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Piattaforme digitali e tutale della concorrenza, una sfida globale: i casi Amazon e Google

Le piattaforme sono state oggetto di diversi interventi ed istruttorie antitrust. Le dimensioni, la loro efficacia immediata, la loro diffusività spazio-temporale sollevano questioni che richiedono approcci interdisciplinari e coordinati. I casi, tra i tanti esaminati tra Bruxelles e Roma, di Amazon e Google

Pubblicato il 02 Feb 2022

Enrico Quaranta

Magistrato - già Capo di Gabinetto AGCM

big tech

Mentre la pandemia presenta ancora il suo conto salato – con un rincorrersi di dati che snocciolano numeri di contagi delle ondate del virus che, a cavallo di varianti sempre nuove, paiono non voler porre fine alla condizione di vita normale sospesa dei più – e i governi adottano misure che cercano un difficile punto di equilibrio tra libertà individuali, diritti fondamentali, tutela della salute e sostegno all’economia, pare prendere sempre più vigore il dibattito sul funzionamento dei mercati digitali e sulla concentrazione di potere di mercato che li caratterizza.

Si sosteneva, orma anni addietro, che se la concorrenza è davvero un valore che esprime il pluralismo nell’economia, allora essa va preservata da ogni forma che possa determinare la costituzione di veri e propri monopoli.

Antitrust e big tech: azioni, strumenti e funzioni per le nuove sfide della digital economy

E a preservare il corretto dispiegarsi della libera concorrenza sono chiamate le diverse autorità antitrust.

In una precedente occasione, si era tuttavia segnalata la dialettica esistente in ordine alla scelta degli strumenti opportuni per l’enforcement antitrust, a fronte di due visioni contrapposte: una, per cui il contrasto degli abusi della grande impresa doveva porsi a protezione del pluralismo concorrenziale e l’intervento antitrust anche a perseguire di istanze sociali e obiettivi redistributivi. L’altra, più coerente all’impostazione classica, con interventi di enforcement volti esclusivamente a sanzionare e prevenire possibili effetti distorsivi dell’esercizio di potere economico.

D’altra parte, si era pure evidenziato lo sviluppo del dibattito nelle Istituzioni dell’Unione, nelle Autorità dei singoli Stati e tra gli operatori, fondamentalmente indotto dall’incremento del potere che hanno assunto le piattaforme ed i grandi operatori digitali.

Potere che in un contesto caratterizzato da una crisi produttiva e finanziaria indotta dal lockdown (i cui effetti si protrarranno per un tempo che tutt’ora è difficile stimare) da misure restrittive adottate da quasi tutti Stati per cercare di combattere il diffondersi dell’epidemia, dal mutamento delle stesse abitudini di consumo, con un ricorso sempre maggiore agli acquisiti a distanza per ragioni di comodità, di sicurezza, di economicità dei tempi necessari quando non pure di economicità delle offerte provenienti dai marketplaces – le grandi piattaforme digitali hanno addirittura i rafforzato, assumendo un ruolo centrale e sostanzialmente monopolistico nel sistema sociale ed economico, per effetto della tensione verso modelli produttivi, organizzativi, distributivi e relazionali di tipo digitale[1].

Si tratta di grandi operatori (tech giants) che possono assumere una posizione dominante; laddove è noto che l’attività di chi abusa di una posizione dominante o attua intese restrittive della concorrenza, causi appunto un danno antitrust.

Siamo, in buona sostanza, nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale – quella digitale – in cui la visione classica della concorrenza necessita di un continuo aggiornamento.

Le piattaforme digitali

Per piattaforma digitale s’intende un’infrastruttura informatica (hardware e uno o più software) che fornisce servizi e strumenti tecnologici, programmi e applicazioni, per la distribuzione, il management e la creazione di contenuti e servizi digitali gratuiti o a pagamento, anche attraverso l’integrazione di più media (integrated digital platform)[2].

Esse operano sempre e sostanzialmente ovunque, favorendo una concentrazione e un’immediatezza di scambi che collegano utenti e contraenti in tempo reale, permettendo sia di addivenire a transazioni commerciali che allo scambio di informazioni.

Ne deriva che sulle piattaforme digitali si muovano informazioni (small data) che possono essere e sono tendenzialmente aggregate, diventando cosiddetti big data, suscettibili di profilazione e sfruttamento economico per strategie pubblicitarie verticali ovvero per favorire ed implementare transazioni commerciali.

Per le caratteristiche proprie derivanti dalle dimensioni assunte, dalla loro efficacia immediata, dalla loro diffusività spazio-temporale e, per certi versi, dalla loro infungibilità – soprattutto in un’epoca come quella attuale, di restrizione forzata della libertà di movimento, verificatasi a livello globale a partire dall’inizio della fase pandemica – può convenirsi che le piattaforme digitali possano sollevare tematiche e questioni antitrust di dimensioni rilevanti ed estese al di là dei confini dei singoli ordinamenti giuridici.

In altri termini, esse pongono problematiche antitrust peculiari e complesse, che richiedono: a) l’interpretazione della realtà loro sottostante, fatta di architetture di sistema, barriere tecnologiche e dimensionali all’ingresso dei vari mercati di riferimento, modelli di business e strategie commerciali; 2) l’individuazione delle norme giuridiche applicabili alle loro condotte eventualmente anticoncorrenziali; 3) la individuazione e la misurazione dei danni eventualmente prodotti sul piano della concorrenza libera; 4) le misure sanzionatorie o comportamentali applicabili.

