Dall’UE agli USA, dalla Corea al Giappone, passando per India, Cina e Australia, le violazioni del diritto alla concorrenza operate delle Big Tech sono nel mirino delle Autorità Antitrust di tutto il mondo.
Gli effetti anticoncorrenziali delle grandi aziende digitali e le ripercussioni in termini di pratiche di esclusione, abuso di posizione dominante, fusioni e acquisizioni che alterano il libero gioco della concorrenza, sono infatti evidenti.
Il primo processo sul monopolio condotto dal Governo federale
Negli USA, sarà un giudice nominato dall’ex presidente Barack Obama a presiedere l’evolversi dell’importante caso antitrust contro Google, incentrato sulle accuse del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) e di diversi stati americani secondo cui la big tech avrebbe utilizzato pratiche commerciali illegali per consolidare il dominio del proprio motore di ricerca.
È il primo processo sul monopolio condotto dal governo federale in questo secolo e potrebbe segnare una svolta significativa nell’applicazione antitrust a livello globale.
Amit P. Mehta[1], questo il nome del giudice indiano-americano, assegnato alla Corte distrettuale degli Stati Uniti per il Distretto di Columbia dal 22 dicembre 2014, presiederà dunque l’attesissimo confronto giudiziario avendo “l’ingrato compito” di stabilire eventuali responsabilità di Google.
Ovvero accertare la sussistenza di “accordi di esclusione” aventi come obiettivo quello di limitare ai concorrenti l’accesso alla distribuzione delle ricerche e la presenza di presunti accordi con noti produttori di dispositivi che prevedevano l’installazione del motore di ricerca Google come opzione predefinita, escludendo o quantomeno ostacolando in modo rilevante il business di rivali come Bing e DuckDuckGo di Microsoft.
Le aspettative sugli esiti del processo sono ovviamente alte: la prospettiva è quella di giungere ad un’attenta analisi di come il gigante della ricerca su Internet possa aver consolidato il proprio potere. Saranno molte le testimonianze di alti dirigenti tecnologici, ingegneri, economisti e accademici. Tra questi anche Eddy Cue, vicepresidente senior dei servizi di Apple, per discutere degli accordi di ricerca dell’azienda con Google.
Kent Walker, presidente degli affari globali di Google, supervisionerà la difesa dell’azienda, mentre John E. Schmidtlein, partner di Williams & Connolly sarà l’avvocato principale di Google in aula. Del team di legali dedicati al contenzioso di Google faranno parte anche altri professionisti noti per aver preso parte alle cause antitrust del governo contro Microsoft nel 1998.
Il processo, iniziato martedì 12 settembre, dovrebbe durare 10 settimane.
Nel frattempo, all’inizio di questo mese, il giudice Metha ha già respinto quattro dei capi di imputazione inclusi nella causa intentata ritenendo che gli accusatori non siano riusciti a dimostrare se e come Alphabet possa aver danneggiato i rivali come Yelp e Expedia assumendo condotte rilevanti ai sensi dello Sherman Act.
Mehta ha in particolare evidenziato quanto le accuse mosse dai procuratori americani non si basassero su prove concrete, bensì, interamente sull’opinione e sulle speculazioni di esperti nominati.
“In poche parole, non esiste alcuna prova documentata di danno anticoncorrenziale”, ha ribadito il giudice.
“Un’azienda dominante come Google non viola la legge semplicemente perché occupa una posizione di monopolio sul mercato”, sostiene Mehta.
“Una società con potere monopolistico agisce illegalmente solo quando la sua condotta soffoca la concorrenza”.
Il problema dell’individuazione del mercato rilevante
Negli USA, la controversia antitrust del governo federale contro Google, come peraltro anche quella relativa a Facebook promossa dalla Federal Trade Commission e quella di Amazon riguardante le vendite al dettaglio, costituiscono i casi di monopolizzazione più importanti che siano stati portati avanti dalle agenzie federali negli ultimi decenni. Avviati durante l’amministrazione Trump, entrambi sono stati ereditati dagli incaricati dell’amministrazione Biden. Prima di questi, per poter fare riferimento a contenziosi di pari importanza, per quanto riguarda il Dipartimento di Giustizia, bisognerebbe risalire alla metà degli anni ’90 e al processo contro Microsoft. Per la FTC, invece, ancora più indietro, almeno fino alla fine degli anni ’70.
