Anche i social network, oltre alle piattaforme eCommerce, hanno intrinsecamente il potere sia di arrivare al consumatore con le modalità che ritengono opportune, che di influenzare il successo commerciale di chi offre, tramite il loro spazio di intermediazione, beni e servizi online.
Ecco perché ci sono pochi dubbi sul fatto che anche i social debbano essere considerati dei marketplace, intermediatori online, e che debbano, di conseguenza adeguarsi alle nuove prescrizioni regolamentari a tutela dei venditori online che offrono beni e servizi ai consumatori finali tramite le stesse, in vigore dal 12 luglio.
Vediamo perché e come procede l’implementazione da parte dei big tech del Regolamento Ue, che interviene per limitare un’arbitraria gestione del mercato.
Oneri e sanzioni
Innegabile è l’interesse verso due nuove modifiche imposte dal regolamento EU 2019/1150: l’obbligo per gli intermediari online di offrire un servizio di mediazione e l’obbligo di mettere nero su bianco i principali parametri che determinano il posizionamento dell’utente commerciale e i motivi dell’importanza di tali parametri principali rispetto ad altri.
Detto ciò, è bene precisare che, la predisposizione di sanzioni (proporzionate e dissuasive) è compito demandato agli Stati membri che si attiveranno nel breve periodo per dare effettiva attuazione al progetto di un mercato unico digitale nell’UE (insieme al Digital service act, probabilmente in vigore dal 2022).
Applicazione del nuovo regolamento 2019/1150 ai social network
Viene chiamato “regolamento marketplace”, ma il dubbio più frequente, dall’entrata in vigore dello stesso, è se i social network possano o meno considerarsi, al pari dei marketplace, intermediatori online e, conseguentemente, se questi debbano adottare quelle garanzie minime a tutela delle aziende che incontrano i propri utenti tramite gli stessi social, anche utilizzando strumenti più semplici, come ad esempio le pagine aziendali su Facebook.
A nostro avviso e in attesa di FAQ, la risposta non può che essere affermativa.
Il considerando 11 della normativa, infatti, nell’esemplificare il concetto di “intermediario”, include “i servizi online dei social media”, specificando altresì che non dovrebbe essere rilevante il fatto che eventuali transazioni tra gli utenti commerciali e i consumatori siano concluse offline.
È proprio il caso della pagina aziendale del social network, tramite il quale questo consente alle aziende di offrire beni o servizi ai consumatori, con il mero obiettivo di facilitare l’avvio di transazioni dirette tra tali aziende e i consumatori, a prescindere da dove poi siano concluse dette transazioni (ho ricalcato esattamente l’articolo 2 comma 2 del Regolamento, che fornisce la definizione di “intermediario online”).
In altri termini, per rientrare nell’ambito di applicazione della normativa non serve indagare sul successivo ed eventuale rapporto contrattuale tra venditore e consumatore (che può avvenire addirittura offline e senza l’utilizzo della piattaforma di intermediazione per lo step finale del contratto).
Al momento, quindi, pochi dubbi.
Saranno invece escluse, e non obbligate a adeguarsi, le piattaforme che consentono vendite peer2peer che intercorrono esclusivamente tra due consumatori, nonché vendite tra due Business (ove non compare il consumatore finale). Parimenti esclusi sono tutti i servizi ausiliari, tra cui i servizi di pagamento online, i servizi di pubblicità online, gli scambi pubblicitari online, i servizi software di ottimizzazione per i motori di ricerca, i servizi su software che bloccano la pubblicità, e tutti i servizi analoghi che non sono forniti con l’obiettivo di agevolare l’avvio di transazioni.
Ad essi potrebbero aggiungersi nel prossimo futuro anche piattaforme nate dall’evoluzione di alcuni dei più diffusi servizi di messaggistica istantanea anch’esse dirette ad instaurare contatti diretti tra utenti business e consumatori per la conclusione di contratti in-app anche attraverso valute virtuali interne al servizio. Un esempio è Whatsapp, che adesso ha anche Whatsapp Payments, introdotto in alcuni mercati emergenti e che dovrebbe essere in un prossimo futuro abilitato anche in altri Paesi.