Questioni e problematiche che richiedono, quindi, approcci fortemente interdisciplinari e, per quanto possibile, coordinati tra le varie autorità destinatarie del controllo e della tutela della libera concorrenza.

Del resto, questa esigenza è avvertita espressamente a livello di Unione Europea, ove non si fa mancare occasione di evidenziare il ruolo antitrust della Commissione.[3]

Le principali tipologie di piattaforme digitali

Ad oggi può sintetizzarsi che le principali tipologie di piattaforme digitali possono essere distinte per ambito di operatività:

  • piattaforme di eCommerce (Amazon, AirBnB, eBay, Zalando), che operano come market places e facilitano gli scambi online;
  • piattaforme digitali integrate (ad, Google, Apple, Facebook Alibaba …), in cui si integrano profili di e-commerce e altri servizi;
  • piattaforme innovative (ad es., Microsoft), che offrono servizi di sviluppo tecnologico e servizi complementari, utilizzando sia modelli proprietari che estensioni open source.

Attraverso lo schermo di un’apparente gratuità dei servizi offerti, esse acquisiscono il patrimonio più rilevanti dei dati personali, funzionali a conoscere le tendenze d’acquisto ovvero a stimolarne di nuove, mediante forme di pubblicità dedicate che prescindono dalla singola ricerca svolta dall’utente e che partono, viceversa, dalla conoscenza delle relative inclinazioni e preferenze precedentemente acquisite.[4]

Si tratta, in ogni caso, di piattaforme di grandi dimensioni che la letteratura colloca nel novero dei Tech Giants [5], ponendo – come anticipato – problematiche complesse di concorrenza.

Posizione dominante ed abusi della concorrenza

Premesso che con il termine “antitrust” si definisce il complesso delle norme giuridiche che sono poste a tutela della concorrenza sui mercati economici[6] , tralasciando il tema delle intese, cui sarebbe necessario dedicare un contributo a parte ( stante il relativo utilizzo dalle varie piattaforme digitali, in termini di intese sia orizzontali che verticali)[7] e fermandosi a quello degli abusi anticoncorrenziali, invero è la stessa Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[8] a chiarire che “un’impresa detiene una posizione dominante quando può comportarsi in modo significativamente indipendente dai concorrenti, dai fornitori e dai consumatori. Ciò avviene, in genere, quando detiene quote elevate in un determinato mercato”.

Ma la circostanza non è di per sé illecita né idonea a influire indebitamente sul mercato, giacché per operare in modo efficiente, può essere utile e necessario essere attivi su larga scala o in più mercati. Del resto, la crescita di un’impresa può essere frutto di comportamento ‘virtuoso’ consistito nell’offerta di prodotti che, per il prezzo e/o per la qualità, abbiano maggiormente soddisfatto le esigenze dei consumatori.

Ne consegue che la legge non ha inteso vietare la posizione dominante in quanto tale, ma il suo abuso (articolo 3 della legge n. 287/90) che si concretizza quando l’impresa sfrutta il proprio potere a danno dei consumatori ovvero impedisce ai concorrenti di operare sul mercato, causando, conseguentemente, un danno ai consumatori.

Analogamente a quanto avviene per le intese, quando l’abuso determina un pregiudizio per il commercio tra più Stati membri dell’UE, l’Autorità applica la normativa comunitaria (articolo 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). [9]

I comportamenti anticoncorrenziali, quindi anche quelli consistenti in forme di abuso di posizione dominante, coinvolgono una larga platea di stakeholders: società già esistenti sul mercato; nuove società (potenzialmente) concorrenti; la platea dei consumatori, privati dei benefici che la libera concorrenza tipicamente conferisce loro in un’ottica di ottimizzazione del rapporto qualità-prezzo

Abusi di sfruttamento e abusi escludenti

La posizione dominante conferisce all’impresa una particolare responsabilità e, d’altro canto, una condizione che può indurla a sconfinare in un comportamento abusivo, dando luogo al c.d. abuso di posizione dominante che può presentarsi in diverse forme.

Innanzitutto, negli abusi di sfruttamento, ricorrenti quando alcune imprese realizzano un’intesa collusiva per ridurre la produzione e così innalzare i prezzi, o quando un’impresa dominante persegue la medesima strategia, il danno è generato dalla riduzione di produzione necessaria ad ottenere la riduzione dei prezzi, nonché da una distorsione più generale del funzionamento del mercato, derivante da un aumento dei costi di transazione.

Di poi negli abusi escludenti, sussistenti quando un’impresa dominante esclude dall’accesso al mercato i suoi rivali, o ne impedisce lo sviluppo, il benessere sociale viene ridotto perché la collettività è privata del beneficio che i nuovi entranti potrebbero recarle, sotto forma di maggiore concorrenza, e dunque prezzi più bassi e/o qualità più elevata, nonché di innovazioni di prodotto e di processo.