Elemento chiave comune di ciascuno di questi contesti giudiziari, malgrado lo scorrere del tempo, è stato e sarà ancora l‘individuazione, da parte delle Agenzie governative, dei mercati rilevanti all’interno dei quali l’azienda accusata dovrebbe risultare responsabile di aver esercitato un sostanziale potere di mercato in danno della concorrenza.
È questo un compito che si sta rivelando alquanto arduo e complesso e, ad oggi, ancora irrisolto. Ciò non solo per il notevole impegno richiesto in termini di tempo e risorse ma, principalmente, a causa della perdurante assenza di un metodo valido e condiviso sull’individuazione dei mercati rilevanti, che possa fungere da modello di riferimento concettuale trasparente, rigoroso e funzionale all’efficienza del processo di valutazione delle varie fattispecie; specie in un contesto digitale di monopolizzazione.
La causa antitrust contro Google si basa sulla presunta violazione della Sezione 2 dello Sherman Act e, sebbene possa essere abbastanza evidente quanto Google domini il mercato dei servizi di ricerca e della pubblicità associata alla ricerca digitale, tuttavia la “mera dimensione del quantum del potere” non è di per sé sufficiente per poter ritenere disattese le prescrizioni dello Sherman Act.
È necessario qualcosa in più.
L’onere della prova potrà dirsi compiuto solo qualora l’esito dell’istruttoria basata sul cosiddetto test di Grinnell[2] dia esito positivo su due fronti interdipendenti. Ossia che a) si palesi concretamente il possesso del potere di monopolio nel mercato rilevante di riferimento e b) che l’acquisizione o il mantenimento intenzionale di tale potere avvenga attraverso una condotta competitiva alterata, servendosi di quelle “famose” pratiche di esclusione che si scontrano con la Sezione 2 dello Sherman Act.
Sebbene, infatti, il potere monopolistico possa danneggiare le società riducendo la produzione, aumentando i prezzi e limitando l’innovazione rispetto a quanto accadrebbe in un mercato competitivo, non è comunque detto che il semplice possesso del potere di monopolio debba violare la Sezione 2.
Il Dipartimento di Giustizia dovrà quindi prima definire il mercato antitrust rilevante e solo successivamente dimostrare che Google ha esercitato e continua a mantenere, in quel contesto, un potere monopolistico.
Negli USA, ma anche in Europa, l’esigenza di ricondurre l’individuazione del mercato rilevante all’analisi della sostituibilità economica tra prodotti e servizi, misurata attraverso la nozione di potere di mercato è ancora un parametro significativo. Secondo questa impostazione, il mercato rilevante può essere definito come il più piccolo contesto nel cui ambito è possibile, tenendo conto delle esistenti possibilità di sostituzione, la creazione di un significativo grado di potere di mercato.
In altre parole, se “il potere monopolistico è il potere di controllare i prezzi o di escludere la concorrenza[3]”, “il potere di mercato è piuttosto la capacità di un venditore di esercitare un certo controllo sul prezzo che applica”.
Il potere di mercato e il potere di monopolio sono, pertanto, correlati ma non sono la stessa cosa.
Laddove il potere di mercato diventa così grande da costituire quello che la legge considera un potere di monopolio, allora la questione diviene più di grado che di tipo.
Chiaramente il potere monopolistico richiede, come minimo, un grado sostanziale di potere di mercato: “prima di sottoporre un’impresa a una possibile contestazione ai sensi della legge antitrust per monopolizzazione o tentata monopolizzazione, generalmente si richiede che il potere in questione sia molto più che semplicemente fugace; cioè deve anche essere durevole”.
Tale approccio, perfezionato e arricchito nel corso dei decenni, costituisce uno dei criteri standard, se non il principale, per l’analisi delle varie fattispecie monopolistiche abusive. Tuttavia, non appare confacente a nessun caso di monopolizzazione in cui si affermi che il convenuto possieda già potere di mercato e soprattutto nell’ambito dei servizi resi da “intermediari digitali bilaterali” o two sided markets, dove la presenza di effetti di rete indiretti tra gruppi di utenti influisce sul meccanismo di fissazione dei prezzi e sull’interazione competitiva.
E dunque difficilmente potrà fungere da valido parametro di giudizio nel caso di Google.
La poliedricità delle piattaforme digitali inevitabilmente aumenta le barriere all’ingresso e limita la pressione competitiva. Il problema è aggravato dalla presenza dei Big Data, volano dell’innovazione nell’economia digitale, oltre che dalle tecniche di monitoraggio on line e manipolazione comportamentale degli utenti.
