L’iter per creare una startup in Italia è lungo e farraginoso, e potrebbe essere semplificato, aumentando le probabilità di ottenere un’exit positiva. Ma, per raggiungere questo obiettivo, bisogna capire cosa non funziona nel nostro Paese.
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Come fare per superare l’equilibrio precario di una startup tecnologica in early stage
Partiamo, per capire, da un esempio pratico. Un giorno una startup in fase Seed manda il proprio executive summary ad un fondo di venture capital. Idea e team sono eccellenti. Inizia una lunga trattativa sul valore della startup. Passano sei interminabili mesi. La startup e il suo management team si concentrano per dimostrare la valutazione pre-money, a scapito dell’avanzamento strategico e operativo delle attività, mentre il fondo vuole applicare i suoi modelli. Scendono in campo avvocati ed altri soggetti per realizzare corposi term sheet, modelli per la valutazione della startup e tutta la burocrazia necessaria a perfezionare un investimento.
Finalmente (se non si rompe, come avviene sempre più spesso per proposte di termini irricevibili) si arriva a chiusura dell’operazione, un po’ irrigiditi da una nuova governance, arrivano i soldi e la startup riprende i lavori ma le cose non vanno come sperato. Alcuni mesi dopo la startup va in liquidazione con il team che rimugina su quei sei mesi “persi” nella de-focalizzazione per valutare “scientificamente” la loro startup oltre a tutti i costi burocratici connessi. Tempo prezioso che, con una negoziazione snella e veloce come quelle che avvengono fuori dall’Italia, non si sarebbe buttato. Probabilmente altre procedure avrebbero consentito alla nostra startup di rimanere competitivi e non morire, come spesso avviene a causa dell’equilibrio precario di una startup tecnologica in early stage.
Il fatto è che la valutazione pre-money in una startup, soprattutto in fase seed (priva di fatturato, o con ricavi molto bassi perché sono attinenti ad una mera validazione del modello di business e non ad un vero ingresso sul proprio mercato), è estremamente complessa e
per lo più soggettiva.
Le startup early stage in cerca di investimenti devono rispondere a una domanda: qual è l’obiettivo di una startup?
Ma è davvero necessario spendere così tanto tempo e denaro per definire un valore prima che siano stati raggiunti obiettivi di product market fit (PM/F: presenza di un mercato, ripetibilità d’acquisto e profittabilità) e metriche di scalabilità che vanno ancora conseguite? Vediamo cosa è consigliabile alle startup early stage in cerca di investimenti, e ai fondi che investono il denaro raccolto.
La domanda da porsi è la seguente: qual è l’obiettivo di una startup? L’obiettivo consiste nel realizzare aumenti di capitale periodici in funzione del raggiungimento di una serie graduale di obiettivi (milestones) verso una exit finale – sicuramente per gli investitori, che nel venture business entrano con esclusivo obiettivo di disinvestimento a multipli, delle volte per tutto il team.
Cos’è SAFE (Simple Agreement for Future Equity)
Nella Silicon Valley, il più importante e di successo acceleratore al mondo – Y Combinator – nel 2013 definisce inefficace, inefficiente e de-focalizzante la pratica della valutazione scientifica prima del round Series A e innova il fundraising pre-ricavi con un strumento che chiama SAFE (Simple Agreement for Future Equity).
Rimanda la valutazione scientifica al Series A, quando la startup avrà dimostrato di saper risolvere tanti problemi di base e avere metriche validate da analizzare.
Gli investitori, sottoscrittori del SAFE, avranno semplicemente uno sconto (di solito fino al 20-25%) da applicare al primo round “prezzato”, momento nel quale sarà effettuata una valutazione scientifica da parte di soggetti professionali. SAFE significa anche: Term sheet standard, semplicissimo e leggero (1 foglio A4), zero costi, firma in 24 ore e startup che non smette di lavorare per raggiungere il suo obiettivo, rendendo il raggiungimento dell’obiettivo – e quindi la bontà dell’investimento – stesso più probabile (o meno improbabile).
In pochissimi anni Y Combinator ha fatto scuola, e l’approccio SAFE è diventato la norma per la grande maggioranza degli acceleratori, dei Business angel, dei fondi di venture capital che operano in fase Seed, nei Paesi in cui la filiera startup è sviluppata come una vera e propria industria: quelli che funzionano, che producono unicorni anziché farli scappare o
ucciderli in culla, e l’Italia non è ancora tra questi.