Un comportamento illecitamente escludente può essere attuato utilizzando particolari politiche di prezzo o politiche che riguardano variabili diverse, fra cui rilevano anzitutto le seguenti:

  • contrattazione esclusiva: un’impresa dominante può cercare di escludere i propri concorrenti dal mercato utilizzando espliciti obblighi di contrattazione esclusiva inseriti nei contratti con la propria clientela, oppure una struttura di sconti che nei fatti produca effetti analoghi;
  • pratiche leganti, riferite a diverse tipologie di vendite abbinate in cui due o più beni o servizi sono venduti congiuntamente; se un’impresa gode di una posizione dominante su un certo mercato, attraverso una politica commerciale essa potrebbe essere in grado di traslare la propria posizione dominante anche sul mercato congiunto;
  • pratiche predatorie, in cui il comportamento predatorio si articola in due fasi: nella prima, l’impresa dominante abbassa i prezzi (con azioni di dumping, talora sovvenzionate a livello governativo, soprattutto in paesi illiberali) fino a costringere i propri concorrenti a uscire del mercato; nella seconda l’impresa, rimasta sola, innalzerà i prezzi a livello di monopolio, recuperando la perdita sopportata nella prima fase e godendo di maggiori profitti;
  • rifiuto di contrarre: si verifica quando un’impresa verticalmente integrata, che detenga una posizione dominante in un mercato a monte, influenzando anche il mercato a valle, si rifiuta di vendere beni o servizi indispensabili ad un’impresa concorrente nel mercato a valle, portando alla sua esclusione.

Un concorrente che subisce un abuso concorrenziale si vede inflitte due potenziali tipologie di danno: un danno emergente, consistente nella perdita degli investimenti specifici effettuati (costi sostenuti che divengono irrecuperabili) per realizzare i prodotti o i servizi, la cui vendita sia stata illecitamente ostacolata dall’impresa dominante; un lucro cessante, consistente nella perdita dei profitti che l’azienda avrebbe ragionevolmente ottenuto vendendo quei prodotti sul mercato interessato dalla condotta illecita.

L’illecito concorrenziale può inoltre provocare al concorrente una perdita di chances, nel caso in cui il comportamento dell’impresa dominante gli impedisca di acquisire conoscenze, competenze o titoli che gli avrebbero consentito in futuro di espandere la produzione o di entrare in nuovi mercati, precludendo il conseguimento di ulteriori vantaggi economici.

Le fattispecie di abuso sopra evidenziate vanno adattate alla peculiare tipologia rappresentata dalle piattaforme digitali.

Piattaforme digitali e antitrust

Invero le piattaforme sono state oggetto di diversi interventi ed istruttorie antitrust. Risale al 2015 l’indagine avviata dalla Commissione Europea sull’e-commerce, per comprenderne le dinamiche competitive e verificare la sussistenza di eventuali violazioni del diritto di concorrenza.

Il risultato è stato un report del maggio 2017 da cui è emerso che numerose imprese operanti nell’e-commerce, a prescindere dai settori in cui sono attive (dal largo consumo, al digitale, fino al segmento fashion) impongono ai loro distributori una serie di restrizioni alla rivendita, che possono presentare criticità sotto il profilo della tutela della concorrenza. I produttori, infatti, per meglio controllare la distribuzione dei propri prodotti, spesso adottano strategie illecite volte a ridurre la libertà di rivendita del distributore.

È il caso, per esempio, del dual pricing, ovvero il fenomeno della vendita, al medesimo rivenditore, degli stessi prodotti a prezzi diversi a seconda che questi a sua volta li rivenda online o nel negozio fisico.

Tale pratica può essere considerata legittima sotto il profilo antitrust solo in casi eccezionali, ad esempio se volta a contrastare fenomeni opportunistici di free riding di un canale (tipicamente fisico) a scapito dell’altro (tipicamente on-line).

Il report ha poi evidenziato i fenomeni del  geoblocking e il geopricing[10], ovvero:

  • condotte principalmente atte ad ostacolare le vendite online al di fuori di determinati territori, spesso coincidenti con i confini nazionali dei diversi Stati, realizzate impedendo l’accesso e la visualizzazione del sito internet del distributore a clienti che si trovano in specifici territori o creando sistemi di reindirizzamento automatico dei clienti verso il sito del produttore o verso i siti di altri distributori. Pratiche legittime solo se frutto di decisioni unilaterali di imprese che non detengono una posizione dominante; al contrario, se frutto di accordi o pratiche concordate tra imprese diverse, pratiche che possono integrare un’infrazione antitrust;
  • le condotte consistenti nell’imporre ai distributori di rivendere i prodotti a specifici prezzi, diversi a seconda del paese dell’acquirente, illecita ove frutto di un accordo tra produttore e distributore, il quale si impegna a rivendere i prodotti a specifici prezzi.

Il mercato della pubblicità online: il caso Google

Le piattaforme digitali, oltre ad essere divenute anche il più grande serbatoio di notizie al mondo, per la loro globale diffusione e la conseguente capacità attrattiva per gli utenti, usano come business model quello volto alla massimizzazione dei profitti derivanti da quella pubblicità.

Il tema è stato oggetto di una indagine dell’Antitrust inglese, la Competition & Markets Authority (CMA), “Online platforms and digital advertising”[11], di un’indagine sulla pubblicità in internet pubblicata nel 2018 dall’Autorité de la concurrence, “Avis portant sur l’exploitation des données dans le secteur de la publicité sur internet”[12] e ad una conseguente istruttoria relativa ad alcune pratiche abusive messe in atto da Google nel mercato francese della pubblicità generata dai motori di ricerca[13],oltre che, ovviamente, oggetto di studi accademici[14].

Per quanto qui di interesse, il mercato della pubblicità on line va distinto nei segmenti search e display.

Il search advertising

La pubblicità search riguarda gli annunci pubblicitari che compaiono sulla pagina dei risultati della ricerca compiuta dall’utente. I risultati e gli annunci pubblicitari collegati risultano connessi ad una specifica parola di ricerca dell’utente (keyword).