Il rischio di incorrere nell errore del Cellophane
Il rischio di incorrere in quello che gli economisti americani chiamano errore del Cellophane[4] è alto e gli esiti del test SSNIP[5] (Small but Significant Non-transitory Increase in Price), noto anche come test dell’ipotetico monopolista, pericolosamente fuorvianti.
Il DOJ sostiene che per quanto riguarda Google esistono tre mercati rilevanti:
- servizi di ricerca generale;
- pubblicità associata alla ricerca;
- pubblicità testuale di ricerca generale.
Nell’individuazione di queste tre aree però non risulta che il Dipartimento di Giustizia abbia fornito (finora) molto in termini di analisi o dati; ha piuttosto evidenziato come, nel campo della ricerca e della pubblicità collegata alla ricerca, Google abbia operato in mercati ristretti in cui detiene quote elevate, per i quali “non esistono sostituti ragionevoli”, basando le proprie deduzioni esclusivamente su osservazioni e descrizioni accademiche, senza fornire elementi concreti a supporto di tali affermazioni.
Sarà quindi sicuramente interessante vedere quali approfondimenti verranno presentati nel corso delle prossime udienze. Una cosa è però certa: l’assenza di un paradigma di delimitazione del mercato rilevante renderà i compiti delle agenzie considerevolmente più difficili.
A tal riguardo Similarweb, una società di analisi dati, riporta come Google detenga una quota di mercato di Google pari al 90,68% nel giugno 2023, il che lo rende il motore di ricerca più popolare e utilizzato al mondo.
Nel frattempo le arringhe reciproche si stanno orientando su diversi fronti: se da una parte Google si rivolge a Jonathan Kanter, capo dell’antitrust del Dipartimento di Giustizia, evidenziando come sussista un conflitto di interessi con il suo attuale ruolo e quello avuto in passato come avvocato per Microsoft e News Corp; dall’altra il Dipartimento di Giustizia accusa Google di aver distrutto i messaggi istantanei dei dipendenti che avrebbero potuto contenere informazioni rilevanti per il caso e abbia utilizzato “le sue grandi tasche e la sua posizione dominante, pagando 10 miliardi di dollari all’anno ad Apple e ad altri per diventare il fornitore di ricerca predefinito sugli smartphone”.
Alla scorsa udienza del 12 settembre scorso, chiamato dal Dipartimento di Giustizia, è salito tra i banchi dei testimoni Hal Varian, capo economista di Google, il quale ha rimarcato, in oltre tre ore di testimonianza, come la società fosse da tempo consapevole del suo potere nella ricerca mentre cercava deliberatamente di eludere il controllo antitrust.
Nelle dichiarazioni di apertura del processo, riferendosi alle accuse sui presunti accordi restrittivi con i produttori Apple, Mozilla e Android, gli avvocati di Google hanno sostenuto come l’intero processo altro non fosse se non un regalo a Microsoft, a loro dire da sempre incapace di competere con Google su Search.
La questione dell’adeguatezza delle normative antitrust
Tra le varie posizioni ciò che si palesa chiaramente è però la questione relativa all’adeguatezza delle normative antitrust vigenti e se le stesse possano ritenersi ancora idonee agli attuali scenari di competizione e innovazione.
Non solo tra gli economisti, ma anche tra le istituzioni politiche, aumentano i dubbi sull’efficacia dell’attuale normativa Antitrust.
Ovvero approcci ancora fortemente legati alla teoria dei prezzi e del “benessere dei consumatori”, misurabili negli effetti a breve termine ma, del tutto disallineati, tanto in America quanto in Europa rispetto alle architetture del potere di mercato dell’economia moderna.
Il focus repressivo messo in atto a livello globale, almeno in occidente, non sembrerebbe (per ora) destare particolari preoccupazioni nei colossi tecnologici del web. Le sanzioni inflitte non bastano a contrastare le pratiche di concorrenza sleale adottate dalle grandi multinazionali tecnologiche americane e neppure intaccano le loro previsioni di guadagno.
La percezione di un’inconsistenza della risposta sanzionatoria è invero piuttosto evidente così come sempre più evidente è l’inadeguatezza dell’attuale impianto normativo antitrust.
Le autorità antitrust americane hanno uno scarso track record di cause legali riuscite.