L’approccio scientifico. I cinque modelli più seguiti
I modelli sono numerosi, ma di solito sono cinque quelli più seguiti: due modelli qualitativi e tre quantitativo/finanziari che vengono diversamente pesati, a seconda dello stadio di vita della startup.
I due modelli qualitativi
I due modelli qualitativi, denominati scorecard e checklist, sono stati messi a punto da business
angel americani e valutano gli elementi qualitativi in grado di garantire il successo di una startup:
- Metodo scorecard: prevede una comparazione pre-money con analoghe startup di settore a livello geografico;
- Il checklist valuta 5 tipi di asset intangibili che possano assicurare il successo della startup.
Entrambi i metodi hanno un tetto massimo (di prassi, non di regola) che ad oggi è di circa 10 milioni ciascuno negli USA (la metà in Europa, 2 milioni di euro in Itali)a. Fino al livello seed pesano tra il 30% e l’80% del totale del valore attribuito alla startup. Con l’arrivo del SAFE sono prevalentemente utilizzati per definire una soglia di probabilità di successo in chiave exit.
I tre modelli quantitativi
Si dividono tra Venture capital (tipico del mondo startup) e i due discounted cash flow (DCF per multipli e DCF a lungo termine); classicamente utilizzati per la valutazione di qualsiasi azienda (di qualsiasi dimensione) che attualizzano la quantità di cassa che la startup è in grado di generare in futuro.
Nel DCF per multipli si prende l’ebitda dell’ultimo anno proiettato (solitamente il 4°) e lo si moltiplica per il multiplo di settore, per poi attualizzarlo.
Nel DCF a lungo termine si suppone una crescita a ritmo basso ma costante. Simile al DCF a multipli al quale si aggiunge il cash-flow attualizzato derivante dall’attività perpetua nel tempo. Fino al Seed pesano insieme tra il 20% e il 70%.
Il venture capital si concentra sul ritorno che gli investitori si aspettano per aver un portfolio di investimenti profittevole. Si calcola prendendo l’ebitda dell’ultimo anno di
proiezioni finanziarie (di solito il 4°), lo si moltiplica per il moltiplicatore di settore e lo si attualizza. Fino al seed pesa il 15%.
Dallo stadio di espansione, cioè dal Series A in poi, i qualitativi e il Venture Capital scompaiono per cedere il passo totalmente ai due DCF (oltre a modelli basati su comparativi di settore) i quali definiscono il valore pre-money della startup in modo scientifico su più solide base.
Conclusioni
Tutti questi metodi sono in netto disuso nelle fasi precedenti al finanziamento della crescita (il series A dei fondi di Venture Capital) perché ancora in validazione di idea e modello di business (che sono le fasi relative ai finanziamenti pre-seed e seed), perché ovunque nel mondo si è arrivati alla piena consapevolezza che sia ben più importante garantirsi di non compromettere le già basse probabilità di successo di una startup, facendole perdere tempo o imponendole una valutazione sbagliata, che non “puntare” semplicemente su imprese con probabilità di arrivare a scalare.
Conviene rinviare la definizione puntuale della valutazione al momento del raggiungimento di obiettivi successivi ed accettare serenamente il fatto che, se alcune startup non raggiungeranno tali tappe, saranno plausibilmente degli investimenti persi (e quindi sarà anche meglio non infilarsi da soci in una procedura liquidatoria).
Il miglioramento della filiera italiana delle startup si basa sulla adozione (o per meglio dire il “copiare”) delle best practice internazionali, e il SAFE è una di queste. Ad oggi nel diritto italiano lo schema del SAFE è pienamente sdoganato da CDP Venture Capital attraverso gli investimenti in “convertendo” usati da Fondo Rilancio attraverso scrittura privata.
Sarebbe ora che tutti gli investitori italiani che intervengono prima dei Series A (acceleratory, family offices, holding di investimenti, business angels) si mettessero in testa che non è solo un vantaggio per le startup, ma è nel loro totale interesse passare massicciamente a questa forma di intervento nelle startup. Chi è convinto del contrario è solo per un suo deficit culturale.