Ciò che sta accadendo in questi ultimi mesi a diversi dei social più famosi, o meglio alle imprese (quali Meta e Twitter ma non solo) e ai personaggi vittime e nel contempo artefici dei cambiamenti (nella fattispecie Mark Zuckerberg ed Elon Musk), rappresenta sicuramente un affascinante caso da manuale di strategia ed è probabile che lo diventi, per il concorrere di una molteplicità di fattori esterni nel generare le situazioni di crisi e di un mix di strumenti – dai più tradizionali a quelli che cercano di sfruttare le nuove potenzialità dell’intelligenza artificiale – messi in campo per perseguire il necessario turnaround.
Mercato tech, dalla grande crisi nascerà la prossima rivoluzione
È un caso tuttora in fieri, ricco di sorprese, ultima in ordine di tempo la trasformazione di un servizio sinora erogato gratuitamente e senza differenziazioni – in cambio della disponibilità (in diversi casi più tacita che esplicita) degli utenti a mettere a disposizione informazioni sui propri comportamenti e sulle proprie preferenze per alimentare il digital advertising – in un servizio viceversa differenziato per prestazioni, by subscription per chi vuole fruire di quelle più elevate e ancora gratuito per gli altri.
I fattori che hanno che hanno scatenato la crisi, le mosse per contrastarla e i rischi
Questo articolo si propone tre obiettivi.
Vuole in primo luogo fornire uno sguardo sui fattori esterni, ma anche su alcune scelte interne effettuate durante la pandemia, che hanno messo in crisi un business model di notevole successo: principalmente in relazione a Meta-Facebook, l’impresa di gran lunga di maggiori dimensioni e che più ha risentito in termini assoluti della crisi (nell’agosto 2021 essa aveva superato il trilione di dollari di valore di mercato, per poi scendere a 240 miliardi ai primi di novembre 2022 e risalire ai 470 attuali dopo aver intrapreso la strada della ristrutturazione); con minore attenzione relativamente a Twitter (il cui caso estremamente peculiare richiederebbe una trattazione ad hoc), YouTube (anomala perché inquadrata nel solido mondo di Alphabet-Google) e Snap (che vale ora solo 17 miliardi circa dopo aver superato i 130 nel settembre 2021).
Vuole in secondo luogo evidenziare le principali mosse (in parte analoghe) – finalizzate al turnaround – che Meta e Twitter stanno ponendo in atto sul fronte esterno e su quello interno.
Vuole porre una attenzione più specifica sui rischi, in termini primariamente di reazione degli utenti, che l’introduzione della differenziazione nei livelli di servizio può generare, soprattutto se essa viene vissuta più come una penalizzazione per chi non paga che non come un reale arricchimento del servizio stesso per chi viceversa sceglie la strada della sottoscrizione a pagamento.
La stretta di Apple sul digital advertising
Il fattore che più ha penalizzato i ricavi di Facebook, YouTube, Snap e Twitter è stato sicuramente il cambio di politica sulla privacy da parte di Apple, che – entrato in funzione nell’aprile 2021 con la nuova App Tracking Transparency policy – ha obbligato le app presenti sugli iPhone a chiedere espressamente il consenso degli utenti per tracciarne il comportamento allo scopo di inviare loro personalised ads, ovvero (come ben noto) avvisi pubblicitari tarati sulle caratteristiche e i bisogni delle persone nei momenti più opportuni. Il tasso elevato di rifiuti, pari al 75 per cento circa, scardinò – data la grande diffusione soprattutto negli US degli iPhone e la maggior disponibilità di spesa in generale dei loro possessori – una delle principali fonti di alimentazione del digital advertising, con un danno valutato nel 2022 di 10 miliardi circa per la sola Facebook, che nel frattempo aveva cambiato la propria denominazione in Meta Platforms, a testimonianza del dichiarato interesse per il metaverso.
A questo va aggiunto l’impatto sulle spese in digital advertising – molto differenziato per tipologie di imprese e non uniforme nel tempo – dei fattori più macro: della pandemia, con i suoi lockdown, iniziata nel 2020; della rottura di molte supply chain e dell’accendersi dell’inflazione nella ripresa post-pandemica prima e a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina e delle connesse sanzioni dopo; della politica restrittiva delle banche centrali, finalizzata ad abbattere l’inflazione, tuttora in atto e in probabile acutizzazione, con il suo impatto sulle quotazioni di Borsa (la Fig. 1 mostra l’impressionante correlazione fra il calo del S&P 500, notissimo indice sulla dinamica delle borse statunitensi, e la crescita del rendimento dei Buoni del Tesoro decennali del Paese indotta dagli aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Fed).