Molti si domandano se, USA a parte, il pacchetto Ue sui mercati e i servizi digitali, il Digital Markets Act, possa riuscire a correggere il tiro, frapponendosi all’evidente anacronismo legislativo imperante.
Il DMA europeo sarà in grado di diventare un benchmark globale di riferimento per i mercati digitali?
I funzionari statunitensi[6] al momento sono piuttosto scettici e hanno già gridato al “protezionismo!”.
Le altre cause contro Google e le big tech nel mondo
Il fronte dell’antitrust contro Google e le altre Big Tech è globale.
La redditizia attività pubblicitaria digitale di Google è nuovamente al centro dell’attenzione delle autorità di regolamentazione antitrust dell’Unione europea.
La Commissione UE ha comunicato come al gigante tecnologico potrebbe essere ingiunto di cedere parte del suo ramo destinato al digital advertising per affrontare i problemi di concorrenza. Oltre ovviamente al rischio di sanzioni fino al 10% del fatturato annuo dell’azienda.
Questa della Commissione è solo l’ultima accusa, in ordine di tempo, di una serie di casi di alto profilo incidenti sulle condotte attuate dalle Big Tech e sui rispettivi modelli di business che hanno attirato l’attenzione delle autorità Antitrust, certamente non solo europee, bensì di tutto il mondo.
Sempre negli USA, Google è già impegnato a rispondere all’accusa antitrust nell’ambito della pubblicità programmatica. L’azione promossa da una coalizione di Stati guidati dal procuratore generale del Texas, il conservatore Ken Paxton, rappresenta l’ennesima mossa compiuta nel complesso scacchiere giudiziario, in cui Google è impegnato a destreggiarsi – sebbene da diverse angolazioni e da distinte coalizioni di Stati e organi di governo – tra le diverse accuse di monopolio e pratiche di esclusione concorrenziale.
Nel 2020, anche la Australian Competition and Consumer Commission (ACCC) ha avviato un’indagine sulla pubblicità digitale e il mercato dei servizi pubblicitari online, con un’attenzione particolare a Google e Facebook.
Nel 2021, la Competition and Markets Authority (CMA) del Regno Unito ha aperto un’indagine sul mercato della pubblicità digitale, sempre concentrandosi su Google e Facebook.
Le cose non vanno diversamente in Cina dove la stretta contro i poteri privati del web è serrata e rappresenta un fattore strategico e geopolitico considerato prioritario e cruciale.
Bruxelles ha già colpito Google con multe per oltre 8 miliardi di euro in tre diversi casi antitrust, riguardanti il suo sistema operativo mobile Android e i servizi di shopping e search advertising. La società, come noto, ha impugnato tutte e tre le sanzioni.
Risale a maggio 2021 il provvedimento dell’AGCM, Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in Italia, che ha sanzionato le società Alphabet Inc. (Holding di Google LLC), Google LLC e Google Italy S.r.l. per violazione dell’art. 102 del TFUE costringendole al pagamento di una multa di oltre 102 milioni di euro per abuso di posizione dominante relativamente all’accesso al mercato delle App.
A distanza di un solo mese, si è posta sulla stessa scia l’Antitrust francese, che si è scagliato contro Google con una sanzione di 220 milioni di euro per abuso di posizione dominante nell’ambito però del digital advertisement.
Il 14 settembre 2022, con sentenza ECLI:EU:T:2022:541, il Tribunale UE ha confermato in larga parte la storica decisione Google Android della Commissione Europea del 18 luglio 2018[7].
Google non è solo; a fargli compagnia nella vasta prateria di accuse c’è anche Amazon, destinatario di varie comunicazioni, tra cui, in UE, quella inviata il 10 novembre 2020 dalla Commissione relativamente ad alcuni addebiti che lasciano intendere l’uso illegale dei dati in possesso dei venditori. Ed è stata la seconda accusa, sostenuta formalmente dalla Commissione UE, che si unisce alla precedente contestazione del luglio 2019 – caso n. AT.40462 – per la quale il gigante statunitense del retail online è stato sottoposto ad indagini per trattamenti preferenziali rivolti alle proprie offerte dettaglio e di quelle dei venditori presenti sul mercato che utilizzano i servizi di logistica e consegna. Il riferimento è alle famose opzioni “Offerta in evidenza – Buy Box” (che consente ai clienti di aggiungere articoli da un rivenditore specifico direttamente nei loro carrelli della spesa) e all’etichetta “Prime”, nell’ambito del programma fedeltà Prime di Amazon.