Status dell’implementazione del regolamento Ue 2019/1150
Vediamo concretamente se e come si sono adeguate le piattaforme più importanti e, soprattutto, come un merchant può volontariamente usufruire di questo servizio di mediazione che lascia comunque impregiudicato il diritto di avvalersi, dopo un eventuale reclamo, delle vie legali (anche se più dispendiose sotto il profilo temporale ed economico). Però occorre prima precisare che, sebbene si possa ottenere responso positivo del mediatore, la piattaforma è libera di adempiere o meno alle raccomandazioni. In caso di inerzia, un giudice che si trova di fronte ad una proposta di mediazione (favorevole al Vendor) può trarne un argomento di prova per la condanna dell’intermediatore online.
Applicazione o meno ai social network, Facebook è di recente divenuto anche marketplace puro con Facebook Shops. All’interno dei suoi termini e condizioni troviamo l’unica e sola pagina di aggiornamento della piattaforma con le nuove (a nostro parere troppo succinte) prescrizioni.
Tuttavia, sebbene la procedura di gestione interna dei reclami sia già presente, Facebook si è limitata solo alla creazione della predetta pagina di “Avviso Platform to Business” e non vi è traccia della nomina dei mediatori. Di fatto manca un vero e proprio aggiornamento alle nuove regole obbligatorie nei termini e condizioni, rimasti fermi al 31 luglio 2019. Anche nella sezione aggiornamento dei termini e condizioni commerciali (che entreranno in vigore il 31 agosto 2020), non vi è traccia della nomina di alcun organo di mediazione.
Ciò comporta che migliaia di casi che speravano finalmente di avvalersi delle nuove garanzie europee si trovano ancora sprovvisti di una soluzione stragiudiziale dignitosa. Parliamo di migliaia di venditori che senza ricevere qualsivoglia motivazione, ogni giorno si scontrano con l’arbitraria decisione di Facebook (e non solo) di sospendere o addirittura bloccare senza termine pagine Business, così interrompendo canali di vendita anche cospicui.
Il caso più rilevante in Italia è quello dell’imprenditore Alessandro Albertini, che da anni conduce Business importanti e guadagni ingenti sulla piattaforma Facebook. Ebbene, più volte, precisamente 34 volte, la Platform ha bloccano o del tutto bannato i suoi account (tra cui quelli con quasi 30.000 followers e like) senza motivazione nonostante fosse compliant con le policy della piattaforma. Si è pertanto scontrato con quella che purtroppo è la normalità per gli utenti commerciali, ovvero lunghi e dispendiosi tentativi di dialogo senza successo. L’assistenza fornita si limitava – e si limita tuttora – a risposte automatiche dei bot (ad eccezione di un account su cui è riuscito dopo anni ad ottenere l’assistenza diretta con un operatore). Pertanto, molto spesso l’alternativa adottata rimane l’unica possibile, quella di spostare il business su un altro account con ogni evidente pregiudizievole conseguenza. Questa situazione comporta che molte aziende più piccole, non riuscendo a sostenere le tempistiche lente di Facebook, o peggio la totale assenza di riscontro, sono costrette a chiudere definitivamente il canale.
Amazon
Contrariamente a Facebook, Amazon si è da subito adeguato prevedendo “Il Programma di Mediazione Aziendale per la Piattaforma Amazon” amministrato dal Centro per l’effettiva risoluzione delle controversie (Centre for Effective Dispute Resolusion: “CEDR”).
Per avviare la procedura di mediazione l’Utente deve avere già fatto reclamo ad Amazon mediante il sistema interno della piattaforma stessa ed essere in possesso del codice reclamo necessario per avviare poi la procedura di mediazione presso il CEDR.