Il fenomeno presuppone il pagamento da parte dell’inserzionista alla piattaforma di un corrispettivo monetario onde avere in lista e/o inserire un collegamento al proprio sito in corrispondenza di termini e parole ritenute rilevanti per la ricerca che effettuerà l’utente.

Il search advertising si distingue poi in keyword advertising e contextual advertising;  nella prima ipotesi, il collegamento (oneroso) al sito dell’inserzionista viene pubblicato nelle Search Engine Results Page (SERP)[15] del motore di ricerca all’interno di appositi spazi pubblicitari; nella seconda, in spazi non riconducibili alla classica pubblicità

Spazi comunque creati dai motori di ricerca interpretando il contenuto delle pagine web dei siti ad essi affiliati, visualizzando i link sponsorizzati al loro interno in base ad affinità tematica all’annuncio.

Il display advertising

Il display advertising riguarda gli spazi messi a disposizione da editori e proprietari di siti web per contenuti pubblicitari in formati fissi o mobile. Il banner, che è il formato di riferimento del display advertising, viene emesso da un ad server su determinate pagine web per catturare l’attenzione di chi visita i contenuti di quelle pagine, in funzione interattiva con l’annuncio.

Il display advertising funziona in maniera simile a quanto avviene per le campagne pubblicitarie  tradizionali, sicché il valore di uno spazio pubblicitario è determinato in considerazione di parametri quali l’audience potenzialmente raggiungibile, il tempo di permanenza dell’annuncio online, le dimensioni, il formato.

Nel 2019, con la decisione che ha comminato a Google una sanzione di 1,49 miliardi di euro per abuso di posizione dominante nel mercato dell’intermediazione pubblicitaria nei motori di ricerca[16], la Commissione ha individuato a fini antitrust l’esistenza di questa complessa catena di intermediazione individuando la posizione dominante di Google nell’intermediazione connessa al suo motore di ricerca.

Ciò detto, dall’analisi condotta si trae la particolare preoccupazione di editori ed inserzionisti sull’impatto dell’utilizzo degli algoritmi usati in maniera non trasparente da parte di Google sul traffico web nei loro siti [17] e oltre che su qualità ed efficacia della pubblicità[18], sulle gare per l’acquisto degli spazi e la remunerazione degli intermediari[19].

In altri termini, la possibile esistenza di condotte abusive ed anticoncorrenziali, sotto il profilo dell’abuso di prezzo, di strategie che ritardano o impediscono l’interoperabilità con i siti di riferimento delle inserzioni pubblicitarie, del diniego di accesso alle informazioni, d’imposizione di condizioni inique.

Dal suo canto, nell’ottobre 2020 l’Antitrust Italiana ha avviato un’istruttoria ai danni della stessa Google ipotizzando un abuso di posizione dominante e cioè che la società, controllata da Alphabet Inc, avrebbe violato l’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea per quanto riguarda la disponibilità e l’utilizzo dei dati per l’elaborazione delle campagne pubblicitarie di display advertising, lo spazio che editori e proprietari di siti web mettono a disposizione per l’esposizione di contenuti pubblicitari.

Sul presupposto che Google controlli il mercato della pubblicità online, grazie alla sua posizione dominante su larga parte della filiera digitale, l’Autorità contesta alla società l’utilizzo discriminatorio dell’enorme mole di dati raccolti attraverso le proprie applicazioni, impedendo agli operatori concorrenti nei mercati della raccolta pubblicitaria online di poter competere in modo efficace. Il tutto attraverso una condotta di discriminazione interna-esterna, rifiutandosi di fornire le chiavi di decriptazione dell’ID Google ed escludendo i pixel di tracciamento di terze parti. Allo stesso tempo avrebbe utilizzato elementi traccianti che consentono di rendere i propri servizi di intermediazione pubblicitaria in grado di raggiungere una capacità di targhettizzazione che alcuni concorrenti altrettanto efficienti non sono in grado di replicare.

L’Autorità ha più specificamente evidenziato:

  • che la raccolta pubblicitaria online nel 2019 ha registrato in Italia un valore di oltre 3,3 miliardi, che rappresenta attualmente il 22% delle risorse del settore dei media, e il solo display advertising un fatturato superiore a 1,2 miliardi. Per importanza, la raccolta pubblicitaria online costituisce, in termini di valore, la seconda fonte di ricavi del settore dei media;
  • che attraverso i cookie inseriti insieme a banner, pop-up o altre forme di messaggi pubblicitari visibili durante la consultazione di un sito web è possibile per inserzionisti, agenzie e intermediari pubblicitari acquisire dati rilevanti per la scelta di consumo dell’utente e personalizzare così le successive campagne, orientando il posizionamento dei messaggi sui contenuti di interesse del singolo utente;
  • che oltre a questi dati rilevanti, Google dispone di molteplici strumenti che consentono di ricostruire in maniera dettagliata il profilo dei soggetti cui indirizzare i messaggi pubblicitari. Si tratta del sistema operativo mobile Android, installato sulla gran parte degli smartphone utilizzati in Italia, del browser per dispositivi Chrome mobile, per la ricerca in mobilità, del browser per personal computer Chrome, dei servizi di cartografia e di navigazione Google Maps/Waze e di tutti gli altri servizi erogati attraverso Google ID (gmail, drive, docs, sheet, Youtube);
  • che le condotte sembrano avere un significativo impatto sulla concorrenza nei diversi mercati della filiera del digital advertising con ampie ricadute sui competitor e sui consumatori. L’assenza di concorrenza nell’intermediazione del digital advertising, infatti, potrebbe ridurre le risorse destinate ai produttori di siti web e agli editori, impoverendo così la qualità dei contenuti diretti ai clienti finali. Inoltre, l’assenza di una effettiva competizione basata sui meriti potrebbe scoraggiare l’innovazione tecnologica per lo sviluppo di tecnologie e tecniche pubblicitarie meno invasive per i consumatori.