E non poteva mancare neppure Facebook che, lo scorso 4 giugno 2021, ha ricevuto la notizia di un’ulteriore indagine aperta dall’UE sulle possibili condotte anticoncorrenziali perpetrate dall’azienda di Zuckerberg.
Come l’Autorità Antitrust britannica anche la Commissione UE sta, inoltre, esaminando la regolarità dell’accordo del 2018 fra Google e Facebook riguardante la pubblicità display online: Jedi Blue.
Le cose non vanno meglio per l’ecosistema Apple Inc., oggetto di numerosi reclami alcune dei quali sostenuti da sviluppatori software indipendenti – a partire dagli Stati Uniti con Epic Games(creatore del popolarissimo gioco battle royale “Fortnite” ), con il caso Apple v. Pepper e l’azione collettiva di Donald R. Cameron e Pure Sweat Basketball, Inc. contro Apple Inc. Oltre alle accuse dell’Unione europea principalmente legate alla sua App Store e alle politiche di distribuzione delle app.
Conclusioni
“Questo caso riguarda il futuro di Internet e se il motore di ricerca di Google dovrà mai affrontare una concorrenza significativa” afferma nelle dichiarazioni di apertura del processo l’avvocato del Dipartimento di Giustizia Kenneth Ddintzer.
“Gli utenti oggi hanno più opzioni di ricerca e più modi per accedere alle informazioni online che mai”, ha affermato John Schmidtlein, rappresentante di Google. “Ai clienti insoddisfatti bastano “pochi clic” per sostituire l’app Google sui loro dispositivi o optare per Bing, Yahoo o DuckDuckGo di Microsoft”. Continua.
“Google è diventato un monopolio almeno dal 2010. “Utilizza come arma” l’uso di accordi predefiniti per scoraggiare i rivali e ha anche esercitato il suo potere di mercato impedendo ad Apple Inc. di perseguire opzioni migliori di Google come browser predefinito sui suoi computer, telefoni e dispositivi elettronici”. “Paga 10 miliardi di dollari ogni anno ad Apple e ad altri per garantire lo stato di default del suo motore di ricerca su telefoni e browser web, seppellendo così i nuovi arrivati prima che abbiano la possibilità di crescere”. Incalza l’avvocato governativo Dintzer rivolgendosi al giudice Mehta.
La sentenza, qualunque sia l’esito, sarà oggetto di ricorso; il caso potrebbe protrarsi per anni.
La definizione della natura dei nuovi monopoli e il concetto di posizione dominante non possono però attendere ulteriormente. Né i tribunali americani né il Congresso hanno prodotto una regolamentazione significativa, anche se non per mancanza di tentativi.
Bilanciare i diritti e gli interessi di tutte le parti mantenendo l’ordine di mercato in modo efficace, promuovendo al contempo un’innovazione di qualità è una priorità ineludibile.
La crisi di fiducia nelle grandi aziende tecnologiche e nelle istituzioni è estremamente chiara.
Google ci dice che la concorrenza è a “un clic di distanza”; ma sembra che fare clic richieda ancora troppo tempo.
Seguiranno ovunque anni di contenziosi, nuovi regolamenti sono entrati in vigore; come in Europa.
È probabile che in tutto ciò le persone pazienti diventino impazienti.
Note
[1]Il giudice Mehta, 52 anni, potrebbe avere più familiarità con Google rispetto ad altri giudici federali, la cui età media ha raggiunto i 69 anni nel 2020, secondo uno studio condotto all’epoca dall’Ohio State Law Journal. Si è laureato in giurisprudenza presso l’Università della Virginia nel 1997, un anno prima che Larry Page e Sergey Brin fondassero Google.
[2]Il riferimento è al caso United States v. Grinnell Corp., 384 US 563, 570-71 (1966) (“Il reato di potere monopolistico ai sensi del § 2 dello Sherman Act ha due elementi: (1) il possesso di potere monopolistico nel mercato rilevante e (2) l’acquisizione o il mantenimento intenzionale di quel potere distinto dalla crescita o dallo sviluppo come conseguenza di un prodotto superiore, senso degli affari o incidente storico.”); Eastman Kodak Co.