Un terzo fattore, che a differenza dei precedenti non riguarda il comparto nel suo complesso ma i soli incumbent (in primo luogo il leader di mercato Meta), è stato quello del prepotente emergere di un nuovo competitore su scala mondiale – TikTok (facente capo alla cinese ByteDance) – con un modus operandi del tutto innovativo. È possibile che TikTok esca di scena, almeno dagli US ove è accusato di trasmettere al governo cinese le informazioni che raccoglie nel Paese, ma la possibilità dell’emergere di competitori continuamente nuovi, approfittando anche (come ha fatto TikTok) del ricambio generazionale, è a mio avviso altamente probabile.
Fig. 1
L’aumento dei costi per la gestione dei social
Nel contempo sono aumentati i costi e – nel caso specifico di Meta – gli esborsi a ritorno incerto e proiettato nel tempo per sviluppare il metaverso (l’unità che si occupa di tali aspetti e dei visori per la realtà virtuale e aumentata ha presentato nel 2022 una perdita di circa 13 miliardi di dollari).
I costi sono aumentati non solo a causa dell’inflazione, ma anche per almeno due altre ragioni più specifiche:
- la necessità per le imprese che gestiscono i social – imposta da una legislazione (quella UE in primo luogo) in continuo inasprimento e comunque indotta dalla crescente irritazione del mondo politico e dalle altrettanto crescenti preoccupazioni di ampie componenti della società – di rispettare maggiormente la privacy (con i conseguenti maggiori oneri per l’alimentazione del digital advertising) e di mettere in campo maggiori risorse (umane e/o tecnologiche) per combattere radicalmente il diffondersi della misinformazione (ovvero delle cosiddette fake news) e delle incitazioni all’odio;
- la sovrastima delle aspettative di conversione della società al digitale, conseguenti al profondo cambiamento negli stili di vita generato dalla pandemia, che ha spinto imprese come Meta – analogamente a quanto avvenuto per Amazon, Alphabet-Google, Microsoft e molte altre – a mettere in campo più risorse umane, tecnologiche e infrastrutturali di quanto poi verificatosi necessario.
In relazione a questo secondo punto va rilevato che il sovradimensionamento delle risorse umane e del loro costo è anche figlio del lungo periodo di prosperità delle big tech, in cui:
- la capacità di soddisfare tempestivamente mercati in tumultuosa crescita, per non perdere quote o ancor meglio per accrescerle,
- la cosiddetta “guerra per i talenti”, per accaparrarsi le risorse umane migliori,
faceva passare in seconda linea il tema del contenimento dei costi: ora visto viceversa come prioritario, con Mark Zuckerberg che ha addirittura promesso al mercato finanziario che il 2023 sarà per Meta l’anno dell’efficienza.
Le mosse delle imprese per perseguire il turnaround
Un turnaround di successo, sia esso volto a ritornare al profitto (come per Twitter) o a recuperare marginalità per accrescerlo (come per Meta) richiede ovviamente di lavorare sia sul fronte dei costi sia su quello dei ricavi:
– tagliando ove necessario,
- aumentando i prezzi (o nella fattispecie facendo pagare quanto prima era gratuito) ove possibile,
- giocando la carta dell’innovazione organizzativa e tecnologica a tutti i livelli, con l’obiettivo non solo e non tanto di recuperare rispetto al passato, quanto di rafforzarsi in vista di un futuro ricco di incertezze e nuove sfide.
Brutali tagli al personale
I tagli, per iniziare, sono stati e continuano a essere piuttosto brutali. Meta ha licenziato 11mila dipendenti, il 13 per cento della totale forza lavoro, e sta ora proseguendo il processo di riduzione del personale in maniera più sottile, attraverso una valutazione delle performance individuali (con annesso consiglio per molti di cercarsi un altro posto di lavoro) e attraverso l’eliminazione di una serie di strati di management: quest’ultima misura da leggersi in un’ottica più ampia, di rimessa a punto di una struttura organizzativa cresciuta (come detto) frettolosamente e da rendere più snella e veloce nelle risposte.
Twitter, sotto la nuova gestione di Elon Musk, ha espulso la metà circa dei dipendenti, creando problemi di continuità del servizio da un lato e frizioni dall’altro, soprattutto con l’UE (in vista della prossima entrata in gioco del DSA-Digital Services Act), per la nuova politica di moderazione – ovvero di controllo delle fake news e delle incitazioni all’odio – adottata: basata su un uso più spinto della intelligenza artificiale, sul coinvolgimento di volontari fra gli utenti che segnalino esplicitamente le possibili violazioni con le cosiddette Community Notes; con un taglio radicale però, a differenza di Meta, dei costosi fact checkers, dei dipendenti responsabili della verifica dei fatti e delle fonti e della eventuale cancellazione dei relativi post.