Le condotte oggetto d’indagine dell’Autorità sembrano avere un significativo impatto sulla concorrenza nei diversi mercati della filiera del digital advertising con ampie ricadute sui competitor e sui consumatori.

Ed infatti, l’assenza di concorrenza nell’intermediazione del digital advertising, potrebbe ridurre le risorse destinate ai produttori di siti web e agli editori, impoverendo così la qualità dei contenuti diretti ai clienti finali. Inoltre, l’assenza di una effettiva competizione basata sui meriti potrebbe scoraggiare l’innovazione tecnologica per lo sviluppo di tecnologie e tecniche pubblicitarie meno invasive per i consumatori.

Abuso di posizione dominante e intervento dell’Agcm: il caso Amazon

Ma sicuramente tra gli interventi destinati a fare storia per l’antitrust italiana si colloca quello relativo al provvedimento adottato nei confronti di Amazon.

Ad aprile 2019 l’AGCM aveva aperto un’istruttoria carico di tale società in merito all’attività di e-commerce e logistica “per accertare un presunto abuso di posizione dominante in violazione dell’articolo 102 del Tfue”.

Secondo l’assunto dell’Antitrust, Amazon conferiva “unicamente ai venditori terzi che aderiscono al servizio di logistica offerto da Amazon stessa (‘Logistica di Amazon’ o ‘Fulfillment by Amazon’) vantaggi in termini di visibilità della propria offerta e di miglioramento delle proprie vendite su Amazon.com, rispetto ai venditori che non sono clienti di Logistica di Amazon. “.

Sosteneva l’autorità che mediante quelle condotte, Amazon “sarebbe in grado di sfruttare indebitamente la propria posizione dominante nel mercato dei servizi d’intermediazione sulle piattaforme per il commercio elettronico al fine di restringere significativamente la concorrenza nel mercato dei servizi di gestione del magazzino e di spedizione degli ordini per operatori di e-commerce (mercato dei servizi di logistica), nonché potenzialmente nel mercato dei servizi d’intermediazione sui marketplace, a danno dei consumatori finali”.

Ebbene, quel procedimento si è concluso con provvedimento emesso il 9 dicembre 2021 con il quale è stata comminata una sanzione di oltre 1 miliardo e 128 milioni di euro a carico di Amazon per violazione dell’art. 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

Per l’AGCM effettivamente Amazon “detiene una posizione di assoluta dominanza nel mercato italiano dei servizi di intermediazione su marketplace, che le ha consentito di favorire il proprio servizio di logistica, denominato Logistica di Amazon (Fulfillment by Amazon, “FBA”), presso i venditori attivi sulla piattaforma Amazon.it ai danni degli operatori concorrenti in tale mercato e di rafforzare la propria posizione dominante”.

Secondo l’Autorità, le società del gruppo di Amazon hanno legato all’utilizzo del servizio Logistica di Amazon l’accesso a un insieme di vantaggi essenziali per ottenere visibilità e migliori prospettive di vendite su Amazon.it.

Tra tali vantaggi esclusivi: a) l’etichetta Prime: 1) che consente di vendere con più facilità ai consumatori più fedeli e alto-spendenti aderenti all’omonimo programma di fidelizzazione di Amazon; 2) che consente, inoltre, di partecipare a eventi speciali gestiti da Amazon, come Black Friday, Cyber Monday, Prime Day e aumenta la probabilità che l’offerta del venditore sia selezionata come Offerta in Vetrina e visualizzata nella cosiddetta Buy Box.

Il provvedimento assume che Amazon ha, così, impedito ai venditori terzi di associare l’etichetta Prime alle offerte non gestite con FBA.

Inoltre, ha accertato che ai terzi è impedito l’accesso a funzionalità della piattaforma Amazon.it cruciali per il successo dei venditori e per l’aumento delle loro vendite, mentre a coloro che utilizzano FBA non viene applicato lo stringente sistema di misurazione delle performance cui Amazon sottopone i venditori non-FBA e il cui mancato superamento può portare anche alla sospensione dell’account del venditore.

Secondo l’Autorità in tal modo Amazon:

  • ha danneggiato gli operatori concorrenti di logistica per e-commerce, impedendo loro di proporsi ai venditori online come fornitori di servizi di qualità paragonabile a quella della logistica di Amazon, così aumentando il divario tra il potere di Amazon e quello della concorrenza anche nell’attività di consegna degli ordini e-commerce;
  • ha danneggiato anche i marketplace concorrenti, a causa del costo di duplicazione dei magazzini, i venditori che adottano la logistica di Amazon sono scoraggiati dall’offrire i propri prodotti su altre piattaforme online.