[3]Con riferimento a Stati Uniti contro EI du Pont de Nemours & Co., 351 US 377, 391 (1956) . Il DOJ inizialmente intentò questa causa di monopolizzazione contro du Pont nel 1947 sostenendo che il mercato rilevante era quello del cellophane e che du Pont aveva una quota di mercato relativamente elevata – circa il 76% – del mercato del cellophane e aveva adottato una serie di misure di esclusione (monopolizzazione ) azioni volte a mantenere tale quota di mercato elevata. Du Pont, nella sua difesa, affermò che il mercato rilevante era “tutti i materiali di imballaggio flessibili”, che comprendevano fogli di alluminio, glassine, Pliofilm, polietilene, acetato di cellulosa, carta cerata, carta al solfito, pergamena vegetale e carta kraft. In quel mercato, du Pont aveva solo una quota di mercato modesta, circa il 20%, e quindi (sosteneva du Pont) la società non avrebbe potuto impegnarsi in una situazione di monopolio. La decisione iniziale del giudice Paul Leahy presso la corte distrettuale federale: US v. EI du Pont de Nemours & Co. , 118 F. Supp. 41 (1953): era a favore di du Pont. Il Dipartimento di Giustizia fece appello direttamente alla Corte Suprema degli Stati Uniti. . Dopo aver esaminato il caso (nell’ottobre 1955), la Corte Suprema si pronunciò (nel giugno 1956) anche a favore di du Pont. Al centro delle sentenze favorevoli a du Pont in entrambi i livelli giudiziari fu la definizione del mercato rilevante come comprensivo di “tutti i materiali di imballaggio flessibili”, come aveva sostenuto du Pont.
[4]“Cellophane fallacy” (dal caso du Pont): Il test SSNIP presenta delle difficoltà nell’analisi degli abusi di posizioni dominanti ovvero, applicare il test SSNIP al prezzo corrente può indurre ad una definizione del mercato troppo ampia per un impresa che detiene già un forte potere di mercato Il risultato potrebbe essere che l’impresa dominante finirebbe per avere piccole quote di mercato.
[5]Stabilito per la prima volta nel 1982 dalle Linee guida sulle fusioni del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il test SSNIP mira a identificare il mercato più piccolo all’interno del quale un ipotetico monopolista potrebbe imporre un piccolo aumento significativo e non transitorio del prezzo. Solitamente definito come un aumento del prezzo del 5% per almeno 12 mesi.
[6]Un documento, firmato da Arun Venkataraman, consigliere del segretario al commercio statunitense Gina Raimondo, afferma che Bruxelles dovrebbe tenere conto dei problemi di sicurezza quando regolamenta la Big Tech. Ma Schwab ha respinto, sostenendo che i problemi di sicurezza non dovrebbero essere usati come pretesto per annacquare le regole entrate in vigore.
[7]Il ricorso presentato da Google, rubricato come T-604/18, è stato sostanzialmente respinto e si è concluso con una modesta riduzione dell’importo della sanzione originariamente irrogata, fissandolo a 4,125 miliardi di euro: ciò tenuto conto di alcune specifiche circostanze del caso[4]. In particolare, la procedura sanzionatoria per comportamenti anticoncorrenziali del colosso americano era stata introdotta dalla Commissione europea nel 2015 e si era conclusa con una sanzione di €. 4,343 miliardi (la più onerosa sanzione antitrust mai comminata in Europa).Google venne ritenuto responsabile di condotte anticoncorrenziali continuative tese a favorire restrizioni e vessazioni illegali a scapito dei produttori di dispositivi mobili Android e degli operatori di reti mobili. La violazione contestata si riferiva all’articolo 102 TFUE e all’articolo 54 dell’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE): ovvero alla fattispecie nota come abuso di posizione dominante. Ai sensi del Diritto Antitrust europeo da una condizione di posizione dominante non scaturisce a priori una condotta di per sé vietata, bensì illegale solo se idonea a generare sfruttamento abusivo da parte dell’azienda del proprio potere economico derivante da tale posizione. In pratica dunque le entità economiche che godono di tale posizione sono autorizzate in conformità al diritto auropeo a competere in base ai propri meriti come qualsiasi altra impresa, purché operino in ottemperanza del principio di correttezza leale tra imprenditori e di trasparenza del mercato, astenendosi dall’attuare comportamenti che possano pregiudicare il mercato degli altri Stati Membri con il risultato di falsare la concorrenza. L’applicazione dell’art. 102 prevede, infatti, la determinazione giudiziale di due step: il primo riguarda la qualifica della posizione dominante, il secondo l’accertamento dell’abuso.