l’analisi di bertele’

Perché gli Usa vogliono spezzare le loro aziende migliori: i colossi digitali



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Avanzano le indagini dell’antitrust Usa su Google, Meta. Ma in arrivo anche quelle su Apple, Amazon, Microsoft. Ecco lo scenario che si prepara. Ed è straordinario

Pubblicato il 24 apr 2025

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano



trump big tech (1)

Gli Stati Uniti vogliono “fare a pezzi” le loro imprese più grandi, quelle che negli ultimi 20-30 anni hanno portato avanti la rivoluzione digitale, si sono affermate in larga parte del mondo e recentemente sono state tra le grandi protagoniste dello sviluppo dell’IA generativa? Sembra di sì, almeno al momento.

Non sono di oggi i primi attacchi delle due authority antitrust statunitensi – il DoJ-Department of Justice e la FTC-Federal Trade Commission (i cui capi sono di nomina presidenziale) – ma risalgono all’ultimo periodo della prima presidenza Trump, sono proseguiti con la continua apertura di nuovi casi durante la presidenza Biden e ora arrivano via via a maturazione, con il duplice caso di Alphabet-Google e quello di Meta in prima linea.

Le accuse antitrust a Google

Alphabet-Google è stata riconosciuta colpevole di aver costruito monopoli da due giudici federali, nel mercato del “search” nella scorsa estate e in quello della cosiddetta “ad technology” di recente.

In discussione in questi giorni sono i cosiddetti “rimedi” per il primo, che verranno sentenziati dallo stesso giudice federale che ha riconosciuto Google colpevole di aver costruito un monopolio nell’ambito dei motori di ricerca (in cui ha una quota di mercato del 92 per cento negli US) dopo avere ascoltato le richieste del DoJ e le proposte conciliatorie di Google stessa.

Quello che ha stupito, essendo questo il primo atto importante della divisione antitrust del DoJ durante la seconda presidenza Trump (che sembrava aver trovato una maggiore intesa con le Big Tech rispetto al primo mandato), è stata la “ferocia” delle richieste, volte a smantellare completamente il business model di Google, chiedendo tra l’altro la vendita del suo browser Chrome e la messa a disposizione dei competitori di molti dei suoi dati affinchè essi possano creare prodotti concorrenti. “They’ve essentially asked for the moon,” è stato il commento riportato dal New York Times di Rebecca Haw Allensworth (“law professor” alla Vanderbilt University specialista in tema di antitrust).

Perché lo spezzatino è straordinario

Perché tanto stupore a fronte della richiesta del DoJ? Perché era da un quarto di secolo che una richiesta simile non veniva più fatta, l’ultima essendo stata quella – approvata in prima istanza dal giudice federale ma respinta in appello – che Microsoft dovesse “spezzarsi” in due tronconi del tutto autonomi.

E perché risale a oltre 40 anni fa, ai primi anni ’80, l’ultimo caso di scorporo di un’impresa, nella fattispecie di AT&T, accusata di detenere un quasi monopolio sul servizio telefonico negli US e in Canada attraverso il suo sistema di filiali locali (il cosiddetto “Bell System”): filiali (spesso indicate come “Baby Bells”) rese autonome e del tutto indipendenti da AT&T, ma poi progressivamente riaggregatesi in quello che è l’attuale oligopolio nel comparto telecom statunitense formato da AT&T, Verizon e T-Mobile. Alphabet-Google ovviamente ha già annunciato che se i “rimedi” approvati dal giudice federale risulteranno troppo lesivi per il suo futuro ricorrerà in appello – come fece con successo Microsoft – con la prospettiva che il caso possa arrivare addirittura alla Corte Suprema.

La carta imprevedibile Trump

Sempreché nel frattempo Trump non prenda in mano la situazione, in funzione del ruolo che le Big Tech giocano su scala mondiale e di quelli che saranno gli scenari susseguenti al caos generato dalle sue “tariffe”.

Chi ci guadagna: le aziende AI

È curioso che questo attacco (cui molto probabilmente farà seguito il secondo per il quale il DoJ ha già chiesto preventivamente che Google venga costretta a vendere una o più imprese specializzate nella “ad technology” acquisite nel tempo) – volto apparentemente non tanto a correggere quanto a “distruggere” il business model di Google smantellandone i punti di forza – avvenga in un momento in cui, a seguito dell’avvento dell’IA generativa e del suo crescente utilizzo in prospettiva in luogo dei motori di ricerca tradizionali o al fianco di essi, sono diversi i concorrenti che si affacciano sul mercato del “search” con molte più speranze che nel passato di “rubare quote” a Google.

Citerò tre casi: Microsoft che con l’IA torna alla carica, dopo che per anni il suo Bing era stato confinato a un ruolo marginale; OpenAI, che vuole sfruttare la grande popolarità conquistata con il lancio di ChatGPT e delle versioni successive; Perplexity AI, una startup che sta iniziando ad avere un buon seguito per l’attenzione che essa pone (cercando di evitare le cosiddette “allucinazioni”) sull’accuratezza delle risposte alle domande che le vengono poste.