L’AGCM ha concluso, poi, per la natura particolarmente grave della strategia abusiva adottata, anche in considerazione della sua durata, degli effetti già prodotti e delle dimensioni del Gruppo, sicché “ha deciso di irrogare la suddetta sanzione di oltre un 1 miliardo di euro. Inoltre, per ripristinare immediatamente le condizioni concorrenziali nei mercati rilevanti, l’Autorità ha imposto ad Amazon misure comportamentali che saranno sottoposte al vaglio di un monitoring trustee. Amazon dovrà concedere ogni privilegio di vendita e di visibilità sulla propria piattaforma a tutti i venditori terzi che sappiano rispettare standard equi e non discriminatori di evasione dei propri ordini, in linea con il livello di servizio che Amazon intende garantire ai consumatori Prime. Amazon dovrà definire e pubblicare tali standard e, a far data da un anno dall’assunzione della decisione, astenersi dal negoziare con i vettori e/o con gli operatori di logistica concorrenti – per conto dei venditori – tariffe e altre condizioni contrattuali applicate per la logistica dei loro ordini su Amazon.it, al di fuori di FBA”.

Si tratta di un intervento storico per la sua portata e le su dimensioni, avendo determinato l’irrogazione della più alta sanzione elevata nella storia dell’autorità.

Proprio per tali ragioni e per il coinvolgimento quale destinatario di una della più grande piattaforme digitali globali, che nel periodo della pandemia ha ulteriormente accresciuto il suo potere ed i suoi margini profitto, per la sua attitudini di soddisfare i bisogni e le richieste dell’utenza mondiale sottoposta alle restrizioni delle relative liberà di movimento, la decisione ha avuto l’effetto di campeggiare sulle prime pagine dei quotidiani italiani e stranieri, oltre che di occupare i primi titoli dei notiziari.

Si è accennato al provvedimento con un guanto di sfida dell’Antitrust ad Amazon [20], come mezzo di una riscossa dello Stato nel tentativo di riprendere il controllo del capitalismo delle piattaforme digitali[21]

In ogni caso si tratta di un intervento coordinato con la Commissione UE e che ha ricevuto il plauso di Bruxelles, come risultato della collaborazione all’interno della Rete europea della concorrenza (‘Ecn’) considerato forum per il coordinamento e la cooperazione tra i suoi Stati membri per garantire “uso efficiente delle risorse e un’applicazione efficace delle regole di concorrenza dell’Ue [22]

Conclusioni

I casi esaminati sono solo alcuni di quelli che a Bruxelles ed a Roma hanno interessato le attività istruttorie e le decisioni antitrust nei confronti dei Big Tech.

L’Antitrust comunitaria è intervenuta sanzionando Google e Facebook in materia di dati ed ha sottoposto ad indagini Apple per la musica in streaming [23].

L’Antitrust italiana ha a sua volta chiuso due istruttorie nei confronti di Google Ireland Ltd. e di Apple Distribution International Ltd., sanzionando entrambe per 10 milioni di euro ossia per il massimo edittale secondo la normativa vigente.

In quel caso l’Antitrust ha accertato per ogni società due violazioni del Codice del Consumo, una per carenze informative e un’altra per pratiche aggressive legate all’acquisizione e all’utilizzo dei dati dei consumatori a fini commerciali.

L’AGCM ha ricordato, nel contesto, che “Google fonda la propria attività economica sull’offerta di un’ampia gamma di prodotti e di servizi connessi a Internet – che comprendono tecnologie per la pubblicità online, strumenti di ricerca, cloud computing, software e hardware – basata anche sulla profilazione degli utenti ed effettuata grazie ai loro dati. Apple raccoglie, profila e utilizza a fini commerciali i dati degli utenti attraverso l’utilizzo dei suoi dispositivi e dei suoi servizi. Quindi, pur senza procedere ad alcuna cessione di dati a terzi, Apple ne sfrutta direttamente il valore economico attraverso un’attività promozionale per aumentare la vendita dei propri prodotti e/o di quelli di terzi attraverso le proprie piattaforme commerciali App Store, iTunes Store e Apple Books”.

In tali contesti, l’Autorità ha ritenuto che esiste un rapporto di consumo tra gli utenti e i due operatori, anche in assenza di esborso monetario, la cui controprestazione è rappresentata dai dati che essi cedono utilizzando i servizi di Google e di Apple.

L’Autorità ha accertato che sia Google sia Apple non hanno fornito informazioni chiare e immediate sull’acquisizione e sull’uso dei dati degli utenti a fini commerciali.

In particolare:

  • Google, sia nella fase di creazione dell’account, indispensabile per l’utilizzo di tutti i servizi offerti, sia durante l’utilizzo dei servizi stessi, a suo avviso omette informazioni rilevanti di cui il consumatore ha bisogno per decidere consapevolmente di accettare che la Società raccolga e usi a fini commerciali le proprie informazioni personali;
  • Apple, sia nella fase di creazione dell’ID Apple, sia in occasione dell’accesso agli Store Apple (App Store, iTunes Store e Apple Books), non fornisce all’utente in maniera immediata ed esplicita alcuna indicazione sulla raccolta e sull’utilizzo dei suoi dati a fini commerciali, enfatizzando solo che la raccolta dei dati è necessaria per migliorare l’esperienza del consumatore e la fruizione dei servizi.

Con la seconda pratica, l’Autorità ha accertato che le due società hanno attuato una pratica aggressiva.

In particolare, ha accertato che Google nella fase di creazione dell’account, pre-imposta l’accettazione da parte dell’utente al trasferimento e/o all’utilizzo dei propri dati per fini commerciali, consentendo il trasferimento e l’uso dei dati da parte di Google, una volta che questi vengano generati, senza la necessità di altri passaggi in cui l’utente possa di volta in volta confermare o modificare la scelta pre-impostata dall’azienda.

