivamente la pubblicità sul gioco d’azzardo targhettizzata agli utenti italiani. Ecco con quali implicazioni

Pubblicato il 14 Apr 2023

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

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Non è stata sospesa la delibera dell’Autorità per le Garante nelle Comunicazioni (AgCom) numero 422/22/CONS con cui l’Authority ha prescritto a Meta di bloccare i contenuti sponsorizzati che pubblicizzano il gioco d’azzardo. Ora il Tar Lazio deciderà nel merito, ma già lascia intravedere il suo orientamento, sfavorevole a Meta.

Facebook deve agire contro la pubblicità illegale, l’ordinanza storica del Tar

L’ordinanza di rigetto dell’istanza cautelare presentata da Meta

L’ordinanza di rigetto dell’istanza cautelare presentata da Meta non entra – perché non può farlo – nel merito del ricorso presentato dalla società Irlandese che rappresenta, in Europa, la multinazionale di Mark Zuckerberg.

Ma la ragione con cui è stato escluso il periculum in mora (ossia il rischio di danno irreparabile in caso di prosecuzione dell’esecuzione del provvedimento) ha il sapore della stroncatura nel merito.

Il Tar Lazio, in composizione monocratica, ha preso atto della difesa di Meta, per cui “l’AGCOM pretende di fatto che Meta Platforms Ireland sorvegli attivamente i contenuti sponsorizzati e perciò le impone di adattare il proprio modello di business un nuovo regime di responsabilità … l’inibitoria di fatto impone l’allestimento di un filtro automatico per i contenuti sponsorizzati e ciò aggrava la violazione della libertà d’impresa di Meta Platforms Ireland. Infatti, Meta Platforms Ireland dovrebbe trasformare il suo intero modello di business con riferimento alle funzionalità pubblicitarie del Servizio Facebook”.

La stroncatura arriva, poco dopo – l’ordinanza è di tre pagine, intestazione compresa -: “anche ritenendo che il provvedimento impugnato prefiguri la linea di condotta da adottare con riferimento alla generalità degli “utenti business” che intendano sponsorizzare il gioco d’azzardo, non sembra poterne derivare – come prospettato dalla ricorrente – la necessità di trasformare il modello di business praticato dalla società, atteso che è pacifico che la ricorrente, con riferimento ai contenuti che sponsorizzano il gioco d’azzardo, già oggi svolge una specifica attività di controllo preventivo che si estrinseca nel rilascio di una “autorizzazione scritta” alla pubblicazione della singola inserzione (come previsto dagli standard pubblicitari relativi al servizio Facebook definiti dalla stessa ricorrente)”.

L’ordinanza, ovviamente, non è una sentenza, e non è nemmeno definitiva: tuttavia la valutazione della documentazione depositata proprio da Meta è il fondamento del provvedimento di rigetto dell’istanza di sospensiva.

Poco margine per la discussione del ricorso principale, a quanto pare.

Le implicazioni

Il preteso cambiamento del modello di business non è stato apprezzato positivamente dal Giudice del Tar Lazio che ha valutato l’istanza; questo perché, dalla documentazione allegata, si evincerebbe che un filtro è già presente e che, quindi, non vi sarebbe né necessità di aggravare la procedura, né, conseguentemente, alcuna lesione del diritto di impresa.

Va detto che tutte le piattaforme stanno, in un modo o nell’altro, “subendo” imposizione di filtri per mano legislativa o tramite provvedimenti amministrativi, come quello impugnato da Meta.

In qualche misura è comprensibile che resistano sul punto, dato che le spese per la moderazione dei contenuti – anche quelli business – sono elevate e tutto il settore – da Twitter a Facebook, appunto – ha tagliato selvaggiamente il personale addetto.

Conclusioni

Ricorso ed ordinanza lasceranno, prevedibilmente, il tempo che trovano; idem la sentenza.

Va sottolineato che la difesa di Meta consiste, essenzialmente, nell’esplicitare la problematica relativa al costo della moderazione dei contenuti e della compliance richieste sia a livello europeo con GDPR, DSA e DMA, sia con le singole normative nazionali.

E’ l’ennesima “puntata” di una serie vista più volte negli ultimi anni: le big tech che chiedono un mercato libero – più un Far West, per l’esattezza – e l’Unione europea che impone limiti, tramite interventi normativi o per mezzo di provvedimenti amministrativi di autorità indipendenti o, in alcuni casi, con le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione.

Il “Far West” cede sempre: va capito se a favore si un sistema equilibrato o se verso un sistema sovietico di controllo dei mezzi di comunicazione. Spesso, lato utente, la soluzione europea è stata equilibrata e tutelante; in altre situazioni, si è vista in modo chiaro la sovietizzazione del sistema.

Certo è che, nel caso che ci occupa, Meta aveva un obbligo giuridico tutto sommato equilibrato e non pare, in definitiva, che l’adempimento richiesto sia particolarmente esoso.

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