L’attacco antitrust ad Apple

Alphabet-Google non è l’unica “vittima” degli attacchi del DoJ alle Big Five. Sotto accusa, anche se la procedura è a uno stadio più arretrato, vi è anche Apple: per essere strutturata in maniera tale da rendere molto difficile ai consumatori, come dice The New York Times, uscire dalla sua rete di dispositivi e software strettamente interconessi (“to leave its tightly knit universe of devices and software”).

Le indagini Ftc su Meta, Amazon, Microsoft

Come noto, e come detto in precedenza, l’antitrust statunitense ha due anime. Ed è la FTC-Federal Trade Commission che ha sotto attacco o sotto osservazione le altre tre imprese facenti parte della Big Five: Meta, il cui processo ha avuto inizio qualche giorno fa; Amazon, con le accuse di scorrettezze nei riguardi delle piccole imprese che vendono attraverso il suo marketplace e di scorrettezze nei riguardi dei clienti consumatori cui verrebbe resa difficile l’uscita da Prime; Microsoft, sotto attenta osservazione per le operazioni che sta conducendo da anni nell’IA e le modalità con cui le conduce.

“Investigating big tech is a top priority”, ha dichiarato a Bloomberg Andrew Ferguson, il nuovo capo della FTC stessa – nominato da Trump – che ha preso il posto di Lina Khan e sembrerebbe seguirne la strada.

Microsoft

“FTC Expands Microsoft Antitrust Investigation Under Trump Administration”, scriveva un mese fa circa il Redmond Channel Partner, che segue tutte le news riguardanti Microsoft, ricordando che nello scorso anno la FTC stessa aveva chiesto a Microsoft di presentare tutta la documentazione delle sue operazioni aventi a che fare con l’IA sin dal 2016 e che l’attenzione sembra posta soprattutto su tre punti:

  • il rilevante investimento di Microsoft in OpenAI (oltre 13 miliardi di $), strutturato – è il sospetto di FTC – in modo da sfuggire alle autorizzazioni dell’antitrust, che potrebbe dare a Microsoft un vantaggio “unfair” nel mercato dell’IA;
  • la ragione per cui Microsoft ha iniziato a investire in proprio nell’IA nonostante gli investimenti fatti in OpenAI;
  • le regole del suo “cloud software licensing”, che i competitori sostengono renda scorrettamente più arduo competere.

E io aggiungerei l’acquisizione “mascherata” di Inflection AI, lasciata in vita e remunerata per l’uso del suo knowhow, ma senza il suo personale trasferito quasi integralmente in Microsoft, compreso il cofondatore e CEO Mustafa Suleyman (assurto a capo della neocostituita divisione IA di Microsoft stessa): un artificio legale per sfuggire alla necessità di autorizzazione, utilizzato successivamente anche da Amazon. L’idea retrostante all’azione di FTC è quella di impedire che la parallela presenza in posizione di forza in diversi settori alteri la competizione all’interno di qualcuno di essi ed è anche quella di bloccare, ove appena possibile, gli M&A .

Meta

Il caso Meta (ex Facebook), infine, che – come detto all’inizio – condivide con il caso Google la voglia di “fare a pezzi” le Big Tech. Che cosa viene richiesto in questo caso? Che Meta sia obbligata a mettere in vendita Instagram, acquisita per 741 milioni di $ nel lontano 2012 (con tutte le autorizzazioni inclusa quella della FTC), e WhatsApp, acquisita per 19 miliardi di $ (con tutte le autorizzazioni) due anni dopo. L’accusa: aver cospirato per creare un monopolio. La difesa di Meta: il successo di TikTok sul mercato statunitense è la prova lampante che l’entrata nei “social media” non è preclusa a chi si presenta con business model innovativi. Il punto di vista netto di The Economist, pubblicato qualche giorno fa: “Zuckerberg on trial: why Meta deserves to win – Social media has plenty of problems. Lack of competition isn’t one of them”.

In Europa pure le big tech piangono

Una ultimissima osservazione, che riguarda l’atteggiamento non particolarmente positivo della UE nei riguardi delle Big Tech, che ha messo a punto lo scorso anno il “Digital Markets Act” per controllarne più facilmente i comportamenti e ha iniziato a irrogare le prime multe a Apple e a Meta per violazioni antitrust per un totale di 700 milioni di euro: “relatively modest penalties issued as officials try to avoid escalating tensions with White House”, scriveva ieri il Financial Times.

Ma l’UE ha chiesto anche alle aziende di modificare nel profondo il modo in cui operano. C’è anche la possibilità che, se non si conformano entro circa due mesi, la commissione abbia il potere di infliggere ulteriori multe. Quindi non si tratta di una misura una tantum.

Per di più, Ursula von der Leyen ha da giorni annunciato che l’UE si rivarrà sulle Big Tech se non si troverà un accordo adeguato sulle “tariffe di Trump”.

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