Nel caso di Apple, l’AGCM ha invece rilevato che l’attività promozionale è basata su una modalità di acquisizione del consenso all’uso dei dati degli utenti a fini commerciali senza prevedere per il consumatore la possibilità di scelta preventiva ed espressa sulla condivisione dei propri dati. Questa architettura di acquisizione, predisposta da Apple, secondo l’Autorità non rende possibile l’esercizio della propria volontà sull’utilizzo a fini commerciali dei propri dati.

Dunque, il consumatore viene condizionato nella scelta di consumo e subisce la cessione delle informazioni personali, di cui Apple può disporre per le proprie finalità promozionali effettuate in modalità diverse.

Il dettaglio che precede evidenzia, in maniera palmare, la sussistenza di una serie di interventi in tema antitrust frutto, a loro volta, di concertazione di iniziative e di scambi d’informazioni tra le autorità unionali e quelle dei singoli paesi dell’unione.

Ancor di più rappresenta un crescendo di attenzione sulla tematica della concorrenza e dei rischi al relativo pieno e libero dispiegarsi derivanti dall’esistenza di abusi di posizioni dominanti, di monopoli e di grandi concentrazioni ed intese tra gli operatori più rilevanti dell’universo delle piattaforme digitali.

Un crescendo testimoniato dall’approvazione da parte del Parlamento Europeo delle norme del DMA che consentono l’adozione di sanzioni, in ipotesi di violazioni delle regole della concorrenza, per un ammontare sino al 20% del fatturato dei soggetti interessati; al contempo, dal documento conclusivo del summit del G7 della Autorità Antitrust, che ha posto al centro l’esigenza della creazione di un’economia globale più produttiva e resiliente che abbia al centro la tecnologia digitale e che tuttavia rispetti diritti umani e libertà fondamentali.