Innovazione per migliorare l’offerta
Sul fronte del ricorso all’innovazione per migliorare la qualità dell’offerta, deve essere segnalato il lancio nello scorso agosto da parte di Meta di Advantage+, nel tentativo di ovviare alla massiccia perdita di dati provocata dalla nuova politica sulla privacy di Apple. Utilizzando l’intelligenza artificiale generativa, su cui anche Meta è impegnata da molti anni, Advantage+ è in grado – sulla base degli specifici obiettivi del cliente – di generare una molteplicità di adverts e di testarne comparativamente l’efficacia, in modo da scegliere il migliore: con risultati a quanto pare soddisfacenti, anche se con qualche preoccupazione da parte dei clienti per il minor controllo che l’uso di algoritmi comporta rispetto al passato.
Sul fronte dell’incremento dei prezzi, infine, il fatto più rilevante (come evidenziato all’inizio) è il tentativo di far pagare al numero di utenti più elevato possibile il servizio tradizionalmente gratuito, offrendo qualche prestazione in più, cercando nel contempo di evitare che l’insoddisfazione per il doppio livello, nonostante il permanere dell’opzione di gratuità, porti all’abbandono da parte di un numero elevato di utenti (con le conseguenti implicazioni economiche negative).
Vantaggi e rischi della differenziazione nel livello dei servizi e dell’introduzione della sottoscrizione a pagamento
Nel suo recente articolo sul Financial Times “Subscriptions won’t change social media’s dependence on advertising – Companies have yet to work out what they should charge users for” Richard Waters fa un’analisi molto interessante sul tema, che utilizzerò ampiamente in questo paragrafo conclusivo.
La considerazione di partenza è che – come in molti altri servizi di massa offerti su Internet – anche nei social una porzione ridotta di utenti pesa per una quota sproporzionata dell’attività complessiva e che quindi guardare prioritariamente agli interessi dei “maggiormente attivi” nel decidere cosa offrire di più a chi paga è una scelta potenzialmente vincente, purché ovviamente – come ho peraltro già detto – non si generi uno sbilanciamento tale da creare una eccessiva insoddisfazione nella massa largamente prevalente dei “meno attivi”. E la varietà di ciò che viene attualmente offerto ai sottoscrittori da Twitter, Snap e Meta (attraverso Facebook e Instagram) evidenzia come i social siano ancora nella fase di sperimentazione del nuovo business model “ibrido”.
Meno pubblicità per chi paga
Una prima idea, che appare nell’offerta di Twitter, ricorda la storica differenza fra reti televisive a pagamento (quale Sky) e gratuite (quale Mediaset): meno pubblicità per chi paga. Una ammissione implicita però, come nota Waters, che l’ad-filled experience offerta alla maggior parte degli utenti (i non paganti) è di qualità inferiore e che per questo potrebbe non essere affatto gradita agli inserzionisti, che rimangono comunque la fonte prevalente di entrata per i social.
Più sicurezza per gli utenti paganti
Una seconda idea è quella di offrire ai sottoscrittori un livello più elevato di sicurezza, come propone Meta, o addirittura di ridurre quello attuale per i non paganti, come ha promesso di fare Twitter. È ragionevole offrire una forte protezione contro l’hacheraggio e i furti di identità (impersonation) a chi ha una maggior presenza sul social, ma potrebbe creare un senso di scarsa sicurezza in chi vi accede liberamente e scoraggiarne l’accesso.
Speciali privilegi ai sottoscrittori
Una terza idea è quella di concedere speciali privilegi ai sottoscrittori, per accrescerne la visibilità e l’influenza, ovviamente a detrimento dei non paganti: creando una contrapposizione fra sottoscrittori e non in servizi che si sono sempre qualificati come democratici e dando uno spazio più ampio (come nota ancora Waters) a chi non necessariamente – solo perché paga – è portatore di messaggi di maggiore saggezza e correttezza, al limite così erodendo il livello di qualità e credibilità del social stesso.
Conclusioni
Il vero problema per rendere realmente profittevole il nuovo modello ibrido, tornando a ripetere quanto detto all’inizio, è inventare prestazioni che siano realmente addizionali per chi paga e non troppo diminutive per coloro che accedono ai social liberamente: ricordando che, seppur non paganti, questi ultimi continuano ad essere una fonte determinante di valore per i social e che continueranno a esserlo sino a quando il digital advertising rimarrà la componente preponderante e determinante dei ricavi.