Ciò posto occorre inviare al CEDR un modulo di domanda. Se la domanda è ammissibile il CEDR invierà all’utente il numero identificativo della procedura. Dalla ricezione di tale identificativo decorre il termine di 3 giorni per apportare eventuali modifiche o integrazioni alla domanda, ovvero per fornire ulteriori mezzi di prova. Decorso tale primo termine decorre il secondo termine di giorni 14 entro i quali il CEDR dovrà valutare se la domanda rientra o meno nell’ambito di applicazione del “Programma”. In caso di valutazione positiva il CEDR notificherà l’istanza ad Amazon il quale nei successivi 14 giorni potrà opporsi nel caso in cui ritenga che la controversia non rientri nell’applicazione del programma ovvero inviare al CEDR la sua risposta scritta al reclamo dell’utente. Una volta ricevuta la risposta da Amazon il CEDR nominerà formalmente il mediatore.
Dalla lettura del programma sembra trattarsi di una mediazione telematica e cartolare: al mediatore verrà inviata tutta la documentazione relativa agli scambi pregressi in forza della quale il mediatore valuterà se formulare o meno una proposta (la decisione) entro 40 giorni dalla sua nomina. La decisione sarà inviata per iscritto e motivata. La proposta-decisione non è vincolante e la sua concreta attuazione è rimessa alla discrezionalità di Amazon. Quanto ai costi si legge che verrà addebitata alle parti, al momento dell’avvio della procedura, una commissione suddivisa in parti uguali di £490 più l’IVA britannica (se applicabile) se l’indirizzo registrato dell’Utente è nel Regno Unito, o di € 538 in caso di Stato membro UE. Nel caso in cui il Mediatore formuli la proposta, (e la vertenza sia, quindi, risultata fondata), tale costo sarà rimborsato all’Utente entro 30 giorni dalla formulazione della proposta.
Anche qui riportiamo un caso concreto, quello di un venditore online di Amazon che, a causa di recensioni infondate e del tutto contestate con documentazione esibita alla piattaforma (i cosiddetti piani di azione) ha subito la chiusura di tutti gli account Amazon aperti in più paesi europei. Nonostante l’adeguamento alla nuova normativa e la possibilità di adire il mediatore, è Amazon a decidere prima di tutto se chiudere un reclamo e, poi, se fornire il codice di accesso alla procedura di mediazione. Molto spesso la risposta che si ottiene è “non abbiamo sufficienti elementi per valutare la sua richiesta”. Da qui si comprendere come, nonostante l’obbligo assolto di indicare nei termini e condizioni i mediatori ai sensi dell’art. 12 del Regolamento 2019/1150, l’efficacia di questo strumento trova degli ingiustificati limiti nella fase antecedente alla richiesta di accesso alla mediazione, dove tutto è rimesso all’esclusiva scelta della Platform.
Anche Google si è avvalso del CEDR che può essere adito dopo il tentativo interno di risoluzione della controversia, come ad esempio la nuova sezione per gli account bloccati o sospesi.
Il form di richiesta di mediazione Google è ancora in inglese e si auspica che, conformemente alla normativa che prevede l’utilizzo della lingua dell’utente commerciale, venga aggiornata quanto prima anche in italiano. La troviamo a questa pagina a cui si accede dalla sezione “elenco di servizi e termini aggiuntivi specifici dei servizi”.
Anche qui, come Amazon, occorre il preliminare consenso della Piattaforma che invia il codice di accesso al CEDR che andrà pertanto incluso del form di applicazione alla mediazione. Dopo l’invio del modulo di applicazione, sarà cura dell CEDR richiedere a Google l’adesione alla mediazione. Se Google aderisce, le parti firmeranno il contratto del CEDR e verseranno la fee.
I costi della procedura sono ovviamente (come da regolamento) suddivisi tra Google e l’Utente commerciale, tuttavia qui la percentuale varia: il 60% è a carico della Platform, il 40% del venditore. Inoltre viene modulato in base al valore della controversia (a cui corrisponde un determinato effort in termini di ore).
Al mediatore incaricato dal CEDR verranno inviate le osservazioni relative alla disputa e le parti potranno scambiarsi i relativi documenti. Nel caso di Google, la procedura non sarà solo cartolare, ma verrà fissato, entro 30-45 giorni dalla domanda di applicazione, un incontro virtuale delle parti con il mediatore.