Note

  1. “Il web è di tutti: ora è il momento di riprendercelo” di Luciano Floridi, in La Repubblica, 29.1.2021.
  2. Così A. Barabási, Network Science, Cambridge, 2016
  3. “il nostro ruolo è applicare il diritto della concorrenza per mantenere aperti i mercati e garantire una competizione non vietata”, così Marghrete Vestager, Commissaria UE alla Concorrenza, La Repubblica, 10.12.2021
  4. Il 30 maggio 2017 l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni , con delibera n. 217/17/CONS recante “Avvio di un’indagine conoscitiva sui big data”, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con provvedimento n. 26620 del 30 maggio 2017 “IC53 – Big Data”, e il Garante per la protezione dei dati personali – sulla base delle determinazioni adottate nell’adunanza collegiale dell’11 maggio 2017, hanno avviato congiuntamente una Indagine conoscitiva volta ad approfondire la conoscenza degli effetti prodotti dal fenomeno dei Big Data e analizzarne le conseguenze in relazione all’attuale contesto economico-politico-sociale e al quadro di regole in vigore. L’AGCM nell’ambito del suo intervento nella riferita indagine ha diviso in tre grandi macrocategorie le aree di impresa in cui possono operare i Big Data: e comunque affermato come l’utilizzo dei dati agisca sulle dinamiche competitive e concorrenziali del mercato. In particolare, ha rilevato come i vari business fondati sui Big Data caratterizzano fortemente i modelli economici dei servizi digitali, con elevati livelli di concentrazione ed operatori che detengono posizioni di assoluto rilievo in questi mercati. Ad esempio, il potere di mercato d Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, di dimensione globale e caratterizzato da servizi che rivestono un ruolo centrale nella vita degli utenti (privati o imprenditori) e nelle transazioni smaterializzate e digitali. Il lavoro congiunto delle tre Autorità le ha condotte alle seguenti conclusioni, in prospettiva di tutela dell’utente e del mercato: invito al Governo ed al Parlamento a valutare norme a tutela della piena ed effettiva trasparenza nell’uso delle informazioni personali; 2- rafforzamento della cooperazione internazionale sul disegno di policy per il governo dei Big Data; 3- promozione di una policy unica e trasparente circa l’estrazione, l’accessibilità e l’utilizzo dei dati pubblici, con coordinamento tra tale policy e le strategie europee già esistenti per la costituzione di un mercato unico digitale; 4- riduzione delle asimmetrie informative tra utenti e operatori digitali, nella fase di raccolta dei dati, nonché tra le grandi piattaforme digitali e gli altri operatori che di tali piattaforme si avvalgono.
  5. J. Alleman – E. Baranes – P.N. Rappoport, Multisided Markets and Platform Dominance. In: J. Alleman – P. Rappoport – M. Hamoudia (eds), Applied Economics in the Digital Era. Palgrave Macmillan, Cham, 2020
  6. A. Pera, Concorrenza e antitrust, Bologna, 2009; L. Prosperetti – M. Siragusa – M. Beretta – M. Merini, Economia e diritto antitrust, Roma, 2006. Per un excursus internazionale, si veda R.D. Blair – D.D. Sokol, The Oxford Handbook of International Antitrust Economics, Oxford, 2015; R.D. Blair – D.D. Sokol, The Cambridge Handbook of Antitrust, Intellectual Property, and High Tech, Cambridge, 2017.
  7. Le intese collusive possano essere, in verità, anche contemporaneamente orizzontali e/o verticali. Le più diffuse nei mercati si profilano in forma di elevate barriere all’ingresso. Vi sono poi intese di cooperazione orizzontale (accordi di acquisto, di vendita, di collocazione sul mercato, di ricerca e sviluppo.) che possono comportare benefici economici, sia per le grandi imprese ( si pensi alla distribuzione selettiva) che alle piccole e medie imprese. Le intese orizzontali possono sfociare in comportamenti anticoncorrenziali quando riguardano la fissazione dei prezzi, la limitazione della produzione e la ripartizione dei mercati. Le intese verticali sono diffuse nei rapporti fra produttore e distributore e possono sfociare in abusi della concorrenza soprattutto in termini di accordi sui prezzi e di quantità da vendere.
  8. Cfr http://www.agcm.it/concorrenza-competenza/abuso-di-posizione-dominante.html
  9. Ricorda l’AGCM che “La capacità dell’impresa di imporre determinate condizioni in uno specifico rapporto contrattuale non determina, di per sé, una posizione dominante. Tuttavia, lo sfruttamento di questo potere negoziale può comportare, quando ne ricorrano le condizioni, un abuso di dipendenza economica. Ferma restando l’applicazione dell’articolo 3 della legge 287/90 in materia di abuso della posizione dominante, l’Autorità può intervenire qualora ravvisi un abuso di dipendenza economica che abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato (Art. 11legge 5 marzo 2001, n. 57). Si ha abuso di dipendenza economica quando un’impresa è in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità, per la parte che abbia subìto l’abuso, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti (Art. 9legge 18 giugno 1998, n. 192)”.
  10. V. Falce, Appunti sul regolamento europeo sul geo-blocking e la neutralità geografica. In cammino verso il mercato unico digitale, in Contr. e impr., 2019, 1287; G. Gimigliano, Il regolamento c.d. geo-blocking nel quadro della disciplina sul commercio elettronico, in Ianus, 18, 169, 2018.
  11. CMA, Online platforms and digital adversiting. Market study interim report, London, december 2019.
  12. Autorité de la concurrence, Avis n.18-A-03 du 6 mars 2018.
  13. Autorité de la concurrence, Décision n° 19-D-26 du 19 décembre 2019 relative à des pratiques mises en oeuvre dans le secteur de la publicité en ligne liée aux recherches.
  14. Fiona M. Scott Morton, David C. Danielli, Roadmap for a Digital Adversiting Monopolization Case Against Google, Omydar Network, may 2020.
  15. SERP è la pagina dei risultati del motore di ricerca. Ogni qualvolta un utente effettua una ricerca con un motore, infatti, ottiene come risposta un elenco ordinato.
  16. Commissione UE, Decisione Google/AdSense del 20 marzo 2019, n. 40411.
  17. Sulla base del Report della CMA, infatti, sembra che Google offra ai grandi pubblicitari meno del 40% del traffico e modifiche agli algoritmi utilizzati da Google Search hanno determinato drastiche e improvvise riduzioni della navigazione su specifici quotidiani, con evidenti ripercussioni finanziarie che non possono essere né previste né gestite adeguatamente.
  18. In termini di numero totale di visualizzazioni di un annuncio pubblicitario servite da un ad server a un utente in un dato intervallo temporale (c.d. ad impressions).
  19. Con riguardo alla qualità e all’efficacia della pubblicità, per esempio, Google non consente una verifica indipendente del proprio ad inventory con la conseguenza che valuta da sola la qualità e l’efficacia degli spazi pubblicitari offerti.
  20. Così su La Repubblica del 10.12.2021.
  21. Così su Domani dell’11.12.2021 “Amazon e Big Tech: la riscossa dello Stato passa per l’antitrust” a firma di Stefano Feltri .
  22. Nel prendere atto della decisione odierna dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, guidata dal presidente Roberto Rustichelli, secondo cui Amazon ha abusato della propria posizione dominante sul mercato dei servizi di marketplace in Italia, Bruxelles mette in rilievo l’importanza della Rete europea della concorrenza (‘Ecn’), un forum per il coordinamento e la cooperazione tra i suoi Stati membri per garantire “uso efficiente delle risorse e un’applicazione efficace delle regole di concorrenza dell’Ue”. In questo caso, “l’attribuzione della causa e’ stata concordata congiuntamente” tra Italia e Ue, “alla luce dei tempi, della portata e delle relative ipotesi di danno dei rispettivi procedimenti, al fine di garantire il miglior utilizzo delle risorse a vantaggio dei consumatori e delle imprese dell’Ue” e “tale approccio e’ stato confermato dal Tribunale con ordinanza del 14 ottobre 2021”.
    Bruxelles ricorda quindi le indagini Ue aperte e ancora in corso nei confronti della società di Jeff Bezos. Nello specifico, il 10 novembre 2020 la Commissione europea ha messo formalmente sotto accusa Amazon (nell’ambito di un’indagine avviata nel 2019) per l’utilizzo improprio dei dati aziendali non pubblici dei venditori indipendenti che si usano la sua piattaforma di vendita, una pratica con cui creerebbe un vantaggio per le proprie attivita’ di vendita al dettaglio a discapito degli stessi venditori terzi, e ha avviato una seconda indagine formale sulle pratiche commerciali della multinazionale per vederci chiaro sulle modalità attraverso le quali spinge i propri servizi come Buy Box e il programma fedeltà Prime., così ANSA 9.12.2021
  23. “Da Bruxelles a Roma. La nuova rete europea contro i giganti tech” in La Repubblica del 10.12.2021

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