i dati

Pirateria, così la pubblicità finanzia i siti web illegali

Nonostante lo sforzo profuso da imprese e istituzioni, la diffusione di inserzioni pubblicitarie su siti web illeciti o che veicolano contenuti inappropriati continua a crescere. Un business che danneggia sia i titolari dei diritti che i marchi coinvolti a loro insaputa. Le contromisure che servono

Pubblicato il 12 Ago 2020

Luciano Daffarra

C-Lex Studio Legale

videoregistrazione da remoto

In quale misura la pubblicità online va a finanziare siti web che favoriscono la pirateria audiovisiva o diffondono contenuti inappropriati? Secondo un recente report sulla trasparenza delle transazioni commerciali pubblicitarie online dell’ISBA (Incorporated Society of British Advertising), unico soggetto a rappresentare i marchi pubblicitari delle imprese nel Regno Unito,  gli strumenti telematici che consentono la collocazione delle inserzioni pubblicitarie sulla base di transazioni istantanee basate su domanda e offerta (cosiddetto “programmatic advertising”) presentano, sul valore globale degli investimenti, un delta sconosciuto pari al 15% del mercato totale, di cui non si conosce la destinazione.

Bene, a parere di molti operatori del settore che hanno rilasciato nette dichiarazioni in tal senso dopo avere esaminato i dati elaborati dall’ISBA, parte di questo 15% sarebbe destinato a fornire risorse pubblicitarie a siti illeciti o recanti contenuti abusivi o inappropriati.

Il ruolo delle agenzie pubblicitarie

In particolare, la White Bullets Solutions, un’impresa che fra i propri compiti svolge quello di identificare, prendere di mira e monitorare i siti web che violano i diritti di proprietà intellettuale, ha da subito sollevato critiche allo studio dell’ISBA per non avere fornito ragguagli più precisi circa la destinazione di una significativa porzione dei messaggi pubblicitari che raggiungono le piattaforme illegali attraverso la tecnologia programmatic.

Lo studio dell’ISBA, che ha riguardato 31 milioni di “ad impressions”, più di 50 imprese titolari di marchi noti, 2,2 miliardi di dati controllati e l’osservazione di 267 milioni di inserzioni collocate sul mercato pubblicitario, nelle proprie stesse conclusioni dell’analisi di mercato svolta, raccomanda alle agenzie pubblicitarie di attivarsi per comprendere quale sia la destinazione di questa fetta rilevante del “programmatic advertising” che deve essere ricondotta a trasparenza.

I dati snocciolati dalla White Bullet Solutions appaiono impietosi: i 5.000 siti più a rischio di violazioni di legge, posizionati nei sei paesi maggiormente interessati al fenomeno, evidenziano una crescita media del 43% della pubblicità inserita nelle loro pagine nel periodo che intercorre dal 4° trimestre 2019 al 1° trimestre 2020. Questa confluenza di inserzioni pubblicitarie sui siti web contraffattori ha raggiunto nel 1° trimestre del 2020 un totale di ad impressions pari a 4,2 miliardi, con una crescita significativa in Francia (+85%) e con un incremento nello specifico settore dell’arte e dell’entertainment pari al +76%.

Senza avere svolto indagini di mercato e senza avere frequenti contatti con i soggetti della filiera del mercato pubblicitario, le Forze dell’Ordine del nostro Paese da anni denunciano la presenza di marchi pubblicitari anche noti che, senza che le imprese che li posseggono abbiano mai pianificato la loro collocazione su siti web illegali, vengono veicolati attraverso canali attivi nel mercato digitale in questa nicchia “dark” del worldwideweb.

Le preoccupazioni della Commissione europea

Le analisi svolte in Gran Bretagna confermano le preoccupazioni dalla Commissione Europea che, nel corso di un General Meeting svoltosi il 14 marzo 2016, aveva riunito i delegati del settore della pubblicità, degli intermediari (ISP), dei titolari dei diritti su contenuti e marchi, dei media online, delle associazioni dei consumatori, allo scopo di prevenire la crescita della collocazione di messaggi pubblicitari su siti web che violassero i diritti di proprietà intellettuale. Nell’ottobre del medesimo anno la Commissione Europea è giunta a stabilire alcuni principi cui si sarebbero dovuti uniformare i comportamenti dei diversi stakeholder al fine di ridurre in maniera significativa il ricorrere di queste deviazioni del mercato che danneggiassero sia gli inserzionisti pubblicitari che i marchi dagli stessi rappresentati. A tale fine si propose la firma di un memorandum of understanding su base volontaria fra i rappresentanti delle varie forze in gioco.

L’effetto di questa iniziativa ebbe scarso successo in quanto, come rilevato dallo studio analitico dei dati emersi nel corso della conferenza Follow the Money: Piracy and online Advertising” tenutasi a Passau in Germania il 30 luglio 2017, il risultato degli impegni di self regulation posti in essere in base al MoU di cui sopra, non sono in grado di condurre a una significativa riduzione della pubblicità sui siti web illegali.

Nonostante lo sforzo profuso da imprese e istituzioni, la diffusione di inserzioni pubblicitarie non volute è andato quindi crescendo nel tempo tanto che la stessa WIPO (l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale) nel marzo del 2019 aveva organizzato a Ginevra un incontro dal titolo “WIPO Ad Funded Piracy Meeting” per porre a confronto i soggetti coinvolti in questa delicata materia. Purtroppo, questo evento fu cancellato all’ultimo istante perché alcuni operatori del settore pubblicitario invitati al meeting decisero di dare forfait.

Conclusioni

In questo contesto, articolato e complesso, si rileva dalle molteplici attività investigative svolte dalle Forze dell’Ordine in tema di pirateria online, che vi sono costanti e ripetuti dialoghi fra alcune concessionarie di pubblicità, il cui business principale consiste nel fornire risorse ai siti web, e i gestori amministratori di questi ultimi, senza che possano esservi dubbi circa la conoscenza da parte delle prime di quale sia la destinazione finale delle loro “ad impressions” e cioè le piattaforme che offrono abusivamente contenuti protetti da copyright. In molti dei casi cui facciamo riferimento, si tratta di imprese concessionarie collocate in paesi esteri nei quali risulta difficile sia acquisire informazioni sulle operazioni finanziarie compiute allo scopo di alimentare i siti web contraffattori, che bloccare i loro conti correnti, in assenza di rogatorie internazionali o di una efficace collaborazione giudiziaria in materia.

Ferma restando quindi l’opportunità di avviare specifici brand integrity programs, volti a sensibilizzare i vari soggetti coinvolti nella collocazione dei messaggi pubblicitari in rete, i dati che emergono dalle recenti analisi di mercato, cui abbiamo poc’anzi fatto cenno, ci fanno sperare che si possa aprire in tempi brevi un nuovo confronto fra gli stakeholder attraverso il quale porre fine a iniziative commerciali che danneggiano le imprese titolari dei diritti di proprietà intellettuale ma anche, in misura non inferiore, la buona immagine dei prodotti e dei marchi coinvolti, loro malgrado, in questa forma di finanziamento dell’illegalità.

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